
La nuova composizione delle Camere
I problemi aperti
AGGIORNAMENTI NORMATIVI
La legge di revisione costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, ratificata dal referendum, richiede una riflessione sulle conseguenze che dispiega sull’intera architettura costituzionale, legislativa e regolamentare.
di Piera Mantione
Il popolo italiano […] ha una sola abitudine circa il Parlamento: parlarne male;
e con la nuova Costituzione occorrerà elevare il prestigio del Parlamento.
G. Conti, Resoconto della Commissione per la Costituzione, 18 settembre 1946, in camera.it.
Premessa
La composizione delle Camere è stata oggetto di ampio dibattito in Assemblea costituente. Alcuni deputati, tra cui l’onorevole L. Einaudi, caldeggiavano una composizione snella dell’Assemblea, perché il numero ridotto avrebbe conferito al Parlamento autorevolezza e agilità di funzionamento.
Altri deputati, tra cui l’onorevole U. Terracini, sostenevano la tesi che un maggior numero di parlamentari avrebbe meglio garantito la rappresentanza dei cittadini. Comunque, nelle proposte dei gruppi politici presenti in Assemblea costituente, la composizione delle Camere risultava molto variabile.
Prevalse l’ipotesi più rappresentativa per il timore che la riduzione del numero dei parlamentari si trasformasse in una diminuzione della autorevolezza della Camera e del Senato.
Autorevolezza dell’assemblea legislativa che, purtroppo, per diversi decenni non si è affermata; l’inefficienza del Parlamento è stata manifesta in diverse legislature, forse giustificata dall’attesa di una riforma del bicameralismo che, anche quando è stata approvata dal legislatore costituzionale, non è stata ratificata dal referendum confermativo (2006 e 2016).
Tale inefficienza ha prodotto l’allontanamento del Parlamento dai centri decisionali a vantaggio dell’esecutivo che, per quanto debole dal punto di vista della legittimazione elettorale, è diventato, attraverso la decretazione delegata e la decretazione d’urgenza, il protagonista istituzionale della produzione normativa.
Forse per questo il corpo elettorale, nel settembre 2020, ha ritenuto che non vi fossero ragioni per rifiutare la riforma costituzionale approvata nell’ottobre 2019; di conseguenza, dalla prossima legislatura le Camere saranno composte da 200 senatori e da 400 deputati.
Se si vuole cogliere un messaggio dal risultato del referendum costituzionale del settembre 2020, non si può non evidenziare la sfiducia dei cittadini elettori nei confronti delle istituzioni e in particolare delle assemblee rappresentative. Per recuperare fiducia nel Parlamento è necessario che l’Assemblea sia messa nelle condizioni di lavorare con efficienza fin dalla prossima legislatura.
Perché ciò si realizzi occorre dare risposte a una serie di questioni costituzionali, legislative e regolamentari, nel rispetto delle ragioni che hanno indotto il legislatore costituzionale ad approvare la riforma (esigenze di risparmio della spesa pubblica e miglioramento del funzionamento dell’istituzione parlamentare).
La composizione delle Camere: una riforma continua
Il dibattito sulla composizione del Parlamento non si è mai sopito. La riduzione del numero dei parlamentari, generalmente accompagnata dalla differenziazione delle funzioni delle due Camere, è stata oggetto di numerose proposte di riforma costituzionale: da quella elaborata dalla Commissione Bozzi (1983) a quella presentata dalla Commissione D’Alema (1997); dalla riforma approvata dal Parlamento nel 2005 a quella prevista dal gruppo di lavoro istituito dal Presidente della Repubblica G. Napolitano nel 2013; e infine, seppur soltanto per il Senato, alla revisione costituzionale approvata nel 2016.
La proposta Bozzi ipotizzava un deputato ogni 110.000 abitanti e un senatore ogni 200.000 (a quel tempo sarebbero stati eletti 514 deputati e 282 senatori). Il progetto D’Alema ipotizzava un Senato di 200 componenti e una Camera composta da un numero di deputati compreso tra 400 e 500 (il numero esatto sarebbe stato definito con legge). La revisione costituzionale del 2005 (non confermata nel 2006) prevedeva una Camera composta da 518 deputati e un Senato di 252 membri. La revisione costituzionale del 2016 (non confermata dal corpo referendario nello stesso anno) contemplava una Camera a numeri invariati (630 deputati) e un Senato composto da 100 membri.
Checks and balances
In presenza di una revisione parziale della Costituzione, il legislatore costituzionale è sempre chiamato a verificare l’intera architettura, fondata su pesi e contrappesi, che va riequilibrata con correttivi ad oggi ipotizzati in alcuni progetti di legge di revisione costituzionale.
Innanzitutto il progetto di legge con cui si vuole procedere all’equiparazione dei requisiti per l’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, per limitare ipotesi di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento (l’iter legislativo si trova all’inizio del suo percorso).
Di particolare importanza la proposta di legge di revisione costituzionale tesa a modificare la base regionale per l’elezione del Senato; le modifiche al momento sono ferme a una seconda lettura della Commissione affari costituzionali della Camera, insieme all’ipotesi di una base circoscrizionale per l’elezione del Senato che attutisca la sproporzione che si creerebbe nella distribuzione dei senatori in cinque regioni.
È stato anche presentato un progetto per la riduzione, in proporzione alla diminuzione dei parlamentari, dei delegati regionali che integrano il Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica. Tale riduzione ricreerebbe l’equilibrio previsto originariamente in Costituzione; invece il mantenimento del numero attuale darebbe alla delegazione regionale la possibilità di incidere con maggiore forza nella scelta del Presidente della Repubblica. Infine è stato depositato in Senato un disegno di legge, di modifica dell’articolo 138 della Costituzione, diretto a innalzare i quorum necessari per l’approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Entrambe le proposte sono ferme in Commissione affari costituzionali.
Di altre possibili revisioni connesse alla riduzione del numero dei parlamentari, tra cui un nuovo rapporto fiduciario tra le Camere e il Governo e la razionalizzazione della questione di fiducia non si registrano iniziative parlamentari; mancano al momento anche proposte per snellire il procedimento legislativo ordinario al fine di frenare il ricorso alla decretazione d’urgenza e alla decretazione delegata.
Il bicameralismo
La riforma confermata dal referendum costituzionale del settembre 2020 ha certamente una portata limitata a differenza delle leggi di revisione del 2005 e del 2016, che prevedevano, oltre la riduzione del numero dei parlamentari, la modifica del bicameralismo perfetto. Ma la differenziazione tra le due Camere, anche se generalmente condivisa, è stata bocciata dagli elettori nei rispettivi referendum confermativi, i quali hanno dimostrato che il corpo elettorale non vede nel bicameralismo un ostacolo alla stabilità dell’esecutivo, anzi ne apprezza la capacità di rimediare agli errori commessi dalla prima Camera durante l’iter legis.
La riduzione di deputati e senatori potrebbe essere l’occasione per adeguare la legislazione elettorale e l’organizzazione delle Camere nella direzione uniformante indicata dal corpo referendario nel 2006 e nel 2016, tenendo anche in considerazione quanto suggerito dalla Corte costituzionale nel monito finale della sentenza n. 35 del 2017 e da ultimo, nell’ordinanza n. 60 del 2020, nel passaggio in cui ha riservato un trattamento di sostanziale insindacabilità alla seconda e definitiva lettura del disegno di legge di bilancio.
Il monito della suprema Corte
«Questa Corte non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum ex art. 138 Cost. del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive.
In tale contesto, la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee».
Corte costituzionale, Sentenza n. 35/17
Il sistema elettorale
Per quanto riguarda la legge elettorale occorre ricordare il monito della Corte costituzionale, che nella sentenza n. 26 del 1997 ha chiarito l’esigenza di assicurare sempre l’operatività degli organi costituzionali, consentendo il loro rinnovo in qualsiasi momento. Da questo punto di vista è intervenuta la legge n. 51 del 2019, recante “Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari”; in concreto la legge n. 51 del 2019 (una sorta di attuazione anticipata della revisione costituzionale sulla composizione delle Camere) consente al Governo di modificare la composizione dei collegi, assicurando l’applicabilità delle disposizioni elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari.
Ma i problemi non si limitano all’applicabilità delle disposizioni elettorali vigenti. La riduzione dei parlamentari aumenta il potere marginale dei singoli membri del Parlamento e se nell’attuale legislatura sono pochi i parlamentari che garantiscono la maggioranza, nella prossima legislatura, e forse in quelle successive, saranno ancora meno e questo complica la scelta di un modello elettorale.
L’adozione di un sistema proporzionale (senza correttivi o con una soglia di sbarramento bassa che colpirebbe soltanto i partiti più piccoli) creerebbe molto probabilmente maggioranze parlamentari fragili (come prefigurano i maggiori istituti di indagine demoscopica) e, mancando la massima coesione tra i gruppi parlamentari, la stabilità dell’esecutivo sarebbe appesa alla volontà di singoli deputati e senatori, i quali avrebbero la forza per influenzare l’indirizzo politico della maggioranza; questo potrebbe accentuare l’instabilità dei Governi, che è uno dei grandi problemi della nostra storia costituzionale.
L’adozione di un modello proporzionale con soglie di sbarramento elevate, invece, curverebbe il sistema elettorale verso il maggioritario e questo richiederebbe (come peraltro l’adozione di un maggioritario puro o con ballottaggio) l’adeguamento dei quorum di garanzia previsti in Costituzione.
Qualunque sarà il sistema elettorale adottato, rimangono per il Senato i vincoli costituzionali indicati dall’art. 57 Cost. («Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale»). La disposizione condiziona il legislatore ordinario perché impedisce l’applicazione del sistema del collegio unico nazionale e impone l’obbligo di adottare almeno un numero di collegi pari al numero delle regioni.
Per ovviare a questi problemi è stata presentata in Parlamento una proposta di modifica costituzionale dell’art. 57, co. 1, Cost., che eliminerebbe la base regionale per il riparto dei seggi. Dalla proposta di legge di revisione costituzionale non emergono tuttavia ipotesi di modifica dei commi successivi dell’art. 57 Cost.: cosicché non sarebbe modificata la garanzia dell’assegnazione di un numero minimo di senatori a ciascuna Regione e la ripartizione dei seggi tra le Regioni in proporzione alla popolazione delle stesse.
Il combinato disposto della riduzione del numero dei parlamentari e il mantenimento di tali vincoli nella ripartizione dei seggi potrebbe causare un problema di rappresentatività per molte Regioni, che eleggerebbero meno di 7 senatori, con il rischio di risultati differenti nelle elezioni delle due Camere.
La proposta di legge elettorale
I partiti di maggioranza hanno presentato una proposta di nuova legge elettorale, che prevede l’opzione proporzionale con sbarramento al 5%; ipotizza tuttavia un’eccezione per i partiti politici che dovessero ottenere buoni risultati in almeno due regioni per la Camera e in una per il Senato, i quali potranno eleggere alcuni parlamentari anche se non dovessero raggiungere il 5% dei voti a livello nazionale.
La proposta di legge non è ancora stata esaminata in Commissione, né è stato votato un testo base o dato mandato a un relatore a riferire in Aula.
I gruppi parlamentari
La riduzione del numero dei parlamentari ha una rilevanza immediata sulla composizione dei gruppi. Infatti se non verranno revisionati i quorum della Camera e del Senato per la nascita dei gruppi parlamentari, non vi sarà la possibilità di costituire un gruppo autonomo per i partiti politici di piccola/media dimensione. Inoltre, a regolamenti parlamentari vigenti, gli effetti delle diverse regolamentazioni per la formazione dei gruppi tra Camera e Senato saranno più marcati; come diventerà poco giustificabile la natura della deroga (prevista dall’articolo 14, comma 5 del regolamento del Senato), concessa ai senatori appartenenti alle minoranze linguistiche, considerando oltretutto la riduzione dei seggi spettanti, ad esempio, al Trentino Alto Adige-Südtirol, che passerebbero da 7 a 6.
L’ipotesi immediata è quella di ridurre proporzionalmente tutte le soglie per la formazione dei gruppi, portandole ad esempio da 20 a 13 deputati e da 10 a 6 senatori, ma appare netta la necessità di uniformare le disposizioni tra i due rami del Parlamento, poiché la razionalizzazione dei regolamenti finirebbe per essere frustrante se non fosse perseguita con coerenza in entrambi i rami del Parlamento.
Un altro problema da affrontare riguarda la disciplina dei gruppi, al fine di contenere l’elevata tendenza all’abbandono del gruppo parlamentare originario (116 transfughi nell’attuale legislatura). Per rafforzare il collegamento fra i gruppi parlamentari e i partiti politici che hanno partecipato alle elezioni, tenendo conto che la maggior parte dei parlamentari occupa una carica (come membro dell’Ufficio di presidenza, Presidente o vice presidente di Commissione, Segretario di una commissione di inchiesta), sarebbe auspicabile prevederne la decadenza nel caso in cui il parlamentare abbandoni il gruppo di provenienza (secondo il modello introdotto al Senato con la riforma dei regolamenti del 2017).
I gruppi parlamentari in diverse legislature
Durante la III legislatura (1958 - 1963), con un numero ridotto di senatori (determinato in base alla popolazione), furono costituiti al Senato quattro gruppi parlamentari (corrispondenti ai quattro maggiori partiti usciti dalle elezioni, ossia Democrazia cristiana, Partito comunista, Partito socialista e Movimento sociale) e il gruppo misto.
Durante la IV legislatura (1963 – 1968) l’aumento del numero dei senatori dovuto all’applicazione della legge costituzionale n. 2 del 1963, permise ai partiti minori una rappresentanza sufficiente per formare gruppi autonomi.
Nel 1977 venne introdotta al Senato una disposizione, successivamente adottata anche alla Camera, che consentiva al Consiglio di Presidenza di autorizzare la costituzione di gruppi in deroga, purché formati da almeno 5 senatori e rappresentativi di partiti organizzati nel Paese. La disposizione ha prodotto la proliferazione dei gruppi parlamentari.
Lo statuto delle opposizioni
Il testo della Costituzione repubblicana richiama in modo esplicito il concetto di “maggioranza”, ma non presenta il termine “opposizione”, né prevede l’emanazione di uno statuto dell’opposizione che ne regoli le funzioni e le garanzie. I regolamenti parlamentari, complice la stagione della mancata alternanza dei partiti al Governo e i meccanismi consociativi che ne sono derivati, non hanno individuato in modo esplicito il concetto di opposizione, né ne hanno delineato in modo compiuto la disciplina.
Se è palese che la centralità e l’autorevolezza dell’Assemblea parlamentare dipendono dalla capacità della maggioranza di fare scelte politiche, è anche innegabile che l’efficacia di tali politiche dipende dalla capacità dell’opposizione di presentare alternative credibili. Le opposizioni devono essere messe nella condizione di svolgere il proprio ruolo, ma i regolamenti parlamentari concedono poche facoltà perché possano farlo. È prevista la compartecipazione alla gestione dei lavori d’Aula, attraverso la calendarizzazione dei lavori e la programmazione dei tempi. Ci si riferisce ad esempio agli articoli 23 e 24 del regolamento della Camera e all’articolo 53 del regolamento del Senato, i quali stabiliscono che il calendario delle attività parlamentari sia redatto sulla base delle richieste del Governo e delle proposte dei gruppi parlamentari, riservando la quinta parte ai gruppi di opposizione in base alla loro consistenza.
Per valorizzare le opposizioni sarebbe opportuno riservare alle loro proposte una quota più elevata dell’attuale, soluzione che potrebbe potenziare l’iniziativa legislativa parlamentare (attualmente dominata da quella governativa).
Le proposte alternative a quelle presentate dall’esecutivo potrebbero essere affidate al relatore di minoranza, il quale eserciterebbe la “funzione di controproposta” con la presentazione di testi o emendamenti alternativi. Questo ruolo potrebbe essere affidato a un unico soggetto espresso dai gruppi all’opposizione e nello statuto dovrebbe essere attribuito un tempo uguale durante la discussione dei progetti di legge.
Con l’introduzione di uno statuto delle opposizioni potrebbe essere rafforzato il ruolo del Parlamento nel controllo dell’esecutivo, ad esempio modificando le interrogazioni a risposta immediata (comunemente conosciute come question time o premier time). Chiamare, come accade oggi, i membri del Governo davanti alle Camere quando conoscono le domande alle quali dovranno rispondere non è molto credibile e tanto meno se i quesiti provengono più dalla maggioranza che dall’opposizione. Sarebbe auspicabile che una futura riforma dei regolamenti parlamentari affidasse il ruolo centrale nella selezione dei quesiti all’opposizione.
Una riforma incompleta
La riduzione del numero dei parlamentari potrebbe avvicinare la variegata opposizione italiana a quella britannica, rappresentata dai conservatori o dai laburisti a seconda della legislatura. La loro presenza a Westminster è regolata da uno statuto che in Italia si è tentato di importare, con le riforme regolamentari alla Camera tra il 1997 e il 1999. Ma alla vivacità del Parlamento britannico nell’esercitare il controllo politico è però corrisposta una timida imitazione che qui non ha mai avuto successo.
La riduzione del numero dei parlamentari e le riforme conseguenti rappresentano l’occasione per portare a compimento quel tentativo.
Le commissioni parlamentari
La riduzione del numero dei parlamentari richiede una particolare considerazione dell’organizzazione interna e dell’assetto delle commissioni permanenti, rimasto invariato (ad eccezione di limitate novità come l’introduzione delle Commissioni politiche dell’Unione europea) in occasione delle riforme approvate nel 1987 alla Camera e nel 1988 al Senato.
La riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere accompagnata dalla riduzione del numero delle commissioni permanenti o dall’accorpamento di alcune, riequilibrandole con l’attuale struttura dell’esecutivo derivante dalla riforma dei Ministeri introdotta con d.lgs. n. 300 del 1999 e dalle modifiche del Titolo V della Costituzione. Si potrebbero, ad esempio, accorpare le commissioni economiche, attualmente divise al Senato in “Commissione programmazione economica e bilancio” e “Commissione finanze e tesoro” (anche alla Camera dei deputati è presente un’analoga divisione).
Oltre a ripensare il numero e le competenze delle commissioni permanenti, sarebbe opportuno riflettere sulla regola che impone ai parlamentari la partecipazione a una sola commissione permanente, regola che con le attuali quattordici commissioni e poco più di 200 senatori sarebbe causa di non poche difficoltà. Ma consentire ad ogni parlamentare di far parte di più commissioni provocherebbe problemi di organizzazione delle riunioni e più in generale della logistica parlamentare.
Una soluzione potrebbe essere quella distinguere tra commissioni permanenti major e minor, le prime con una partecipazione tendenzialmente a tempo pieno, le seconde con una partecipazione ridotta valorizzando le esperienze sperimentate in diversi Paesi europei e da alcuni Consigli regionali. Si potrebbe mutuare il modello presente a Westminster, che divide le commissioni permanenti “legislative” da quelle “di controllo”, privilegiando la partecipazione alle prime. Dovrebbero essere tenuti in opportuna considerazione anche i cambiamenti prodotti dalla diffusione delle tecnologie informatiche e avere a cuore una maggiore trasparenza dei lavori delle commissioni, soprattutto quando operano in sede legislativa deliberante.
Anche le commissioni bicamerali dovrebbero essere ripensate perché appare impraticabile mantenere le circa 10 commissioni attuali (composte mediamente da 50 membri) con 200 senatori e 400 deputati. Quelle destinate a svolgere funzioni di controllo potrebbero essere composte da un numero ridotto di membri purché rappresentativi della maggioranza e dell’opposizione, lasciando il potere decisionale a organi maggiormente rappresentativi, a eccezione naturalmente delle commissioni d’inchiesta, per le quali vale la composizione proporzionale ai gruppi parlamentari richiesta dall’art. 82 Cost.
Per ridurre le duplicazioni, potrebbero essere affidati alle commissioni bicamerali compiti di controllo dell’indirizzo politico (ad esempio il controllo della finanza pubblica e della qualità della spesa potrebbe essere affidata a un’unica commissione tecnica), oppure i rapporti con altri soggetti e ordinamenti (come avviene ad esempio in Spagna, che affida le funzioni europee a un’unica commissione bicamerale).
Conclusioni
Se si guarda alla rappresentanza politica, è indiscutibile il sacrificio che è stato determinato dalla riforma costituzionale. È tuttavia innegabile che, da più di un decennio, anche con un elevato numero di parlamentari l’Assemblea parlamentare è apparsa poco rappresentativa agli occhi dei cittadini. Questo per la debolezza dei partiti politici, che non sono stati in grado di esercitare correttamente la funzione costituzionale di concorrere alla definizione di efficaci politiche nazionali e per l’adozione di una serie di leggi elettorali che, dal 2005, non hanno garantito agli elettori il legittimo controllo sugli eletti.
Il distacco è stato acuito anche dall’impossibilità del corpo elettorale di condizionare le attività del Parlamento nel corso della legislatura, attraverso il referendum abrogativo (che è stato indebolito dall’astensione) o mediante l’iniziativa legislativa popolare (che è rimasta sulla carta a causa della mancanza di strumenti che obblighino le Camere a prenderla in considerazione).
Tali ragioni hanno sfilacciato la fiducia dei cittadini nelle Camere, a tal punto che lo status del parlamentare è ormai percepito come una sorta di privilegio non giustificabile.
Se il nuovo Parlamento numericamente ridotto funzionerà in modo efficace dipenderà da come la riforma sarà attuata. Certo l’attuazione delle riforme costituzionali è ancora più problematica del processo di approvazione delle norme di revisione, per l’istinto conservativo che si rivela spesso più forte delle spinte alle innovazioni; ma se la riforma sarà accompagnata da consequenziali adeguamenti costituzionali, legislativi e regolamentari, una revisione costituzionale limitata potrebbe portare a un rilevante cambiamento del parlamentarismo.