L’economia e l’arte

AREE-DISCIPLINARI-PARAMOND-Dicembre-2020-JPEG_Apertura_economia_arte_AL1441500.jpg

L’arte fra bene necessario, mezzo di propaganda e prodotto di lusso

AREA GIURIDICO-ECONOMICA

Le opere d'arte sono "prodotti" che seguono regole proprie, a volte simili e a volte divergenti da quelle dei beni di consumo.

di Viviana Di Giovinazzo

In Economia politica dell’arte (1857) il critico sociale e pittore inglese John Ruskin tratta la spinosa questione del rapporto tra il valore (storico, culturale, spirituale) e il prezzo di un’opera d’arte, il ruolo dello Stato, la logica delle aste, la retribuzione degli artisti, la domanda e l’offerta delle opere. In quanto capitale culturale, secondo Ruskin, l’arte dovrebbe essere preservata dallo Stato e le opere dei grandi artisti del passato dovessero essere custodite nei musei, a disposizione e ispirazione di tutti. L’arte contemporanea dovrebbe invece passare attraverso le logiche di mercato e, possibilmente, essere venduta al prezzo più elevato d’asta per sostenere i giovani artisti ed evitare che il loro genio vada sprecato.
Ruskin è radicalmente critico dell’economia classica di Adam Smith e, più in generale, del sistema capitalista industriale dell’epoca vittoriana, in quanto lo considera responsabile della morte del genio creativo dell’individuo e dello spirito immaginativo di una società. Egli, inoltre, individua una singolarità del mercato artistico che verrà ampliamente esplorata qualche decennio più tardi dall’economista e sociologo Thorstein Veblen (1857-1929): contrariamente alla regola generale, secondo la quale la quantità domandata di un bene è inversamente proporzionale al prezzo del bene stesso (legge della domanda e dell’offerta), la domanda del prodotto artistico cresce all’aumentare del suo prezzo (c.d. effetto Veblen). Come bene di lusso, un’opera d’arte viene frequentemente acquistata da privati a fini ostentativi, per mostrare le proprie capacità di spesa.

L’economista austriaco Otto Neurath (1882-1945), al contrario, considera l’arte a fini educativi. Secondo Neurath, che definisce il Novecento “era dell’occhio”, la conoscenza del mondo avviene per stimolazione visiva, principalmente durante le ore di svago, per esempio attraverso il cinema e la televisione. Per tale motivo, al fine di educare i ceti più poveri, egli ritiene necessario fare ampio uso delle immagini in luogo delle parole. A tale scopo, Neurath inventa la statistica visiva, di facile lettura e interpretazione (diagrammi, illustrazioni, fotografie, icone, disegni). Facendosi aiutare dal pittore modernista e illustratore Gerd Arntz, egli sviluppa una particolare simbologia grafica, detta Isotype (acronimo di International System of Typographic Picture Education, 1935) che, privilegiando l’uso di immagini logisticamente semplici, rappresenta significati in modo chiaro e immediatamente riconoscibile.

L’importanza di estendere la conoscenza del mondo alle classi meno agiate per il progresso sociale è un’idea supportata anche da John Maynard Keynes (1883-1946). Persuaso che il benessere umano consista non tanto nell’accumulazione benthamita di quantitativi di utilità sempre più elevati, bensì in uno stato mentale alimentato dalla componente creativa e immaginativa dell’individuo, egli assegna alle arti (letteratura, teatro, opera, musica, arte figurativa) un ruolo di principale importanza per lo sviluppo umano. Per tale motivo, anche Keynes ritiene necessario il loro supporto da parte dello Stato.
Nella vita privata Keynes non fu solo un avido collezionista di opere d’arte, ma anche un autentico mecenate. Grazie al suo singolare talento come investitore di borsa, egli divenne il principale supporto finanziario delle attività del c.d. circolo di Bloomsbury, un gruppo di intellettuali che annoverava gli scrittori Lytton Strachey, Virginia e Leonard Wolf, i pittori Vanessa Bell e Duncan Grant, il critico d’arte Roger Fry.
Grazie a Keynes, l’arte entrò nel programma di ricostruzione americano post Depressione. Dietro suo suggerimento, il presidente americano Franklin D. Roosvelt indisse il PWAP (Public Works of Art Project, 1933-34), un progetto politico-culturale volto non solo a dare lavoro agli artisti rimasti disoccupati durante la Grande Depressione ma anche, e soprattutto, a risollevare lo spirito di un Paese ridotto in ginocchio da disoccupazione e miseria. Le opere scelte dalla commissione rappresentavano fabbriche, porti navali, ponti, metropolitane, operai al lavoro, con lo scopo di comunicare al pubblico il coraggio necessario per intraprendere il cammino verso la ripresa economica.

La storia mostra come l’arte possa essere anche un potente strumento di propaganda. Hitler e Stalin, per esempio, la impiegarono per comunicare i traguardi economici raggiunti durante la loro dittatura in occasione dell’Esposizione Internazionale dell’Arte e della Tecnica di Parigi del 1937. Sulla base della falsa convinzione che le relazioni culturali tra due nazioni diminuisse la probabilità di una reciproca dichiarazione di guerra, gli organizzatori dell’Expo avevano simbolicamente posto il padiglione tedesco e quello sovietico l’uno di fronte all’altro lungo l’Avenue de la paix (Viale della pace). Il padiglione di Albert Speer, l’architetto prediletto di Hitler, giocava sull’effetto intimidatorio. Esso consisteva in un edificio in pesante stile neoclassico alto 54 metri, in cima al quale una scultura di 9 metri raffigurante un’aquila con la svastica dominava minaccioso sull’intera area. Gli interni del padiglione presentavano diversi ritratti del Führer e dipinti raffiguranti intersezioni di autostrade che squarciavano boschi innevati e impianti petroliferi che assomigliavano a cattedrali di acciaio, posti a simbolo e riconoscimento del progresso tecnologico ed economico tedesco. Un design ricercato regalava un aspetto nobile ai più comuni prodotti della tecnologia taylorista, dalle automobili da corsa ai giocattoli per bambini.

La Russia comunista faceva ricorso alla stessa estetica impiegata dalla Germania nazista per ostentare potere e, al contempo, intimidire lo spettatore. Il padiglione costruito per l’Expo era una composizione monolitica alta 33 metri. In cima spiccava una scultura alta 24 metri raffigurante un lavoratore con un martello in mano e una contadina con la sua falce. Mentre gli altri padiglioni partecipanti dell’Expo erano in compensato ricoperto da intonaco, quello sovietico era di un raro marmo e i suoi interni erano decorati con ritratti dei leaders di regime. La mappa dello Stato sovietico occupava una parete intera, le capitali erano segnate con grandi stelle di rubino, le linee petrolifere in topazio e il nome delle città era inciso in oro (Bernier, 1993).
Il boom economico post-bellico è grande fonte di ispirazione per gli artisti moderni. Con il famoso quadro raffigurante 100 barattoli di minestra Campbell riprodotti in serie, tutti uguali, l’artista pop Andy Wahrol (1928-1987) rappresenta le caratteristiche della società di massa: meccanizzazione, massificazione e standardizzazione di un prodotto uniforme, omogeneo e di basso costo. Attraverso il suo singolare elogio alla Coca Cola, Warhol esalta l’effetto egualitario dei prodotti di massa: «Se c’è una cosa grandiosa dell’America è che qui è iniziata la tradizione in base alla quale i più ricchi consumatori comprano essenzialmente le stesse cose dei più poveri. Tu guardi la TV e vedi la Coca-Cola, e sai che il Presidente beve la Coca-Cola, Liz Taylor beve la Coca-Cola e puoi pensare che anche tu bevi Coca-Cola» (La filosofia di Andy Wahrol, 1975).

In quegli stessi anni, l’economista ungaro-americano Tibor Scitovsky (1910-2002) impiega gli esperimenti di psicologia estetica per mostrare che consumismo, noia, frustrazione e alienazione, malattie tipiche della società moderna, derivano dall’insoddisfazione del consumatore per un prodotto troppo uniforme e standardizzato. Come Ruskin e Keynes, egli considera le arti un bene necessario in quanto fonte primaria di soddisfazione personale e sviluppo sociale. Ne L’economia senza gioia (1976), Scitovsky distingue tra beni di comfort (elettrodomestici, automobili, prodotti alimentari preconfezionati) e beni creativi volti a stimolare l’immaginazione e la creatività individuali (letteratura, musica, arti figurative, teatro, concerti), e denuncia il consumatore americano per il suo consumo eccessivo di beni di comfort.
L’uso dell’arte a fini economici e speculativi sembra animare il suo rapporto più recente con l’economia. L’apertura del museo Guggenheim di Bilbao (Spagna, 1997) è un chiaro esempio di come l’arte possa determinare il rilancio dell’economia locale. Diversi distretti artistici culturali e museali sono stati progettati sulla base dell’originaria idea marshalliana dei distretti industriali. Le banche offrono oggi opere d’arte come fondi d’investimento speculativo: raccolgono capitale privato al fine di acquisire, gestire, valorizzare e, in seguito, vendere l’opera d’arte acquisita. In alcuni casi, il nome dell’artista diventa un brand, soggetto alle stesse regole della moda.

L’economia e l’arte

di Viviana Di Giovinazzo

 

Viviana Di Giovinazzo: dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Macerata e presso l'Université Paris I Panthéon-Sorbonne. È collaboratore didattico presso l’Università di Milano Bicocca. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia del pensiero economico e il rapporto tra economia e psicologia. È autrice di diverse pubblicazioni scientifiche nel campo dell’economia comportamentale e dell’economia del benessere.

Ti è piaciuto l’articolo?