L’educazione finanziaria: efficienza e autonomia nelle decisioni di spesa

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La riflessione della finanza comportamentale

AREA GIURIDICO-ECONOMICA

I dubbi degi economisti comportamentali sull’efficacia dei programmi di educazione finanziaria.

di Viviana Di Giovinazzo

Nascita e scopi dell’educazione finanziaria come disciplina

Il primo programma di educazione finanziaria fu introdotto in alcune scuole americane a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, con l’obiettivo di fornire ai cittadini le nozioni finanziare di base su reddito, risparmio, tasse, mutui, assicurazioni e pensione.
Nel corso degli anni Sessanta l’educazione finanziaria si diffuse, divenendo obbligatoria in alcuni Stati d’America a seguito di due fenomeni:

  • il programma promosso dalla presidenza Johnson (1963-1969) definito Great Society, di sostegno all’educazione, sanità pubblica, lotta alla povertà, sviluppo delle aree depresse;
  • il movimento a difesa dei consumatori di Ralph Nader.

Come recita un rapporto del 1999 della SEC (Securities and Exchanges Commission), l’obiettivo principale dell’educazione finanziaria è «garantire a tutti i cittadini americani gli strumenti necessari per adottare decisioni finanziarie e proteggere i propri meritati risparmi».
Nonostante il grande investimento nel processo di alfabetizzazione finanziaria dei cittadini, i sondaggi hanno segnalato un peggioramento progressivo delle condizioni finanziarie delle famiglie americane. L’indebitamento medio con banche e istituti di credito è aumentato da una media di 3.000 dollari nel 1990 a 8.300 dollari nel 2002.
Studi analoghi condotti a livello internazionale dall’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) hanno rilevato un tasso elevato di analfabetismo finanziario anche negli altri Paesi a economia avanzata, Europa inclusa.
In seguito alla crisi finanziaria del 2008, governi, banche e organizzazioni internazionali hanno più volte ribadito la necessità di aumentare l’offerta di corsi di educazione finanziaria per studenti e lavoratori, con l’intento di infondere nuova fiducia nei mercati e nei prodotti finanziari. Secondo Lusardi e Mitchell (tra le massime esperte del settore) l’obiettivo principale dell’educazione finanziaria è che gli individui diventino agenti economici razionali (condizione necessaria perché i mercati siano efficienti) e autonomi nelle loro decisioni di spesa.

L’efficacia dei programmi

Sull’efficacia dei programmi di educazione finanziaria, la letteratura ha opinioni contrastanti. Nel 2001, Bernheim, Garrett e Maki, per esempio, individuano una connessione diretta tra chi ha seguito corsi di educazione finanziaria e un’elevata propensione al risparmio. Nel 2004, grazie a uno studio effettuato su soggetti adulti in materia di salute e pensione, Lusardi osserva che aver frequentato seminari informativi su queste tematiche incrementa le capacità decisionali in materia finanziaria. In un’ulteriore ricerca condotta su 79 scuole americane, Mandell e Klein, nel 2009, mostrano tuttavia che gli studenti delle scuole superiori che hanno frequentato un corso di educazione finanziaria non possiedono un tasso di alfabetizzazione finanziaria più elevato di coloro i quali non hanno frequentato tale corso.
Nel 2012, l’OECD ha ideato il Programma Internazionale, meglio noto come PISA (Programme for International Student Assessment), il primo studio internazionale su ampia scala che esamina le conoscenze e competenze finanziarie acquisite fuori e dentro la scuola da studenti quindicenni.
L’indagine PISA 2015 ha mostrato che solo il 6% degli studenti italiani sa analizzare prodotti finanziari complessi e risolvere problemi finanziari non comuni, mentre il 20% non riesce a raggiungere il livello di riferimento base per le competenze finanziarie, con divari rilevanti tra le scuole del Nord e del Sud Italia (520 punti contro 440) e tra i licei e gli istituti tecnici (510 punti contro 480) su una media europea di 489 punti. L’indagine ha messo in luce anche che, in media, gli studenti con famiglie dal profilo socio-economico più favorevole ottengono un punteggio superiore rispetto agli studenti di estrazione sociale più modesta. Gli studenti che sono titolari di un conto corrente ottengono risultati di 23 punti superiori rispetto agli studenti di status socio-economico analogo che non sono titolari di un conto corrente (PISA Financial Literacy 2015).

Gli ostacoli all’educazione finanziaria

I ricercatori reputano che il generale peggioramento della preparazione finanziaria dei risparmiatori sia stato causato, in prima istanza, dalla diffusione di servizi e prodotti finanziari di elevata complessità (per esempio carte di credito, carte tipo revolving, mutui subprime) che, anche grazie al progresso tecnologico (si pensi all’home banking e all’accesso al credito via dispositivi mobili), hanno raggiunto direttamente il piccolo investitore, rendendolo più vulnerabile a prestiti di natura predatoria.
I ricercatori ritengono anche che il modesto livello di capacità operative in materia finanziaria sia dovuto alle scarse conoscenze matematiche. Le ricerche volte a testare le abilità matematico-finanziarie dei risparmiatori hanno mostrato importanti carenze in tre aree fondamentali: inflazione, interesse composto, rischio azionario. Lusardi e Tufano (2009), per esempio, hanno rilevato che solo il 7% di un campione di 1.000 cittadini americani comprende il vantaggio di pagare 1.200 dollari alla fine dell’anno solare, piuttosto che effettuare 12 pagamenti mensili dell’ammontare di 100 dollari.
Indagini condotte in Europa hanno mostrato risultati analoghi.
Le ricerche hanno messo in luce che seguire un corso di educazione finanziaria può avere l’effetto di aumentare la fiducia degli individui nelle proprie abilità finanziarie, senza che le loro competenze siano effettivamente migliorate. Il 40% degli intervistati in un’indagine condotta dalla Investor Education Foundation nel 2009 dichiarava di avere elevate conoscenze finanziarie, nonostante il loro effettivo livello fosse decisamente contenuto. In un sondaggio effettuato in Australia, il 67% degli intervistati dichiarava di sapere che cos’è un interesse composto, ma solo il 28% rispondeva correttamente a un quesito che richiedeva di applicare tale conoscenza (OECD, 2006). Questo fenomeno viene definito overconfidence.
Sotto il profilo comportamentale, i ricercatori hanno sollevato la questione che, anche se un incremento delle conoscenze finanziarie agisce positivamente sui propositi per il futuro, ciò non provoca necessariamente un cambiamento del comportamento attuale. Clark e altri studiosi nel 2006, per esempio, mostrano una correlazione molto debole tra i buoni propositi e gli effettivi cambiamenti nelle abitudini di risparmio delle persone, presumibilmente a causa dell’azione di variabili psicologiche quali, ad esempio, l’effetto dei pari. In una società consumistica come quella occidentale contemporanea, infatti, è molto probabile che tassi di risparmio contenuti siano causati da consumi di tipo ostentativo. Gli economisti comportamentali, inoltre, hanno mostrato che i programmi di educazione finanziaria possono fallire (nonostante buoni contenuti) a causa delle modalità cui vengono proposti agli individui. Paradossalmente, essere inquadrati come “poveri” può indurre gli individui a basso reddito a rifiutarsi di seguire un corso di educazione finanziaria.

Gli economisti cognitivi e comportamentali considerano utile studiare i problemi connessi all’educazione finanziaria in un’ottica di razionalità limitata e bias cognitivi (distorsioni della valutazione di un fenomeno causate da un pregiudizio). In contrasto con la teoria convenzionale della scelta, che attribuisce piena razionalità all’individuo, la finanza comportamentale ritiene che le persone non siano in grado di compiere la scelta ottimale tra le alternative disponibili, per asimmetria informativa e perché la razionalità del loro processo decisionale viene alterata da sistematici errori computazionali causati da euristiche (scorciatoie mentali adottate a fronte di un’eccessiva complessità del calcolo), tratti caratteriali (avversione al rischio, tendenza a sovrastimare le proprie capacità decisionali, tendenza a procrastinare, tendenza a emulare le decisioni altrui) e fattori emotivi (ansia, indecisione, timore, euforia).
A fronte di trappole psicologiche ed errori sistematici, secondo Thaler e Sunstein (2008) servono esperti di settore, quali brokers e consulenti finanziari, che aiutino i consumatori a operare scelte informate. Rimane la questione che i cittadini possano negare loro la fiducia in quanto la crisi finanziaria del 2008 è stata causata proprio dal comportamento fraudolento di alcuni soggetti appartenenti a queste categorie.
Per risolvere i problemi di asimmetria informativa che si creano tra i singoli risparmiatori e gli esperti finanziari, essi ritengono necessario che i policy makers tutelino la libertà di scelta degli individui con provvedimenti specifici volti a regolare e controllare il mercato finanziario, per esempio, proponendo ai risparmiatori opzioni su mutui, fondi di investimento, piani previdenziali, non obbligatori, che diventano effettive a fronte dell’inerzia del decisore (c.d. paternalismo libertario).

Uno strumento necessario, ma poco efficace

Tutti questi problemi connessi all’educazione finanziaria hanno indotto diversi ricercatori a concludere che essa sia uno strumento necessario ma poco efficace, sulla base di alcune semplici circostanze di fatto:

  • complessità delle decisioni finanziarie in rapporto a un risparmiatore, che non è un investitore di professione;
  • elevata eterogeneità delle circostanze e dei valori del risparmiatore/investitore, che rende molto difficile e costoso ideare programmi personalizzati;
  • eccessiva velocità di rinnovamento dei prodotti e delle pratiche finanziarie;
  • scarso interesse o semplice rifiuto dei risparmiatori a partecipare ai programmi di educazione finanziaria, in quanto richiedono un investimento non trascurabile in termini di tempo e fatica;
  • persistenza di bias cognitivi e comportamentali, anche in soggetti che riconoscono l’esistenza delle trappole psicologiche (Willis 2011).

 

Viviana Di Giovinazzo: dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Macerata e presso l'Université Paris I Panthéon-Sorbonne. È collaboratore didattico presso l’Università di Milano Bicocca. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia del pensiero economico e il rapporto tra economia e psicologia. È autrice di diverse pubblicazioni scientifiche nel campo dell’economia comportamentale e dell’economia del benessere.