La globalizzazione alla prova del Covid-19

L’epidemia e la crisi globale

AREA GIURIDICO-ECONOMICA

Da gennaio 2020 il coronavirus è entrato, inaspettatamente, nelle nostre vite. Dopo circa 3 mesi di chiusura e una ripartenza a rilento, tutto è ancora in divenire e l’incertezza sul nostro futuro, anche prossimo, è pervasiva.

di Giorgio Ricchiuti

Dal locale al globale

Fin dai primi giorni di espansione dell’epidemia a Wuhan, è emerso chiaramente come un evento locale potesse avere ripercussioni economiche a livello mondiale. La regione di Hubei, coi suoi sessanta milioni di abitanti, è un importante distretto industriale, dove si produce, fra le altre cose, componentistica per il settore dell’auto e per quello dell’elettronica: beni intermedi per la produzione di beni finali che vengono realizzati in altre parti del mondo.
Contemporaneamente, la chiusura imposta in Cina ha determinato un blocco degli investimenti delle imprese e una riduzione dei consumi delle famiglie cinesi, con un impatto rilevante sulle importazioni cinesi (le esportazioni del resto del mondo).
Una crisi locale si era chiaramente trasformata in una crisi mondiale. Il crollo della produzione e della domanda di beni di consumo e di investimento sono stati “solo” amplificati dall’allargamento dell’epidemia a tutti i paesi del mondo.

La globalizzazione: amplificatore della crisi

La crisi economica che ne è scaturita, è stata esacerbata dal processo di globalizzazione della produzione che ha caratterizzato i decenni a cavallo del secolo, come risulta evidente facendo un paragone con la crisi del 2008: in quel caso solo un sottoinsieme di paesi vide una contrazione (rilevante) del proprio PIL. Oggi tutti i paesi sono coinvolti e siamo in presenza di una crisi simmetrica.
La durata di questa crisi è incerta e non sappiamo se la ripresa sarà veloce o lenta. Per capire le prospettive, dobbiamo chiederci se il processo di globalizzazione sia o meno in buona salute e quali siano le criticità che il Covid-19 ha semplicemente portato alla luce.

Le catene globali del valore

Storicamente la globalizzazione non è un processo lineare: essa ha subito battute di arresto nel corso del tempo ed è dipesa fortemente dallo sviluppo economico e dalle relazioni fra paesi. Ha ricevuto un forte impulso dalla possibilità, offerta dalla tecnologia, di controllare a distanza fasi della produzione e di trasmettere conoscenze e informazioni a costi bassissimi. È quello che Richard Baldwin (La grande convergenza. Tecnologia informatica, web e nuova globalizzazione, 2018, ed. Il Mulino) ha definit spacchettamento/frammentazione della produzione. Questa non è più vincolata a un territorio specifico, ma si dispiega globalmente, lungo le cosiddette catene (globali) del valore (Global Value Chain, GVC).
Tale concetto ci permette di capire come un’epidemia si sia trasformata in una crisi globale. Infatti, il blocco della produzione a Wuhan ha avuto un effetto sulla catena globale del valore dell’elettronica e della componentistica per auto, che lega ormai imprese e paesi nella produzione dei beni e dei servizi.

I vantaggi della globalizzazione e delle GVC

Le GVC sono così rilevanti che la Banca mondiale ha dedicato loro il suo rapporto annuale del 2020. Vi si sottolineano i benefici in termini di produttività e reddito ottenuti da molti paesi oramai integrati nelle GVC, come Vietnam o Bangladesh. Ciò ha portato a una riduzione della povertà e alla creazione di molti posti di lavoro qualificati e relativamente ben pagati.
Come ho sottolineato recentemente (Pensare la Macroeconomia, ed. Pearson), la diminuzione dei costi di trasporto e la grande facilità di comunicazione resa possibile da Internet, hanno ridotto le distanze fisiche e mentali fra Paesi un tempo lontani. I mercati reali e finanziari si sono rapidamente integrati. Le catene intra-industriali di produzione si sono allungate e ramificate per sfruttare le economie di costo e di specializzazione disponibili in varie parti del mondo, collegando materie prime, semilavorati, design, pubblicità, finanza, conoscenze tecnologiche, organizzando lavoratori di culture e lingue diverse con le più diverse specializzazioni, a migliaia di chilometri di distanza, come in una grande catena di montaggio sparpagliata per il globo.
I consumatori, da parte loro, hanno visto ampliare la gamma dei prodotti e dei servizi disponibili e il prezzo di alcuni di essi si è ridotto: dai telefoni cellulari, ai computer, ai voli aerei. Le modalità di consumo e di marketing si sono fatte più sofisticate.

Le criticità dei processi in corso

Questo processo è stato avversato già alla fine del secolo scorso da un vasto movimento, critico sui modi in cui la globalizzazione veniva gestita a vantaggio di pochi paesi e di poche grandi compagnie internazionali. La crisi economica del 2008 ha fatto emergere almeno tre criticità.
Come sottolineato dalla Banca mondiale un primo elemento critico è, paradossalmente, determinato dalla rivoluzione tecnologica in corso. Da una parte, infatti, questa ha permesso la riduzione delle distanze e migliori comunicazioni, ma dall’altra l’automazione e l’uso estensivo delle stampanti 3D possono riportare in patria le produzioni esternalizzate e ridurre il numero di lavoratori impiegati. Ciò potrebbe determinare una riduzione della lunghezza delle GVC.
Allo stesso tempo, la crisi ha esacerbato gli squilibri fra aree geografiche e all’interno degli stessi paesi, fra chi è avvantaggiato e chi danneggiato dalla globalizzazione. Negli ultimi anni è cresciuto il senso di frustrazione e di sfiducia nel processo di integrazione globale. L’aumentata concorrenza delle merci estere è stata vista come causa della perdita di posti di lavoro, della riduzione dei livelli salariali e del ridimensionamento del welfare. Secondo Gianmarco Ottaviano (Geografia economica dell’Europa sovranista, 2019, ed. Laterza), la Brexit può essere spiegata proprio dagli effetti della globalizzazione sulle diverse fasce di popolazione del Regno Unito, fra chi si è sentito colpito nei suoi interessi e le élite che ne hanno tratto un guadagno. Se da una parte c’è stata la grande convergenza globale, dall’altra possiamo dire che ci sia stata la grande divergenza locale, con l’emersione di sentimenti anti-globalizzazione.
Infine, l’emergere della Cina come nuovo leader mondiale ha notevolmente cambiato le relazioni economiche internazionali. Ben prima della crisi di Covid-19, è aumentata la protezione dei mercati da parti di molti paesi. La guerra dei dazi aperta dagli Stati Uniti ha avuto un chiaro effetto sulle GVC. Infatti l’aumento delle protezioni può spingere le imprese a scegliere un paese piuttosto che un altro, inserendo distorsioni nel processo di scelta. L’effetto sul commercio globale della guerra dei dazi è stato un rallentamento dei flussi di commercio.
Questi processi erano già in corso da alcuni anni; la crisi del Covid-19 li ha esacerbati e resi più evidenti. L’uso della tecnologia per limitare i contagi, riprendersi dall’epidemia, gestire lo smartworking sta facendo fare un salto importante a molti paesi, che ne hanno capito l’importanza nella competizione internazionale e nella crescita economica interna di lungo periodo. Allo stesso tempo, l’epidemia ha evidenziato ulteriormente le disuguaglianze sia geografiche sia sociali e questo sta riportato al centro del dibattito l’importanza di una crescita più sostenibile ed eguale.
Il risultato, per il momento, è un aumento dell’incertezza, uno dei grandi veleni dell’economia mondiale.

 

Giorgio Ricchiuti: laureato in Economia politica, ha inoltre conseguito il Dottorato di Economia dello sviluppo. È professore associato presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università di Firenze, dove tiene corsi di Economia internazionale, Macroeconomia ed Economia computazionale. È autore di diverse pubblicazioni, tra cui il corso di diritto ed economia nel biennio Costituzione al futuro, pubblicato da Paramond nel 2019.