La riforma fiscale

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Un excursus storico e uno sguardo al futuro

AREA GIURIDICO-ECONOMICA

Tra gli obiettivi del Governo Draghi vi è quello di una riforma organica del sistema tributario. Analizziamo i precedenti storici e il modello danese, evocato dal premier.

di Emanuele Perucci

Il premier Mario Draghi ha annunciato l’intenzione di avviare lo studio per una riforma fiscale a partire dal 2022, con l’obiettivo di procedere a una revisione complessiva dell’intero sistema tributario italiano. Questo è attualmente caratterizzato da numerosi e frequenti interventi legislativi, non organici, con i quali sono state introdotte nel tempo nuove imposte, modificate quelle esistenti, previste nuove modalità di tassazione dei redditi.
L’annuncio è stato accolto molto positivamente, soprattutto dagli operatori del settore, in quanto è sentita l’esigenza di un simile intervento.

La prima vera riforma

Il sistema tributario italiano nacque intorno al 1860, dalla fusione di quello del Regno di Sardegna con i sistemi degli altri Stati presenti sul territorio nazionale. Nel 1923 fu attuata, a opera dell’allora ministro delle finanze Alberto De Stefani, la prima vera riforma, con l’istituzione di un’imposta complementare progressiva sul reddito che colpiva, in modo generalizzato, l’insieme dei redditi di cui ogni cittadino avesse la disponibilità e l’amministrazione.
L’imposta era progressiva in modo continuo, con aliquote che variavano dall’1% al 10%.
Parallelamente fu istituita un’imposta unica sugli scambi commerciali, che colpiva la cessione di merci tra imprenditori.

La riforma Preti

Negli anni Settanta, la legge 9 ottobre 1971, n. 825 (cosiddetta legge Preti), conferì al Governo la delega legislativa per la riforma tributaria, stabilendo i punti essenziali e i criteri per la realizzazione della stessa.
La riforma, conclusasi nel 1973, portò all’istituzione di cinque nuove imposte, di cui tre dirette e due indirette, che compensavano l’abrogazione di numerosi tributi preesistenti.
Le imposte dirette furono:

l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), a carattere personale e progressivo (per scaglioni), applicata sul reddito netto complessivo delle persone fisiche;
l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (Irpeg, ora Ires), a carattere personale e proporzionale, che colpiva il possesso di redditi da parte di persone giuridiche o di enti assimilati;
l’imposta locale sui redditi (Ilor), a carattere reale, che colpiva i redditi di capitale, impresa e diversi, prodotti nel territorio dello Stato. Aveva funzione integrativa e sussidiaria rispetto all’imposizione personale e aveva lo scopo di discriminare quantitativamente i redditi. I soggetti passivi erano le persone fisiche, le società di persone e di capitali.

Successivamente, il Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir), approvato con il DPR 22 dicembre 1986 n. 917 e più volte modificato negli anni, raggruppò le disposizioni normative relative a Irpef, Irpeg e Ilor.

Le imposte indirette erano invece:

l’imposta sul valore aggiunto (Iva), un’imposta plurifase, neutra e trasparente, che colpiva il valore aggiunto e si applicava alla cessione di beni, alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato dagli imprenditori, esercenti arti e professioni e importatori;
l’imposta comunale sull’incremento del valore degli immobili (Invim), che si applicava all’incremento di valore degli immobili, comunque determinatosi e indipendentemente dalla volontà del soggetto passivo.

Le riforme Visco e Tremonti

Nel 1997 si ebbe un cambiamento importante del sistema tributario italiano. Il ministro delle finanze Vincenzo Visco varò una serie di decreti che prevedevano innanzitutto una nuova imposta regionale: l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), che sopprimeva ben sei tributi a parità di gettito (Ilor, Iciap, imposta sul patrimonio netto, tassa di concessione sulla partita Iva, tassa di concessione comunale e contributo al Servizio sanitario nazionale).
Parallelamente fu introdotto un sistema agevolato per la tassazione del reddito d’impresa denominato Dual income tax (Dit), che rimase in vigore fino al 2004 con l’introduzione della nuova imposta sulle società (Ires).
All’inizio del nuovo millennio, il ministro Giulio Tremonti varò una legge delega sul Fisco (legge n. 80/2003) destinata a mutare “per moduli” l’intero sistema tributario italiano (il primo modulo sostituì, dal 1° gennaio 2004, l’Irpeg con l’Ires).
Il secondo modulo apportò alcune modifiche strutturali all’Irpef, consistenti in una rimodulazione delle aliquote e in una diminuzione degli scaglioni. Contestualmente furono trasformate le detrazioni per carichi di famiglia e le altre detrazioni per alcune categorie di reddito in deduzioni, la cui entità diminuì all’aumentare del reddito, fino ad annullarsi.

L’attuale sistema tributario

L’attuale sistema fiscale italiano è un sistema ibrido. È basato su un principio di tassazione di tipo progressivo (modello Irpef), ma nel tempo inquinato da interventi mirati che hanno introdotto tassazioni con aliquote proporzionali (ad esempio il regime forfettario introdotto nel 2019 per professionisti e imprese individuali con ricavi fino a 65 000 euro).
La presenza simultanea di un Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir) e di variegate disposizioni normative, rende evidente l’assenza di organicità nella disciplina tributaria. Sarebbe quindi opportuna, per la complessità della materia, la revisione della principale imposta diretta (Irpef) con gli obiettivi di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, ridurre gradualmente il carico fiscale e preservare la progressività. Il tutto accompagnato da un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale.
Analogamente a quanto avvenuto negli anni Settanta, sarebbe utile nominare una commissione di esperti per lo studio degli interventi da effettuare: la revisione del sistema fiscale, infatti, presuppone un approfondito esame congiunto della miriade di norme attualmente esistenti, da far confluire in un unico testo normativo basato sulla semplificazione e sulla progressività.
Proprio questi concetti sono stati enunciati da Mario Draghi nel discorso programmatico per ottenere la fiducia del Parlamento: semplificazione, da intendersi come riduzione degli adempimenti fiscali e della tipologia di imposte esistenti, e progressività, da intendersi come applicazione dell’Irpef con aliquote differenti e crescenti all’aumentare del reddito.

Il riferimento del premier è dunque chiaro: evitare di introdurre norme non coordinate come la flat tax, il regime forfettario, la cedolare secca, il sistema di detrazioni Irpef.
Il sistema fiscale da lui preso ad esempio è quello danese, la cui riforma è stata avviata nel 2008 con la nomina di una commissione di esperti, che ha raggiunto l’obiettivo della riduzione della pressione fiscale sul ceto medio, concentrandosi sulla riduzione dell’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito e innalzando la soglia di esenzione.

Il sistema fiscale danese

Vediamo sinteticamente come funziona il modello fiscale danese, per capire i passaggi cruciali della riforma rispetto al nostro attuale sistema. Il riferimento alla Danimarca non è casuale, essendo questo Paese ai primi posti Ue per il rapporto tra il gettito fiscale e il prodotto interno lordo (Pil).
La tassazione delle persone fisiche avviene attraverso cinque differenti imposte, di cui una facoltativa:

contributo al mercato del lavoro;
imposta statale;
imposta municipale;
imposta sanitaria (abolita nel 2019 e sostituita da un incremento della tassazione nazionale);
imposta ecclesiastica (facoltativa).

Vengono tassati tutti i redditi dei contribuenti residenti e quelli di fonte danese per i non residenti.
I redditi fino a 46 200 corone (circa 8 600 euro) sono esenti e l’imposta nazionale varia dal 12,16% (per i redditi fino a 513 400 corone, equivalenti a circa 69 000 euro) al 15% per lo scaglione di redditi superiori, mentre l’imposta comunale varia tra il 22,5% e il 27,8%.
Il reddito imponibile si ottiene partendo dal reddito lordo, sottraendo una serie di deduzioni (per interessi passivi, figli a carico, contributi previdenziali, contributi per il fondo di disoccupazione e spese di trasporto tra casa e lavoro). Sono poi previste ulteriori deduzioni per redditi di lavoro dipendente e nuclei mono genitoriali.
Prima di applicare le imposte sul reddito, viene calcolato il contributo al mercato del lavoro (8%) che costituisce un’ulteriore deduzione ai fini del calcolo delle altre imposte.
La tassazione dei redditi di capitale avviene con due aliquote: il 27% per importi fino a 54 000 corone (circa 7 000 euro) e il 42% per gli importi superiori.
Analoga impostazione per i redditi degli immobili: imposta parti all’1% per redditi fino a 3 040 000 corone (circa 400 000 euro) e 3% sul valore eccedente.
L’imposta sul reddito delle società è proporzionale come la nostra attuale Ires, con un’aliquota del 22%.
L’Iva è pari al 25%.
L’auspicata riforma presuppone quindi in via prioritaria la ridefinizione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, il cui andamento in termini di effettiva incidenza sui redditi è irregolare e con vari effetti distorsivi legati alle modalità di calcolo di alcune detrazioni (lavoro, familiari) e bonus vari. Il tutto cercando di rendere più chiaro il meccanismo di calcolo dell’imposta, che si complica a causa del complesso sistema delle deduzioni e detrazioni. Senza dimenticare i vari regimi sostitutivi e cedolari, talvolta evidentemente “sproporzionati” rispetto alle aliquote Irpef.

La riforma fiscale

di Emanuele Perucci

 

Emanuele Perucci: laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli studi di Pisa, con pluriennale esperienza nel campo fiscale in qualità di funzionario dell'Agenzia delle Entrate. È autore Pearson del testo Sistema economia.

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