Percorsi che si avvicinano al traguardo e nuovi itinerari all’orizzonte
Una riflessione insieme a maestri e maestre che lavorano intensamente oggi, pensando già alle classi di domani
ALTRI TEMI
Una riflessione, più simile a una “tempesta di cervelli”, per identificare e tenerci stretti quegli aspetti “irrinunciabili” del nostro mestiere, i pilastri portanti del nostro fare scuola, per preparare il terreno di un nuovo anno professionale coinvolgente, appassionante e proprio per questo efficace.
di Laura Papetti
C’è un tempo dell’anno scolastico, che generalmente coincide con l’inizio del secondo quadrimestre, in cui mi accorgo che molti docenti – come me – sono intensamente impegnati nel portare avanti le esperienze avviate, annunciare nuovi progetti che prenderanno corpo a primavera, consolidare quanto fatto nel cuore dell’inverno e preparare i propri alunni a nuove narrazioni e nuovi temi, perché l’anno scolastico corre e gli argomenti da affrontare sono molti, ciascuno meritevole di tempo per sedimentare, suscitare domande, generare curiosità e voglia di approfondire.
Quest’anno, in particolare, vivo la meravigliosa avventura di accompagnare la mia prima classe quinta all’uscita dalla scuola primaria: oltre alla consapevolezza che l’ultimo giorno di scuola lascerò andare i miei ragazzi con le lacrime agli occhi e tanta malinconia, mi affiorano dubbi e pensieri su quanto e come io e i colleghi del team li abbiamo attrezzati per proseguire il loro percorso: abbiamo nutrito sufficientemente la fantasia di Gaia? Siamo riusciti a rispettare la riservatezza di Elisa e al contempo a spronarla un po’ a conoscere il piacere di aprirsi e condividere qualcosa di sé con gli amici? Ci siamo presi cura dei talenti di Lorenzo? E delle curiosità filosofiche di Andrea?
E ancora, entrando più specificamente in ambito didattico: abbiamo lavorato abbastanza sulle istituzioni, perché le riconoscano sempre, ad ogni livello, come interlocutrici importanti nelle loro vite di cittadini? Abbiamo creato a sufficienza occasioni perché le conoscenze antropologiche o scientifiche dei nostri alunni potessero agganciarsi a temi di attualità, emergere in modo trasversale, essere utilizzate in modo critico e personale?
Mentre si fanno fitti pensieri di questo tipo, l’orto sta per risvegliarsi e necessiterà di parecchio lavoro; il progetto teatrale chiede costanza e una continua motivazione del gruppo; le prove Invalsi non sono poi così lontane e la conversazione in inglese va praticata con regolarità.
Al tempo stesso, in una zona non ben identificata dell’immaginazione, proiettati in un futuro non del tutto definito, iniziano a profilarsi volti sfocati di nuovi bambini, nuovi temi da mettere in gioco con la prossima classe. Nel mio caso, presumibilmente una prima, un nuovo inizio. Ma nulla è certo. In ogni caso, tutti i docenti – indipendentemente dalla classe in cui lavoreranno – iniziano a ricevere materiali: a volte dono prezioso del collega che ne ha già fatto uso, a volte volumi freschi di stampa portati in visione dall’agente editoriale di zona, che propone i testi adozionali per l’anno scolastico successivo. E così i mercoledì di programmazione diventano occasione per prefigurare modi sempre migliori per accompagnare i bambini a crescere con il desiderio di imparare.
Se doveste scegliere quali strumenti mettere in “bagagli leggeri”, dove c’è capienza solo per gli ingredienti “irrinunciabili” per preparare il terreno di un nuovo anno professionale coinvolgente, appassionante e proprio per questo efficace, cosa portereste?
Il primo ingrediente che riesco a pensare come irrinunciabile, in qualunque percorso che – prima ancora che didattico – si possa dire educativo è la fiducia.
La costruzione della fiducia, cioè del nostro affidarci all’altro, affonda le sue radici in esperienze di benessere – fisico ed emotivo – vissuto accanto alle figure adulte di riferimento. È un primo potentissimo avvio di qualunque percorso di crescita costruttivo.
È come se il bambino davanti a noi ci dicesse: “Sono stato bene con te, sento che potrai accompagnarmi in altre esperienze e mi lascerò portare per mano proprio per ripetere quella sensazione di benessere che ho potuto provare insieme a te. Andiamo.”
Costruire fiducia a scuola è una questione che chiama in causa l’essere dell’adulto docente, il suo sguardo sul mondo, il suo agire più istintivo, quello che trapela al di là di ciò che ha progettato o ha intenzione di insegnare.
Mi piace pensare che la fiducia possa essere nutrita – in ambito educativo – anche attraverso riti e gesti, come quello antico e intimo di leggere una storia insieme, e di emozionarsi di fronte ad essa. E mi accorgo sempre più spesso anche di come le storie abbiano un potenziale enorme rispetto agli apprendimenti.
Leggere storie ai bambini è prima di tutto un atto in grado di donare un ricco patrimonio culturale e identitario a chi ci ascolta. Sono proprio le narrazioni – afferma Aidan Chambers ne Il lettore infinito – che ci permettono di collocarci in una determinata cultura, e di acquisire il contesto antropologico in cui viviamo.
Ascoltiamo racconti sulla nostra famiglia, sul nostro popolo e sul mondo. E attraverso l’insieme di queste narrazioni ci collochiamo in un determinato tempo e in un determinato spazio, e lentamente costruiamo le nostre identità personali […]. Il nostro approccio alla lettura di letteratura è profondamente radicato in questa esperienza di racconto orale, nel nostro bisogno di storie, nella nostra comprensione dei suoi modi e dei suoi mezzi. Filastrocche e racconti, storie della tradizione popolare e fiabe, favole, miti e leggende si trasmettono da una persona all’altra: tutto questo ci aiuta a formarci come lettori.
(Aidan Chambers, Il lettore infinito, Equilibri 2015, p. 65)
Le storie parlano di noi, della nostra cultura, del nostro immaginario collettivo, e del nostro presente. Ma veicolano anche apprendimenti, portando informazioni, conoscenze, dati ed elementi riflessivi sul mondo e sulla sua natura, sulla sua storia e sul suo destino, all’interno di un’esperienza che si connota come molto più ricca di un semplice trasferimento di informazioni.
Maria Montessori, nel suo Come educare il potenziale umano, scrive proprio di questo importante binomio cognitivo-emotivo nel percorso di studio di ciascun bambino:
Il bambino dovrebbe amare tutto ciò che studia,
perché lo sviluppo mentale e quello sentimentale sono legati tra loro.
(Maria Montessori, Come educare il potenziale umano, Garzanti, 1992, p.42)
Imparare dovrebbe essere per ogni alunno un’esperienza avvincente, che innesca continuamente nuove curiosità e nuove domande. Ecco perché le storie ci possono aiutare a raccontare i “fatti” del mondo, collegati fra loro in un unicum che è il grande organismo vivente dell’Universo. Mi affascina molto l’espressione, anch’essa tutta montessoriana, di educazione cosmica: è un’educazione alla vita, attraverso le conoscenze culturali che caratterizzano il nostro essere al mondo. Di fatto comprende elementi di geografia, geologia, astronomia, meteorologia, chimica, fisica, botanica, ecologia, uniti in un percorso formativo unitario, che non scinde le singole discipline e prende avvio dall’appassionante storia dell’origine dell’Universo. Per passi graduali si arrivano poi a conoscere la storia della scrittura e dell’arte, così come quella dei numeri e della geometria. In questo contesto, sono sempre le storie a condurre il bambino alla scoperta di nuove conoscenze, senza il bisogno di sapere se si stia apprendendo la matematica o la geografia.
Tornando al nostro gioco, se dovessi pensare a un secondo irrinunciabile ingrediente da poter infilare in una borsa leggera, per insegnare in una nuova classe, in nuove situazioni didattiche, emergerebbe immancabilmente dalla mia memoria corporea tutta la mia esperienza di alunna alla scuola speciale Rinnovata Pizzigoni, una scuola – a dispetto del nome – statale primaria di Milano in cui ancora oggi si fa didattica attraverso il metodo istituito appunto da Giuseppina Pizzigoni (1870–1947). Se dovessimo riassumere la metodologia pizzigoniana, potremmo usare le sue stesse parole: “Tempio: la Natura, Scopo: il Vero, Metodo: l’Esperienza”.
Il metodo Pizzigoni si rifà all’opportunità di vivere pienamente gli stimoli del mondo, siano essi della natura (la scuola gode di un notevole giardino e di un grande appezzamento di terreno, coltivato dalle classi, cui è affiancata una fattoria con spazi-laboratorio) o delle opportunità culturali del territorio (ricordo mia madre che si stupiva spesso per la quantità di uscite didattiche cui mio fratello ed io eravamo chiamati a partecipare, con frequenza quasi settimanale: poteva accadere di andare tutti a teatro, ma anche uscire per recarsi con la classe all’ufficio postale o a intervistare i commercianti del mercato rionale). Oggi, di quella forgiante esperienza recupererei senz’altro la libertà di stare il più possibile nella natura, di fare esperienze e giochi per imparare, prima di memorizzare, di osservare dal vero le piante e toccare con mano le attività umane legate alla terra, e il valore altissimo assegnato alla bellezza del contesto, del luogo in cui si apprende.
Non smetteremo di esplorare
E alla fine di tutto il nostro andare
Ritorneremo al punto di partenza
E conosceremo il luogo
Per la prima volta.
(Thomas S. Eliot, La terra desolata, Quattro quartetti)
Lo strumento libro, in questo contesto, è il momento di approdo all’interno di un approccio ricco di proposte che portano in classe la vita della quotidianità, cercando di dedicare a ogni elemento preso in considerazione il tempo necessario perché venga osservato, ascoltato, compreso, manipolato e apprezzato per la sua unicità e concretezza, e per ciò che ci può dire nel momento in cui veniamo in contatto con esso. Una scuola di valore riesce a scardinare le modalità “fredde” di lavoro e sa permeare la didattica di oggetti e stimoli che in qualche modo sono stati tradizionalmente considerati parte del mondo dello svago, del tempo libero, del divertimento.
Il libro di testo, in particolare, rimane, a mio parere, anche dentro un contesto di didattica attiva, laboratoriale ed esperienziale, un imprescindibile strumento di conoscenza, il luogo dove fare ordine, dove dare nome agli apprendimenti, tornare a lavorare in momenti individuali, per soffermarsi dove serve a ciascuno. Un oggetto utile anche come traccia per le famiglie, perché possano seguire, seppure in modo parziale, le orme dell’itinerario in corso. Infine, uno strumento democratico, a portata di tutti, e diritto di tutti, perché non vi siano bambini e bambine penalizzati dalla povertà culturale.
Se provassimo a fare un brainstorming di modalità “calde” di lavoro, che cosa comparirebbe sul vostro foglio?
Sul mio…
- Osservare le stagioni e tutto ciò che è “vivente” fuori dalle schede fotocopiate, andando insieme al parco, o più semplicemente in giardino; magari scegliere un oggetto naturale da mettere in tasca, per poi osservarlo a lungo, con calma e raccontarlo ai compagni, scegliendo le parole migliori, condividendo quale suo aspetto ci abbia attratto e invitato a sceglierlo.
- Fare l’orto a scuola, come pratica ecologica, di osservazione scientifica e “dell’aver cura” (L. Mortari)
- Scrivere messaggi segreti con cortecce, sassi; scrivere nella sabbia, personificare lettere e parole, inventare storie tattili, sonore, visuali…
- Lasciare a ogni alunno il luogo preferito per concentrarsi, elaborare idee o scrivere (qualcuno preferirà il banco, qualcuno il pavimento, qualcun altro un angolo morbido…).
….
L’ultimo imprescindibile elemento che porto con me, nella prospettiva di un nuovo anno scolastico ricco di speranza, fiducia e nuovi itinerari di crescita, è l’idea della classe come laboratorio. Un’idea vecchia più di un secolo, se pensiamo che già Aristide Gabelli, nel 1880, dopo aver osservato diverse modalità didattiche nelle scuole elementari italiane aveva modo di notare criticamente che:
Ora le nostre scuole elementari, non tutte ben inteso, ma la maggior parte, somigliano un poco a delle officine nelle quali si insegna più a dire come una cosa si faccia che non a farla. Non è già che non vi si lavori: tutt’altro, vi si fa un lavoro in parte improduttivo, di nomi, di parole, che l’alunno ridice a memoria.
(Gabelli, A., cit. in Zuccoli 2010, Dalle tasche dei bambini. Gli oggetti, le storie, la didattica, Edizioni Junior, Bergamo p. 49)
Ancora oggi rischiamo – spesso per questioni che hanno a che vedere con la fretta o con problematiche di gestione della classe – di fare una scuola fatta di troppe parole; un’officina che insegna a dire come si fa, senza fare; che parla del corpo senza farlo utilizzare; che insegna la musica senza gli strumenti musicali; che parla di esperimenti scientifici senza far sperimentare…
La classe-laboratorio è una classe che pensa, elabora, manipola oggetti e idee per poi astrarre, vive esperienze per poi raccontarne. Se ci penso, non alludo ad aule-falegnameria – seppure possa essere sicuramente interessante riuscire ad averne una – né ad aule-laboratorio di chimica, né infine a spazi ad alta presenza di strumenti multimediali. Il laboratorio cui voglio fare riferimento è un’occasione, un contesto spazio-temporale per mettere in gioco la dimensione progettuale e operativa dei bambini, che si mobilitano per scopi che sentono come rilevanti e concreti e sperimentano in prima persona la realizzazione di compiti complessi.
Si può fare laboratorio con oggetti e materiali, come per esempio per la realizzazione di strumenti didattici (costruire abachi o clessidre, fare la carta, realizzare diorami…), oppure sperimentare laboratori di parole, come nei laboratori di scrittura o di grammatica.
Perché si tratti di laboratorio sono fondamentali alcuni aspetti:
• la condivisione della fase ideativa e progettuale;
• la possibilità di negoziare idee e ruoli operativi;
• la suddivisione del compito complesso in compiti più circoscritti, assecondando le propensioni di ciascuno;
• la riflessione condivisa sull’esperienza vissuta e sui processi attivati, per trarre nuove strategie e nuove consapevolezze.
Quanto lavoro cognitivo, quante soft skills, quanto lavoro relazionale in circolo, quando la classe si fa laboratorio!
Se nella borsa leggera con cui viaggio verso nuove esperienze professionali, a scuola, ci stesse tutto questo, allora non servirebbe altro. O forse sì. La gratitudine per i bambini, che ci aiutano a crescere e che ci accompagnano per un tratto di strada, lungo o corto che sia. Ai miei alunni e alle mie alunne di questo quinquennio sono grata per aver sopportato i miei “pallini” didattici con pazienza e per aver sorriso delle mie imprecisioni. Per avermi fatta ridere e avermi fatto pensare che “ne vale immensamente la pena”. A loro sono grata anche perché so che hanno visto e compreso l’autentica intenzione di stare accanto a loro e prendermi cura dei loro percorsi di crescita e apprendimento. Ai miei futuri alunni e alle mie future alunne, invece, sono grata per il tempo che dedicheranno a conoscermi e per ciò che mi aiuteranno a conoscere di me.
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