Etichette che distraggono
Per inquadrare il tema
DIDATTICA INCLUSIVA
Nella scuola aumentano le presenze di bambini che vengono da lontano e che vengono chiamati in vari modi, tutti un po’ distorcenti: stranieri, figli di stranieri, minori immigrati, extracomunitari, non italofoni, ecc. Negli ultimi anni, in quasi tutte le scuole i loro percorsi vengono affidati a un’attività “interculturale”, a volte di competenza di una specifica commissione.
Era stato in quel momento che Maurizio aveva smesso di chiedersi cosa volesse dire “noi” a Crabas. Non era un pronome come negli altri posti, ma la cittadinanza di una patria tacita dove tutto il tempo condiviso si declinava così, al pronome plurale.
Michela Murgia
Nella scuola aumentano le presenze di bambini che vengono da lontano (anche se spesso non da così lontano) e che vengono chiamati in vari modi, tutti un po’ distorcenti: stranieri, figli di stranieri, minori immigrati (anche loro?), extracomunitari (non sempre), non italofoni (ma quanto?), ecc. Negli ultimi anni, in quasi tutte le scuole i loro percorsi (chiamati di inclusione, di integrazione, accoglienza, ecc.) vengono affidati a un’attività “interculturale”, a volte di competenza di una specifica commissione. Spesso la distribuzione nelle classi e i discorsi (da parte di docenti, esperti, genitori) che accompagnano la loro presenza ne enfatizzano la problematicità, talvolta già esperita ma più spesso presunta. Le classi e le scuole in cui tali presenze sono più alte vengono ritenute, in genere, disagiate. Si presume che i docenti che vi lavorano siano sottoposti a disagi e che i programmi svolti ne vengano danneggiati e ritardati.
Non ci interessa qui discutere a lungo di queste e altre presupposizioni, che possono gravare in maniera decisiva sulla pratica didattica e sul percorso di questi allievi: proponiamo di metterle almeno provvisoriamente da parte e di cercare di ripartire da uno sguardo il più possibile localizzato, che permetta di predisporre ipotesi didattiche non pregiudizialmente al ribasso.
Chi è il bambino straniero
Ci è capitato, negli anni, di adoperare un espediente per meglio mettere a fuoco i bisogni formativi di docenti sull’argomento che stiamo cercando di ridefinire. I moduli formativi avevano magari titoli assai diversi tra loro, ma l’attività iniziale che ora raccontiamo ci ha aiutato sempre a una proficua ridefinizione del patto formativo. Le docenti vengono invitate a disporsi in semicerchio, di fronte a uno schermo, dotate di carta e matita. La formatrice le avverte che saranno loro rivolte, grazie a due diapositive in successione, due domande, e le invita a rispondere per iscritto e in silenzio nei tempi indicati da ciascuna diapositiva. Appare la prima: “Si prega di rispondere in 15 secondi: Quanti allievi stranieri hai in classe?”; dopo 15 secondi appare la seconda: “Si prega di rispondere in 90 secondi: Quali criteri hai adoperato per rispondere alla domanda precedente?”.
Quasi sempre, nonostante l’invito a pazientare, all’apparizione della seconda domanda più di una docente manifestava nervosismo e volontà di intervento immediato, ma le veniva richiesto di aspettare 90 secondi prima di esprimere la sua perplessità. Sistematicamente, però, non c’è stato bisogno che la formatrice giustificasse una richiesta così inattesa, perché altre docenti hanno espresso la volontà di intervenire subito, dichiarando – alcune turbate, altre elettrizzate dalla scoperta – un disagio classificatorio. Invitate a esplicitare i criteri adottati per dire quanti allievi stranieri avevano in classe, prima ancora di rispondere alcune docenti erano tornate sulla prima risposta, modificandola. Era bastata una semplice richiesta di riflessione sui criteri di attribuzione e il numero degli allievi stranieri saliva o scendeva, a seconda dei casi. Veniva così confermato quanto esperito nelle preziose ricerche di Letizia Caronia, cui si ispirava l’esperimento (Caronia 1996). Alla richiesta di indicare su un questionario se avessero bambini stranieri in classe, molte insegnanti avevano corredato le risposte di note e aggiunte: chi indicando la “presenza di un bambino di origine brasiliana adottato da genitori italiani”, chi tenendo a precisare che “i due bambini indiani – adottati da genitori italiani nei primi mesi di vita – non hanno presentato difficoltà di inserimento né di linguaggio”. Durante la conversazione, poi, si era assistito a ogni genere di tali aggiustamenti, culminanti in espressioni rivelatrici: “Sì, io ho un bambino straniero, però è figlio di un professore di inglese”.
I disagi cognitivi rivelano una verità di buon senso: “straniero” è una nozione relazionale, costruita all’interno di un gruppo sociale che indica come rilevante un carattere piuttosto che un altro. Non esiste perciò lo straniero, se non come una costruzione sociale in nome di un accordo condiviso. Non è detto che norme e criteri, più o meno espliciti, che ci permettono di attribuire l’essere-straniero siano stabili e decisi una volta per tutte (Si veda l’interessante casistica fornita da Omodeo, in un volumetto di grande utilità, Omodeo 2002: 56-58). Non viene percepito come straniero, ad esempio, un nostro amico di vecchia data, nonostante la mancanza della cittadinanza italiana, il suo modo di vestire, la sua pronuncia, la sua abitudine a spiazzare i nostri comportamenti irriflessi e il colore della sua pelle. Nel caso di più circoscritti rapporti personali, invece, anche una sola di queste caratteristiche può bastare per percepire lo “straniero”, con il pericolo di un conflitto tra i criteri di attribuzione: i bambini di origine indiana dell’esempio riportato sono cittadini italiani, parlano in italiano, ecc.: sarà il colore della pelle a metterci in forse sulla loro attribuzione al “reparto stranieri”?
Se il modello di bambino straniero che emerge da un’analisi approfondita ha contorni così sfocati, ciò dovrebbe aiutarci a far crescere la consapevolezza che l’appartenenza (l’identità culturale, l’etnicità, ecc.) cui rischiamo di consegnare il bambino non è una caratteristica stabile e preesistente alla relazione educativa, ma viene prodotta nell’interazione, in condizioni di estraneità. Nelle sue illuminanti ricerche sul campo, con insegnanti e bambini delle scuole dell’infanzia, Letizia Caronia giunge alla conclusione che “l’etnicità non è una caratteristica del bambino, ma un prodotto delle sue relazioni in situazione” (Caronia 1996: 198). Saperlo e reimpararlo ogni volta può voler dire una contrattazione saggia, che permetta di evitare etichette definitive e discriminatorie.
Scappatoie facili
Perché ciò sia possibile, bisogna interrogarsi sulle nozioni di cultura, appartenenza, etnia, con cui si rischia di ricondurre il bambino a una supposta differenza naturale (“Loro sono così”) e che ci vengono incontro ogni volta che insorge un conflitto o una difficoltà, con un ripiegamento sulle dicerie della nostra tribù (“Lo sanno tutti che...”). Accade infatti che, a dispetto di tante dichiarazioni di rispetto dell’alterità, le situazioni difficili non siano affrontate in quanto tali, ma vengano derubricate a conflitto interculturale. Lo stereotipo per cui chi viene da fuori è da considerare un problema rischia di offrirsi come scappatoia comoda a una situazione imprevista, che va affrontata con una maggiore consapevolezza della complessità della relazione educativa, dell’interazione faccia-a-faccia, e del peso che le nostre teorie implicite (del bambino, dello straniero, ecc.) hanno nella messa a punto delle strategie educative.
Invece di adoperare come risorse gli imprevisti che costituiscono molta della ricchezza della relazione educativa, si rischia di ricorrere a una rozza antropologia, che vede l’altro come un oggetto di conoscenza, preesistente all’interazione. Una pedagogia capace di ribadire che la conoscenza si costruisce a partire dalla relazione (Caronia 1997) aiuta invece a rovesciare il diffuso pregiudizio iniziale che la cultura si dia come una precondizione al rapporto educativo.
Egrave; questa consapevolezza che ci conduce a ciò che è stata chiamata pedagogia interculturale: non il rispetto di ciò che ci sarebbe già da sempre (le loro origini, la loro cultura), quanto un’interazione capace di un ascolto attento e una valorizzazione dell’imprevisto (Perticari 1996), e che perciò richiede una curiosità, e magari un interesse per la diversità, in grado di resistere alla tentazione dell’attribuzione di una differenza immobile e ascrittiva.
Difficoltà linguistiche e differenze “culturali”: il peso del senso comune
Invitate i docenti a esprimere le difficoltà che pensano di dover fronteggiare: essi quasi sempre indicano nella scarsa conoscenza linguistica iniziale e nelle differenze culturali i due nodi da affrontare. Tale convinzione, se non interpretata, rischia di fossilizzarsi e di alimentarsi di idee ricevute e stereotipi; ma è necessario riconoscervi un nodo con cui misurarsi. Chi deve accordare le proprie strategie comunicative in situazioni in cui sono salienti la difficile valutazione delle competenze linguistiche possedute dall’interlocutore, le conoscenze sociali che fanno da sfondo e gli schemi di riferimento per l’azione sente che gli viene a mancare – o per lo meno viene messa in discussione – tutta una serie di presupposizioni che rendono ordinaria, prevedibile, rassicurante la relazione (Quassoli 2006). Si tende perciò a temere un insuccesso nella comunicazione e, spesso, ad attribuirne lo scacco alle scarse competenze linguistiche dell’interlocutore e alla differenza della cultura di appartenenza.
Egrave; di cruciale importanza evitare lo slittamento dall’incerta valutazione delle competenze a un giudizio sulla loro insufficienza, e dall’indebolimento dei propri schemi di riferimento a un’attribuzione di appartenenza altrui. Sarà opportuno tener ferma la consapevolezza che, spesso, i “problemi” rilevati nella scuola sono dovuti non tanto alle difficoltà o diversità di determinati soggetti, quanto al fatto che “l’organizzazione sociale e la cultura nei paesi di accoglimento (anche scolastiche) non sono abituate a vedersi e ad ascoltarsi come insieme di regole, modi, aspettative culturali” (Gobbo 2000: 13).
Vi insiste, con precisione, lo scritto che introduce il presente volume, quando afferma che “il processo di conoscenza situazionale che abbiamo prospettato implica la maggior esplicitazione possibile delle aspettative, delle precomprensioni, delle rappresentazioni che ogni adulto mette in campo nei confronti di chi impara, e che sono influenzate sia dalla propria esperienza formativa (personale e professionale), ma anche dalla cultura e dal clima della scuola in cui si opera. Questi elementi, insieme alle procedure e agli strumenti utilizzati per conoscere l’altro, ne ‘costruiscono la conoscenza’, la sua immagine, e influenzano le aspettative nei suoi confronti” (Palmieri 2013: 22).
La Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012, nel ridefinire il tradizionale approccio all’integrazione scolastica, estende il campo di intervento “di tutta la comunità educante all’intera area dei Bisogni Educativi Speciali (BES), comprendente: svantaggio sociale e culturale, Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse” (MIUR, Direttiva 2012). Come si vede, queste due righe della Direttiva Ministeriale (si tratta certo di un infortunio; le nostre perplessità su questo passo non si estendono certo a tutto il resto del documento) sono in linea con il “senso comune”.
Quando ci si trova in un ambito in cui è necessario ragionare per comprendere le scelte pratiche da compiere, fermarsi a “ciò che tutti dicono” significa sospendere il dubbio, evitare lo sforzo del pensiero, rinunciare a ricercare un orientamento pratico che non condanni al prevedibile insuccesso. Anche noi, occupati a definire i modi più efficaci per accogliere i bambini “stranieri” nella scuola, avremo tutto da guadagnare se interrogheremo i presupposti del discorso di senso comune su di loro. Si tratta, per seguire Palmieri, di esplicitare le proprie precomprensioni e rappresentazioni sociali, sottoponendole a un’analisi critica che si chieda soprattutto: qual è l’efficacia di un’azione orientata secondo questi parametri? È possibile migliorarla, approfondendone le ragioni e, se si rivelerà necessario, ricorrendo ad altri paradigmi interpretativi?
Cultura, appartenenze, diversità e comunicazione
Quando si comunica, il fraintendimento è normale e frequente; più rara è la sensazione di essersi compresi alla perfezione. Ed è bene pensare che la mancanza di alcune presupposizioni comuni faciliti fraintendimenti, non necessariamente di tipo interculturale. La sensazione, oggi molto diffusa, che porta ad attribuire un fraintendimento a una differenza culturale è assai recente: rendersene conto può rivelarsi utile. Basta entrare in una biblioteca e chiedere le collezioni di un quotidiano risalenti agli anni Ottanta per accorgersi della mancanza di una serie di vocaboli che oggi sono assai diffusi, da “badante” a “degrado”, da “evento” a “cultura”. Quest’ultimo lemma veniva sì adoperato, ma solo in accezione umanistica: una persona “possedeva una buona cultura”, correlata di solito a buoni studi e a una situazione sociale agiata, e un’altra no; c’erano manifestazioni di “buon livello culturale” e altre di minor livello, e anche davanti a un’edicola della stazione ci si trovava di fronte a dilemmi: scegliere un libro di cultura o un giallo da abbandonare in treno dopo la lettura? Spostandosi più in qua nel tempo, si potrebbe pian piano veder emergere l’uso antropologico del termine “cultura”. Gli antropologi, veramente, lo usavano da almeno un secolo e si sono accorti presto di quanto ci perdesse, la nozione di cultura, in capacità euristiche, passando dall’uso scientifico a quello giornalistico e di senso comune. Ciò che era stato pensato come uno strumento interpretativo, che permetteva di comprendere la ricchezza di significato di riti, miti, comportamenti di popoli lontani, altrimenti percepiti come una congerie di parole e gesti strampalati, ora si rivelava un principio esplicativo, usato per classificare comportamenti diversi facendoli risalire ad appartenenze differenti.
Bisogna porre attenzione a non lasciare rientrare dalla finestra il sostanzialismo espulso dalla porta, con l’uso di locuzioni come appartenenze, matrici, radici culturali (scivolano in quest’ultima espressione persino le Indicazioni nazionali per il curricolo, che per molti aspetti si rivelano una risorsa preziosa, Indicazioni 2012: 10). In altre parole: la cultura non è una sostanza ma una nozione costruita dai ricercatori, che permette di mettere in relazione varie abitudini, credenze, riti e miti, e dare loro senso. Solo con una forzatura si può parlare di “appartenenza”, soprattutto quando non si tratta di una rivendicazione ma di una rapida categorizzazione. Anche la parola differenza va adoperata con qualche consapevolezza del dibattito epistemologico, per conservarne e sfruttarne il valore euristico, senza ridurla al dispositivo primordiale che contrappone “loro” a “noi”. Al mondo ci sono molte differenze, avverte Appadurai, e solo alcune sono culturali: quelle “che esprimono o formano la base per la mobilitazione di identità di gruppo” (Appadurai 2001: 29). Esistono, certamente, diversità di comportamenti, gestualità, rituali nell’interazione quotidiana. E soprattutto questi ultimi possono introdurre qualche problematicità nella comunicazione educativa. Ma un’attribuzione preventiva di appartenenza, una presupposizione di differenza, conducono spesso a spiegazioni incongrue degli scacchi comunicativi e relazionali. Bisogna perciò essere cauti nell’uso interpretativo di tali categorie. A volte, soprattutto in una situazione stressante, spiegazioni più complesse ma più efficaci di una difficoltà comunicativa vengono evitate facendo ricorso al fraintendimento interculturale. Un breve esempio ci può far vedere quanto possa essere pratica la riflessione sin qui tenuta.
Fingono di non capire
Siamo nel 2003, a Livorno. Marisa è un’infermiera competente, una persona aperta e simpatica. È una mamma molto ospitale e invita spesso i compagni maghrebini di suo figlio, ne rispetta le abitudini alimentari, ne ascolta il racconto delle difficoltà scolastiche. Ma al corso di formazione sulla comunicazione interculturale confessa di sfiorare l’intolleranza, allo sportello, con i pazienti migranti. Trova, come da copione, chiusi i cinesi, infidi i levantini; ma hanno in comune un vizio: capiscono, ma fingono di non capire. Il formatore confida nel confronto tra i corsisti e nei giochi di ruolo. Viene allestita una simulazione: Marisa fa da regista, una collega viene istruita su come comportarsi, un altro collega, bravo interprete in simulazioni precedenti, deve “fare il marocchino”. Corsisti e formatore, intorno a Marisa, osservano la scena, la fermano, fanno ripetere alcuni movimenti, e chiedono a Marisa: “Ti ci riconosci? Che cosa provi adesso? Perché pensi che si comporti così?”. Giovanna, la collega e amica che impersona Marisa, è seduta dietro lo sportello. Si avvicina Enrico, il “marocchino”, biascica alcune parole, non si capisce bene di che cosa ha bisogno. Ma Giovanna è gentilissima, si protende verso di lui, sta in punta di sedia, e dopo avere esordito con un infelice “deve compilare questo modulo”, si corregge, dice: “Ora scriviamo insieme su questo foglio di che cosa hai bisogno”. E comincia a fare domande e a scrivere con pazienza. Fermiamo i due e chiediamo: “Come ti vedi, Marisa?”. “Sbilanciata”, dice lei. “Senza rete”, aggiunge una corsista. Giovanna ha abbandonato, con la postura e la terminologia speciale, quelle piccole rassicurazioni che servono anche a mandare un messaggio sul proprio “contegno”. Ti puoi fidare di me, ti vengo incontro, è il messaggio positivo: mi spoglio del mio contegno professionale e ti mando messaggi di rispetto. Avverte il formatore: solo se tale atteggiamento sarà “riparato” da un aumento dei segnali di “contegno” e di “deferenza” di Enrico, la comunicazione procederà spedita ed efficace. Enrico, il “marocchino”, da parte sua, ogni tanto sorride e annuisce. A un certo punto, Giovanna chiede: “Hai capito?”. Enrico, sconfortato, dice di no. Giovanna scatta, si tira indietro a sedere, gli dà di nuovo del “lei” e lo invita a “compilare il modulo”. Chiediamo a Marisa le ragioni di un cambiamento così brusco, ci dice che si è sentita ridicola, lei si è tanto sbilanciata, lui non collabora, dice che non ha capito, e invece non è vero. Perché? “Annuiva, prima...”. Il formatore conosce bene questa affermazione, lavora nelle scuole e si tratta di una lamentela frequente nei confronti dei bambini “stranieri”. Ci ha già pensato sopra, ed è in grado di proporre immediatamente un’altra simulazione. Siamo a Vienna, e Marisa deve chiedere a un vigile austriaco come arrivare in Sigmund Freud Strasse. Enrico, felice di sfoderare il suo talento istrionico, fa da “vigile” e si produce in un tedesco maccheronico, spiegando a lungo la strada da fare. Marisa non capisce nulla, è frastornata. A un certo punto, una delle corsiste chiede: “Marisa, perché annuisci?”. È una rivelazione, per l’ottima infermiera: “Non capivo nulla, così annuivo, per dirgli: continua a parlare, magari se continui ci capisco qualcosa”.