Individuare i DSA

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Le domande più comuni

DIDATTICA INCLUSIVA

La dislessia non è una malattia ma una neurodiversità che implica un disturbo relativo alle pratiche scolastiche e ad alcuni aspetti della vita quotidiana. Ecco le risposte ad alcune delle più comuni domande sul tema.

di Rossella Grenci

Che cosa è la dislessia?

La dislessia non è una malattia, ma una neurodiversità che implica un disturbo relativo alle pratiche scolastiche e ad alcuni aspetti della vita quotidiana. Gli studi più recenti confermano l’ipotesi di un’origine costituzionale dei DSA: una base genetica e biologica conferisce la predisposizione al disturbo, anche se ancora non ne sono stati precisati i meccanismi esatti.

Su di essa contribuiscono in modo significativo i fattori ambientali (ambiente socio-culturale e setting fisico), che possono amplificare o contenere il disturbo.

In base a quali “sintomi” si può arrivare a sospettare la presenza di un DSA in un bambino?

I primi a relazionarsi in modo significativo con il soggetto con DSA sono i suoi familiari. Essi per primi dovranno rendersi conto che le prolungate difficoltà nell’ascolto e nella lettura dei bambini con DSA sono legate alle loro caratteristiche percettive. Molti bambini con DSA tendono a spostare l’attenzione su più stimoli contemporaneamente: tale meccanismo non andrà letto come incapacità a concentrarsi, ma piuttosto come una strategia compensativa per evitare il sovraccarico cognitivo.

Alle famiglie non si chiede ovviamente una competenza scientifica sui DSA ma un atteggiamento di fiducia nei bambini, che rischiano di perdere il senso di adeguatezza se non vengono compresi nelle strategie che mettono in atto per affrontare i problemi.

Tra le difficoltà dovute ai DSA più spiazzanti si segnala anche la gestione del tempo. Il bambino con DSA è generalmente più lento a elaborare il messaggio verbale: l’impressione che il bambino ricava in classe è che la lezione vada sempre a un ritmo troppo veloce.

Le neuroscienze spiegano che un soggetto che ha bisogno di più tempo presenta un’inefficienza strutturale nella decodifica dei messaggi e che quel lasso di tempo in più gli è utile per cercare vie compensative. Questo processo richiede energie, e se il soggetto in questione deve fare molti di questi percorsi nel corso della giornata, l’effetto cumulativo sarà notevole, con un ritardo marcato rispetto agli altri.

In che modo possono intervenire gli insegnanti, in presenza di un alunno con DSA?

Gli insegnanti che vogliano davvero realizzare una scuola “inclusiva” potrebbero proporre attività cognitivamente impegnative alternate ad attività che coinvolgono altre abilità (sensoriali, manipolative, …), suggeriranno ai bambini con DSA di fare pause durante l’attività prolungata, li motiveranno chiedendo loro di svolgere compiti in cui sono particolarmente “forti”, avranno cura di creare un clima collaborativo e prepareranno un ambiente di apprendimento adeguato, con ridotte possibilità di distrazione, tempistiche definite per ogni attività e supporti visuali per facilitare l’ordine e l’organizzazione degli input.

Se non trovano un sostegno né a scuola né a casa, alcuni bambini possono arrivare a soffrire di stati di ansia e/o di depressione, con conseguente aggressività o isolamento. L’aggressività è più frequente nei maschi, la depressione nelle femmine. Questa tendenza spiega anche perché può apparire più evidente la reazione di un bambino dislessico rispetto a quella di una bambina.

Quanto è diffusa la dislessia in Italia?

Nonostante si senta parlare spesso di dislessia, in Italia il fenomeno appare sottostimato. Le diagnosi effettuate riguardano ancora un numero molto basso di soggetti (1% della popolazione), mentre si stima che il 4% degli alunni sia interessato da Disturbi Specifici di Apprendimento.

Percentuale che può allarmare, ma piuttosto bassa in prospettiva internazionale se si considera, per esempio, che tra gli alunni anglofoni la percentuale di DSA è più del doppio di quelli di lingua italiana. La differenza risiede nelle caratteristiche della lingua: l’italiano è una lingua “trasparente”, con rare eccezioni di discrepanza tra segno (grafema) e suono (fonema), mentre la lingua inglese è priva di suddette caratteristiche.

Come si arriva a una diagnosi di DSA? In base a quali criteri viene accertata la presenza di tale disturbo?

La diagnosi di un DSA viene emessa da un’équipe composta da personale specializzato seguendo alcuni criteri, detti di “esclusione”.

In primo luogo si deve escludere che i disturbi dipendano da:

  • deficit di tipo intellettivo (ritardo mentale);
  • presenza di lesioni cerebrali (neurologiche);
  • deficit di tipo sensoriale (vista o udito);
  • problemi emotivi di tipo primario (cioè emersi prima del disturbo di apprendimento);
  • un numero consistente di assenze scolastiche.

Altri criteri utili per la definizione dei DSA sono:

  • il carattere “evolutivo” di questi disturbi, cioè la diversa espressività del disturbo nelle fasi evolutive dell’abilità in questione;
  • la quasi costante associazione ad altri disturbi (comorbilità).

Questi criteri sono stati sanciti dalla Consensus Conference, un progetto scientifico promosso dall’Associazione Italiana Dislessia che ha visto il confronto di esperti di ben 10 associazioni impegnate su questo tema. La stessa Consensus Conference ha pubblicato, nel 2007, le Raccomandazioni per la pratica clinica, cioè le linee guida per lavorare con i ragazzi con DSA sia in ambito scolastico che extra-scolastico.

Chi deve emettere la diagnosi di un DSA?

Come si svolge la valutazione?
La valutazione del bambino è affidata a un neuropsichiatra, uno psicologo e un logopedista. Le prime due figure eseguono una valutazione di tipo neuropsicologico, riguardante tutte le aree di “funzionamento” del bambino:

  • le sue capacità cognitive;
  • le abilità visuo-motorie, prassiche e spaziali;
  • la memoria;
  • l’attenzione.

Il logopedista valuta le abilità linguistiche e quelle legate agli apprendimenti scolastici: la correttezza e la rapidità nella comprensione di un testo, la scrittura in termini di tratto grafico, la numerazione e la capacità di calcolo, con un’analisi qualitativa (tipologie di errori) e quantitativa (numero di errori).

Quando tutti i professionisti hanno valutato il bambino, l’équipe stende una relazione scritta con la diagnosi, specificando anche gli aspetti psicologici secondari (demotivazione, bassa autostima, depressione) che possono essere emersi dai colloqui.

Nella relazione finale sarà segnalata la necessità o meno di logopedia o altre terapie e gli strumenti compensativi e le misure dispensative del caso.

 

Rossella Grenci è logopedista, scrittrice e mamma di due ragazzi dislessici. Vive a Potenza. È stata formatrice per l’Associazione Italiana Dislessia, tiene corsi per docenti sul tema della dislessia evolutiva in diverse parti d’Italia. È inoltre autrice del seguitissimo blog rossellagrenci.com.