Insieme diversi

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Per inquadrare il tema

DIDATTICA INCLUSIVA

L’immigrazione è un elemento, di quel complesso fenomeno della globalizzazione, che presenta aspetti diversi nelle nostre società. Anni fa l’Italia era un paese di emigranti – e lo era stato per più di un secolo – oggi è un Paese di immigrazione. Anni fa l’Italia aveva – o sembrava avere – un profilo omogeneo, oggi ha un profilo plurale.

di Andrea Riccardi

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L’immigrazione è un elemento, di quel complesso fenomeno della globalizzazione, che presenta aspetti diversi nelle nostre società. Anni fa l’Italia era un paese di emigranti – e lo era stato per più di un secolo – oggi è un Paese di immigrazione. Anni fa l’Italia aveva – o sembrava avere – un profilo omogeneo, oggi ha un profilo plurale.

L’immigrazione è un portato della globalizzazione, che muta gli orizzonti cui eravamo abituati. Perché, secondo la sintetica espressione di Clifford Geertz, chi prima era lì, ora è qui. Vivere insieme tra diversi è una delle grandi sfide che l’Italia, l’Europa, il mondo, sono chiamati ad affrontare. Ma è possibile vivere insieme quando si è così diversi, per provenienza, cultura, religione? La condivisione degli stessi luoghi con l’Altro suscita problemi, pone domande. Se le pongono amministratori e intellettuali; ma le sentono anche l’uomo e la donna comuni.

Del resto l’Europa è più “vecchia”, e quindi più impaurita. La congiuntura economica ha amplificato il senso di insicurezza e il ripiegamento su di sé. La crisi della famiglia ha indebolito quella tradizionale realtà di convivenza in cui i diversi – per sesso, età, capacità – erano educati all’idea di un percorso comune. Gli uomini e le donne sono oggi più soli. E più “spaesati”, secondo la definizione di Tzvetan Todorov.

Eppure già viviamo insieme

Il senso di spaesamento, la solitudine, il vuoto di prospettive possono produrre identità “contro”, che si esprimono in atteggiamenti timorosi e/o aggressivi. Soprattutto nelle periferie delle grandi città. Eppure la realtà è che, al di là delle difficoltà, già viviamo insieme. Secondo i dati provvisori del censimento 2011 negli ultimi dieci anni il numero degli stranieri non comunitari residenti in Italia si è triplicato (da 1.300.000 a 3.800.000 unità). Due milioni di famiglie hanno almeno un componente di origine straniera. Nell’anno scolastico 2010/11, i minori con genitori non italiani rappresentavano quasi l’8% del totale. Dunque già viviamo insieme, e con grandi vantaggi reciproci. I lavoratori immigrati costituiscono quasi un decimo della forza lavoro, generano più del 10% del PIL, innalzano i tassi di natalità, sostengono il sistema pensionistico. La presenza di tanti stranieri che arricchiscono con il loro lavoro, e il loro contributo umano e civile, la vita del nostro Paese ci offre già l’immagine di un possibile e proficuo convivere fra diversi, ma uguali.

Diversi per storia, uguali nei diritti e nella visione di un futuro comune. Credo profondamente che la civiltà del domani sarà una civiltà del convivere. Un convivere che è sempre difficile – lo sperimentiamo tutti, a ogni livello – e che è dunque un’arte, un’arte da coltivare. Ma che è comunque la grande alternativa alla lacerazione della società. Un convivere che vuol dire pazienza, impegno, ingegno, capacità di comprensione.

Una casa da costruire insieme

Un convivere che richiede regole e cultura, e un investimento serio sull’integrazione. L’integrazione è un processo non breve, non facile, che significa muovere verso l’Altro. Per non chiudere o non chiuderci in qualche “ghetto”. L’immigrato incontro a noi. Ma anche noi incontro allo straniero. L’integrazione non riguarda solo i non italiani, bensì pure gli italiani.

Qui c’è una grande sfida culturale ed educativa, ma anche una necessità di empatia, di una simpatia che faccia cadere i muri, che aiuti ad accettare il fatto che le identità si ereditano, ma si costruiscono anche. Jonathan Sacks ha recentemente pubblicato un libro che indica la sfida che sentiamo: The home we build together. C’è una casa da costruire insieme. Si deve cominciare dalle nuove generazioni. Ma la sfida riguarda tutti. Per questo c’è come una resistenza, nell’intimo di tanti, nel dibattito pubblico. C’è l’idea che costruire qualcosa di nuovo significhi perdere parte di quel che si è ricevuto, della propria identità. Al riguardo Todorov scrive: «Ognuno di noi vive dentro di sé un incontro di culture: siamo tutti meticci». E precisa Amin Maalouf: «Non ho parecchie identità, ne ho una sola, ma fatta di tutti gli elementi che l’hanno plasmata».

In nessun momento un’identità può dirsi “finale”. C’è sempre un lavoro di riaggiustamento, di aggiornamento, da fare. Innanzitutto – com’è ovvio – per chi parte da più lontano. Nel rispetto delle tante differenze – che sono per lo più una ricchezza – si tratta di proporre il profilo culturale e umanistico italiano, affinatosi nei secoli, a gente che non è di origine italiana.

Un gesto di fiducia nel domani del paese

Il riguardo alla vita, la centralità della persona, il valore della famiglia e del lavoro, lo stato di diritto, sono i pilastri della nostra civiltà, e, insieme alla lingua, il cuore di ciò che possiamo e dobbiamo trasmettere agli italiani di domani, qualunque sia il loro cognome o il colore della loro pelle. Certo, se in altri Paesi si è tentato di elaborare ed applicare diverse ricette d’integrazione – assimilazionismo universalistico, multiculturalismo comunitario, ecc. – si direbbe che da noi tale tappa sia “saltata”. Da un lato le varie pratiche inclusive hanno seguito vie un po’ casuali, dall’altro la politica si è spesso fatta travolgere dall’onda emotiva dell’emergenza.

L’istituzione, nell’ambito del governo Monti, di una delega per l’Integrazione intende dire che è giunto il momento di affrontare questo tema in modo nuovo, con un respiro più ampio. Come una priorità cui ci richiamano l’attualità e il futuro. Lavorare per l’integrazione oggi è un gesto di fiducia nel domani del Paese.

Ma come farlo? Come continuare a porci la domanda che ci accompagna da 150 anni, quella di “fare gli italiani”? Bisognerà – io credo – ripartire da tutte le esperienze realizzate in passato, inquadrandole in una prospettiva organica, e puntando in particolare sul mondo della scuola e su quello del lavoro. È qui che si giocherà l’integrazione. In un incontro quotidiano, e profondo, tra persone, non tra modelli astratti.

E poi occorrerà offrire percorsi che incoraggino uno sbocco positivo, che prevedano il raggiungimento di un traguardo: è quel che si è cercato di fare, di concerto con il Ministero dell’Interno, proponendo a chi giunge in Italia la stipula di un Accordo d’Integrazione.

Dallo ius sanguinis allo ius culturae?

Il tema dell’integrazione, e quello di un traguardo da raggiungere, si riallacciano alla questione della cittadinanza. Che non è solo il godimento di un determinato stato giuridico, ma fonda anche, e sancisce, il sentimento di appartenenza a una specifica comunità nazionale.

Cittadinanza è “parola che unisce”, sintetizzava molto bene l’articolo di Riccardo Gualdo sul primo numero di “iS magazine“. Mi piacerebbe una ridefinizione del nostro diritto di cittadinanza, oggi regolato dalla legge 91 del 1992. Mi sembra che nel Paese cresca la consapevolezza che lo ius sanguinis non è più capace di rispondere alle esigenze di una società che – pur tra qualche difficoltà – accoglie gente proveniente da ogni parte del mondo, e, soprattutto, ne forma i figli, plasmandoli come italiani, come bambini e ragazzi che parlano la nostra lingua, studiano la nostra storia e la nostra letteratura, si interessano a quel che succede da noi.

È un tema – questo – più volte ripreso anche dal presidente Napolitano. Purtroppo, però, si è creata una certa impasse legislativa a causa delle contrastanti opinioni in materia, in particolare per il timore che uno ius soli “puro” possa risultare troppo estensivo. Per superare tale impasse, e per dare una più certa prospettiva di vita al numero crescente di giovani nati in Italia da genitori stranieri – la seconda generazione – mi sono permesso di avanzare un’ipotesi che, semplificando, si potrebbe definire di ius culturae: l’ottenimento della cittadinanza per quei minori che abbiano proficuamente frequentato uno o più cicli scolastici. Si riconoscerebbe e valorizzerebbe, in tal modo, lo sforzo di integrazione già compiuto dal minore stesso e dalla sua famiglia.

 

Andrea Riccardi è ordinario di Storia Contemporanea presso la Terza Università degli Studi di Roma. Esperto del pensiero umanistico contemporaneo, è voce autorevole del panorama internazionale. Numerose Università lo hanno infatti insignito con la laurea honoris causa a riconoscimento dei suoi meriti storici e culturali. Andrea Riccardi è noto internazionalmente anche per essere stato il Fondatore, nel 1968, della Comunità di Sant'Egidio. Sant'Egidio oltre che per l'impegno sociale e i numerosi progetti di sviluppo nel Sud del mondo, è conosciuta per il suo lavoro a favore della pace e del dialogo. E' stato insignito di molti premi internazionali, tra cui il Premio Balzan 2004 per l'umanità, la pace e la fratellanza fra i popoli. Nel luglio del 2012 è stato nominato Presidente del College des Bernardins a Parigi per il biennio 2012-2014. Andrea Riccardi succede all'antropologo René Girard (2009) e al filosofo Marcel Gauchet (2010-2011). Il 16 novembre del 2011 Andrea Riccardi è entrato a far parte del governo Monti, in cui ha ricoperto la carica di Ministro (senza portafoglio) per la Cooperazione Internazionale e l'Integrazione.