Parlare la lingua dell'altro
Una possibilità per la prevenzione del bullismo a scuola
DIDATTICA INCLUSIVA
Il termine “bullismo” viene oggi impiegato per indicare il comportamento di bambini e ragazzi che in diversi modi abusano dei loro coetanei, approfittando della propria forza fisica, della propria autorità o della propria superiorità cognitiva e sociale. In ambito clinico ed educativo il bullismo comprende solitamente uno spettro di comportamenti che si manifestano sul piano fisico, verbale e relazionale.
Il bullismo fisico e verbale
Il bullismo fisico è rappresentato da calci, spintoni, pugni, strattonamenti, sputi, percosse. Il bullismo verbale non è meno violento e si manifesta attraverso minacce, imprecazioni, canzonature, nomignoli offensivi, battute sul modo di vestirsi o sull’aspetto fisico, su eventuali handicap, sull’etnia, sulla religione: in tutti i casi si tratta di aggressioni verbali che prendono di mira la particolarità del singolo individuo. Questa seconda forma di bullismo è ancora più insidiosa della prima perché non lascia molte vie di scampo alla vittima: non basta sottrarsi alla prepotenza fisica per sentirsi al sicuro, il peso delle parole investe il bambino o il ragazzo in modo ancora più radicale. La violenza delle parole preannuncia infatti una dinamica relazionale in cui il bullismo si manifesta come forma di esclusione ed emarginazione dal gruppo dei coetanei. E la scuola è molto spesso lo scenario privilegiato dove si verificano con più frequenza fenomeni di questa portata.
Il bullismo relazionale
Il bullismo relazionale esprime la violenza su un doppio versante: la vittima, nonostante venga esclusa dal gruppo, non smette di essere “oggetto” del gruppo, di sentirsi cioè in balia di un’aggressione a cui sembra impossibile sottrarsi. Abitualmente si parla di “bulli” e di “vittime”, però tale denominazione rischia di cristallizzare i soggetti nel ruolo di bullo o di vittima, come se l’etichetta designasse un ruolo da cui non è possibile svincolarsi. Per tale motivo in ambito clinico ed educativo si preferisce parlare di ragazzi che fanno i bulli e di ragazzi che subiscono il bullismo. In questo modo si vuole centrare l’attenzione dei genitori e degli insegnanti sui vissuti dei bambini e non solo sui loro comportamenti. Gli insegnanti sanno bene individuare nel comportamento dei loro alunni l’indice visibile di un vissuto e di un disagio che per il bambino o il ragazzo non è altrimenti esprimibile. Nel suo libro Diario di scuola, Daniel Pennac si riferisce appunto a quei pensieri e a quelle emozioni che i ragazzi portano con sé a scuola, a tale proposito parla della “famiglia nello zaino”. Oggi molto spesso sulla scuola ricadono infatti dei compiti educativi che una volta venivano suddivisi tra le diverse istanze famigliari e sociali con cui si confrontavano i giovani. Risulta quindi cruciale sostenere il ruolo e la funzione degli insegnanti che si trovano a svolgere da soli la trasmissione di valori e ideali condivisi. La posta in gioco diventa sempre più alta, soprattutto in un periodo storico-sociale in cui i legami sono sempre più liquidi.
Una malattia sociale
La matrice dei fenomeni di bullismo è infatti rintracciabile non solo nei vissuti e nei disagi individuali e famigliari dei giovani. Il bullismo sta diventando oggi una sorta di malattia sociale, il sintomo di una trasformazione antropologica che riguarda la cultura del nostro tempo. I ricercatori clinici e sociali stanno rilevando sempre più una connessione tra le varie forme di sofferenza psichica e i cambiamenti storico-sociali. Sono state impiegate diverse formule per chiarire le cause e gli effetti della cultura postmoderna: “l’epoca dell’Altro che non esiste”, “crisi dei garanti metapsichici”, “cultura del narcinismo (narcisismo più cinismo)”, “evaporazione della funzione paterna”, “clinica dell’antiamore”, “dissociazione tra padre e principio di autorità”, ecc. In tutte le prospettive viene sottolineato quanto il culto contemporaneo dell’individualismo sia deleterio per lo sviluppo sociale dell’essere umano.
Come evidenziano Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro libro L’epoca delle passioni tristi, “ha preso piede questa idea della serialità, in cui la sola autorità e la sola gerarchia accettate e accettabili sono determinate dal successo e dal potere personale, valutati all’interno dell’universo della merce”. Se quindi il vettore dominante i messaggi sociali diventa il mito dell’affermazione della propria individualità, allora ci troveremo di fronte all’aumento del rischio di derive patologiche che estremizzano questo mito postmoderno. In tale prospettiva possiamo leggere le patologie psichiche e sociali come una tendenza a rinforzare la propria identità e allo stesso tempo come una difficoltà ad aprirsi a un legame con l’Altro.
Il confronto con l'alterità
Il comportamento del “bullo” diventa quindi l’espressione di una forma di disagio che investe il soggetto stesso, la famiglia ma anche la società in cui viviamo noi tutti. A livello sia individuale, sia famigliare e sociale, troviamo infatti il tratto comune di un’identità che rimane chiusa su se stessa e che nega ogni possibile incontro con l’alterità, in quanto l’Altro viene visto solo come un ostacolo all’affermazione dei propri bisogni. A scuola di solito i bambini o i ragazzi che abusano dei loro coetanei si coalizzano in gruppi, gruppi in cui il fine non è quello di incontrarsi per conoscere ed esprimere le proprie differenze, piuttosto il fine che spinge i giovani a riunirsi per comportarsi come dei bulli è mettere al bando colui che rappresenta una diversità, che incarna l’Altro, un Altro con cui comunque nella vita non si potrà continuare a fare i conti con gli stratagemmi della violenza o dell’emarginazione. Per l’essere umano risulta infatti cruciale imparare a vivere nel legame senza rinunciare alla fedeltà a se stessi. Se non si viene educati a questo confronto con l’alterità, vengono a mancare le basi per sviluppare la propria autostima ed esprimere la propria particolarità senza annullare il confronto e il rapporto con l’alterità. Dietro i fenomeni di bullismo troviamo quindi una difficoltà a vivere il legame con l’Altro. Il bullo e la vittima sono entrambi inchiodati in un ruolo che li trattiene rigidamente in una posizione relazionale da cui è impossibile riconoscere e capire l’Altro. Potremmo dire che il fenomeno del bullismo congela le posizioni soggettive in un monolinguismo relazionale che esclude la possibilità di usare la lingua come occasione per incontrare l’estraneo, non solo lo straniero che sta fuori di noi ma anche l’estraneo che un soggetto può essere per se stesso. In fondo, escludiamo l’Altro solo quando evoca in noi un’alterità insostenibile e difficile da comprendere: in tali situazioni sentiamo vacillare le nostre certezze e l’incontro con l’estraneità può risultare perturbante perché ci impone di mettere in discussione e rivedere quei presupposti della nostra identità che ci facevano sentire al sicuro.
Nella prevenzione e nella cura del bullismo risulterebbe quindi auspicabile predisporre dei percorsi educativi dove sia possibile compiere questa esperienza della relazione con l’Altro, dentro e fuori di noi. È questa infatti la questione aperta dall’adolescenza, e i comportamenti di bullismo non sono altro che un modo per scansare il compito di crescere, ossia di prendere posizione nel rapporto con l’Altro senza escluderlo o senza sentirsene minacciati.