Se ognuno è speciale…

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Costruire nel quotidiano una scuola (più) inclusiva

DIDATTICA INCLUSIVA

Inclusione è una parola sempre più importante nella scuola di oggi, ci siamo quindi interrogati su come un insegnante può oggi, concretamente, lavorare in modo sempre più inclusivo partendo dall’essere persone prima che ruoli all’interno della relazione educativa.

di Laura Papetti

Recentemente sono stata invitata a partecipare al convegno del 29 ottobre, organizzato da Pearson Academy, in collaborazione con CeDisMa, “Ognuno è speciale”. Si tratta del primo convegno nazionale di studio e formazione indetto da Pearson e focalizzato interamente sull’inclusione.

Mi sono chiesta quali siano oggi i nodi ancora presenti, dopo anni di dibattiti e lavori di settore, quali le conversazioni più rilevanti per coloro che, come me, operano ogni giorno in ambienti educativi con l’obiettivo di rendere il proprio lavoro sempre più inclusivo.

Lungi dal voler interrogare la normativa e ripercorrere il percorso legislativo che ha portato il nostro paese a esigere una scuola pienamente inclusiva, elementi per i quali esiste ampia documentazione in rete e per i quali possiamo dare alcuni riferimenti bibliografici, questo contributo si propone semplicemente di offrire qualche passaggio riflessivo su chi come me è sempre in cerca della postura più corretta per affrontare il lavoro dell’insegnamento in modo inclusivo, pienamente consapevoli del fatto che l’inclusione è una vetta impervia e la sua piena realizzazione un’impresa da scalatori professionisti.

La parola inclusione, che fa riferimento a un modello pedagogico che ormai in tempi recenti ha completamente sostituito quello dell’integrazione, rimanda al cambiamento da una visione sistemica volta a predisporre pur validi ambienti e strumenti per un buon adattamento e accomodamento del singolo al contesto, a un’ottica in cui ogni persona portatrice della propria specificità entra nella comunità a pieno titolo, andando a “contaminare” il contesto, divenendone pienamente parte e dunque modificandolo.
In una visione inclusiva è dunque il sistema scolastico che si deve adattare alla diversità degli alunni, per questo anche i servizi speciali vanno portati quanto più possibile dentro la scuola e la classe” (M. Pavone, Dall’esclusione all’inclusione. Lo sguardo della Pedagogia Speciale. A. Mondadori, 2010, p. 142).
E ancora: “La prospettiva dell’inclusione sollecita il superamento del sistema scolastico tradizionale, promuovendo il passaggio a una scuola centrata sullo studente e sulle teorie del costruttivismo e della cognizione situata e distribuita, sulla community of learners e sul bisogno di appartenenza e di comunità, sull’eterogeneità” (ibidem).

La scuola è un prezioso ambiente di educazione e istruzione, contesto privilegiato per la relazione didattica di insegnamento-apprendimento, e – seppure brancolando in un’epoca in cui sta avvenendo una rivoluzione copernicana delle modalità di trasmissione e costruzione della conoscenza – ha il delicatissimo compito di aiutare ogni bambino a scandagliare le potenzialità e i limiti della propria persona, a conoscersi e a conoscere, con l’obiettivo di sfidarsi, di evolvere e realizzare più pienamente possibile se stesso in relazione al mondo. Davanti a questa prospettiva, ho spesso la sensazione che la vetta sia troppo alta, il cammino troppo difficile. In più occasioni, di fronte a complessità che non avevo mai affrontato, ho avuto paura. Quanta responsabilità, quante difficoltà da affrontare con così tante persone in classe e con così poche risorse… Al tempo stesso, però, sento che si tratta di una prospettiva che mi chiede di migliorarmi e di evolvere, che mi sollecita ad accettare le mie vulnerabilità e a imparare come persona e come professionista. E non c’è niente di più bello.

Marco Rossi-Doria, relatore tra l’altro al convegno di ottobre, in un suo post datato novembre 2011 e intitolato "Quale scuola vogliamo davvero" scrive: “La scuola ha progressivamente imposto il monopolio dei codici e dei metodi di apprendimento. Questo ha relegato in spazi secondi e terzi il corpo, l’autonoma organizzazione, il contatto diretto con le materie e la loro trasformazione, il rischio di fare, disfare, scegliere, provare conseguenze dei gesti, assumere presto compiti, eseguire opere. Ma questo ha recato un lutto e una nostalgia. È possibile elaborare quel lutto e rendere desiderio quella nostalgia”.

È proprio in linea con questo pensiero, con l’intenzione di elaborare quel lutto, il lutto per una scuola del fare, ancorata alla realtà, e trasformare in desiderio quella nostalgia di un imparare vicino all’operare, che credo nella possibilità di costruire, passo dopo passo, una scuola sempre più inclusiva, riconfermando innanzi tutto la grande passione per una scuola esperienziale, in cui insieme ci si misuri – ciascuno con le proprie modalità – con compiti autentici, domande senza risposte pre-confezionate, proposte che possano accogliere risposte diverse in tipologia e ricchezza. Ricerche di cui il docente faccia parte, insieme ai suoi alunni, senza conoscere già in dettaglio gli esiti. Lavori in cui si possa spaziare dalla manualità dell’artigiano all’utilizzo delle più recenti tecnologie. Sto immaginando una scuola in cui si provi a confrontarsi con un universo fluido e dai confini indistinguibili, che è il reale, prendendone pezzetti e mettendoli sotto la lente di ingrandimento della mente collettiva della classe. Una scuola in cui si viva la fiducia nei diversi punti di vista, una scuola che viva come ricchezza anche la presenza di chi porta la propria disabilità o la propria diversità (culturale, sociale, emotiva…) come ulteriore angolo di osservazione.

Una scuola di questo tipo richiede ai docenti di mettere da parte (pur tenendo in giusta considerazione) i protocolli ed essere persone, prima che “ruoli”. Richiede a ciascuno di noi di stare in contatto con ciò che c’è, sia esso talvolta anche dolore, rinuncia, disperazione, abbandono, fatica, frustrazione. Quando abbiamo paura di questo, ci mettiamo sulla difensiva, ci caliamo nel ruolo, ci barrichiamo dietro ai protocolli e ci poniamo l’obiettivo del controllo.

Siamo innanzitutto esseri umani, con tutta la complessità, la fragilità e le meraviglie della nostra condizione. Quando guardiamo il mondo attraverso le lenti del nostro ruolo, restringiamo la nostra prospettiva.” (F. Ostaseski, Cinque inviti, Mondadori 2017)

Il filo di questa riflessione ci porta forse a concordare sul fatto che, se oggi i protagonisti della scuola inclusiva sono tutte le persone che ne fanno parte, ognuno presente e pienamente riconosciuto con il proprio essere speciale, anche i docenti hanno il diritto e dovere di sentirsi speciali, con la propria professionalità, i propri limiti, e perfino con le proprie paure di fronte a situazioni sconosciute o inaspettate, a diversità che non siamo preparati a gestire e a disabilità che ci interrogano nel profondo. Se accettiamo l’idea che non saremo mai in grado di avere tutto sotto controllo, perché la vita si presenta anche nel nostro ambiente di lavoro in modi sorprendenti e a volte paradossali, potremo partire a costruire inclusione dalla presenza coraggiosa, dall’implicarci come parte di un universo da scoprire, piano piano, valorizzando ciò che c’è.

Bibliografia

  • Fox, Matthew, Educare alla meraviglia, La meridiana 2017
  • Carrescia, Faso, Folli, Palmieri, Nessuno Escluso. Affrontare le complessità a scuola con strategie inclusive, Pearson Italia 2014
  • Pavone, Marisa, Dall’esclusione all’inclusione, Mondadori 2010.
  • M. Rossi Doria, E. Ricciardi, M. Pecorelli, Scuola Aperta - Riflessioni e percorsi di cittadinanza attiva, Pearson Italia 2019

 

Laura Papetti è autrice e consulente editoriale per Pearson Italia. Attualmente insegna alla scuola primaria nella provincia di Monza e della Brianza. Ha insegnato per diversi anni inglese in scuole di diverso ordine e grado.

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