
Pinocchio: un romanzo di formazione senza tempo
Riscoprire i classici in classe
Pinocchio è un classico della letteratura per l'infanzia che si presta a complesse interpretazioni: il burattino è un eroe contraddittorio, metà bambino e metà giocattolo, che rifiuta sia i vincoli sociali negativi che positivi. È anche un racconto carico di fantasia ed energia positiva, ma si muove al confine dei territori della paura e della perdita: riscopriamo questo classico senza tempo in occasione dell'uscita al cinema di una nuova rilettura firmata dal regista Matteo Garrone.
Enrica Ricciardi
Il 19 dicembre prossimo, firmata dal regista Matteo Garrone, uscirà nelle sale cinematografiche una nuova rilettura di Pinocchio. Ripercorriamo brevemente questa fiaba senza tempo che ancora dice qualcosa sulle paure dei bambini e sul loro bisogno di autonomia. E sugli adulti che non sanno vedere il mondo con gli occhi di chi sta crescendo.
Nel 1883 escono Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, opera pubblicata da Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, 1826-1890) che ne aveva curato, nei due anni precedenti, la comparsa a puntate sul «Giornale per bambini».
Pinocchio rappresenta il personaggio della letteratura italiana che in maniera più netta è uscito dalla pagina scritta per entrare nell’universo dell’immaginario collettivo globale, non solo occidentale. La fortuna del burattino che vanta, oltre alle traduzioni in tutte le lingue del mondo, film, cartoni animati, giocattoli a lui ispirati, ha costituito per la critica letteraria un tema di dibattito in grado di produrre, nel tempo, una molteplicità di interpretazioni da cui non è possibile prescindere.
Nell’edizione definitiva, Pinocchio, a seguito di una serie interminabile di peripezie, ravveduto e pentito per le marachelle commesse, ottiene di uscire da una dimensione di “errore” - rappresentata dall’essere burattino – per rientrare, come uomo in carne ed ossa, nei solidi argini di una società che vuole i suoi membri caratterizzati dall’assunzione di funzioni e doveri codificati. Letta in questo senso, la sua vicenda assume i connotati di un vero e proprio romanzo di formazione in cui il protagonista giunge alla maturazione soltanto dopo aver completato un significativo percorso esperienziale; contestualmente Collodi appare ispiratore di quei valori piccolo-borghesi tanto cari all’Italia umbertina, propugnatore dell’ubbidienza verso un ordine sociale precostituito al quale è necessario piegarsi a meno di soccombere.
Una siffatta interpretazione, viva per un certo tempo, se da un lato non rende giustizia della ricchezza narrativa propria del racconto, dall’altro sembra voler ignorare le vicende editoriali che accompagnarono gli esordi del romanzo: pubblicando l’opera a puntate, infatti, Collodi aveva preferito concludere il racconto senza il ravvedimento finale di Pinocchio e senza il suo reintegro entro l’ordine comportamentale previsto dalla società. In questo modo il burattino, restando un picaro e rifiutando la maturazione, veniva a negare il principio stesso del Bildungsroman.
A complicare le cose, rendendo ulteriormente arbitrario un inquadramento univoco dell’opera, intervengono i tratti ambigui di alcune figure e situazioni che popolano il racconto, apparizioni fugaci e tutt’altro che rasserenanti, inserite in un contesto d’azione inquietante e vagamente orrorifico. Si pensi, ad esempio, alla Fata Turchina, il cui ruolo sembra andare ben oltre quello di salvifica protettrice del burattino: spesso, il suo apparire e scomparire risulta collegato ad un quid mortifero manifesto nel duplice episodio della visione della lapide della Fata e dei conigli incaricati di trasportare la bara vuota quando Pinocchio si dimostra recalcitrante a bere la medicina prescrittagli. Si pensi anche all’episodio dell’impiccagione di Pinocchio, o al suo degrado a cane da guardia: momenti del tutto scevri da una benevola, e proprio per questo rassicurante, nota di rimprovero educativo.
Del resto al lettore attento non può sfuggire che anche sul piano linguistico l’opera appare come un testo decisamente originale e complesso. Collodi, ad esempio, sa rivolgersi al suo giovane pubblico attraverso abili meccanismi testuali di stimolo dell’attenzione: le frequenti formule di coinvolgimento presenti nel testo (“E cosa succede?”, “Vi dirò dunque”, “Non v’immaginate”, ecc.), non contribuiscono soltanto a mantenere in chi legge un elevato livello d’attenzione, ma favoriscono l’insorgenza, sulla pagina stampata, di quel rapporto fiduciario tra autore e lettore tipico della narrazione orale, grazie al quale ci si abbandona alla voce narrante per seguirla nel misterioso labirinto della storia. Altro dato linguistico interessante è la cifra stilistica con cui sono connotati i diversi personaggi. Se il linguaggio degli adulti e delle figure autoritarie, dalla Fata Turchina, al Grillo Parlante a Mastro Geppetto, non risulta caratterizzato da peculiari elementi fono-sintattici e lessicali, altre figure, spesso piuttosto dubbie in fatto d’autorità morale, sono linguisticamente contrassegnate in modo “speciale”.
È il caso innanzitutto del Gatto e della Volpe, celebri per l’ecolalia con cui ogni battuta dell’uno viene rimarcata, ripetuta o conclusa dall’altro. Inoltre, è la lingua dello stesso protagonista a meritare più d’una sottolineatura. Pinocchio, eroe contraddittorio, per il quale la contraddizione costituisce anzi ragione d’esistere (burattino dotato di parola, metà bambino e metà giocattolo), eroe che risolve il conflitto con la società che lo affligge attraverso una fuga costante e rocambolesca, un disimpegno, un rifiuto di vincoli sociali positivi (la Fata, il Grillo Parlante, Geppetto) e negativi (la catena, la prigione, la corda), eroe che potrebbe trovarsi a proprio agio soltanto nel Paese dei Balocchi, luogo di non-regole e di eterna giovinezza, ebbene, questo Pinocchio riflette tutte le tensioni che lo percorrono proprio nella lingua parlata. Paradossalmente, però, è uno degli eroi forse più “muti” della nostra letteratura. Infatti, sebbene capace di parola, ogni suo intervento nel racconto si traduce in una sorta di “nulla”: Pinocchio parla per luoghi comuni, per proverbi, per topoi di apparente ragionevolezza, deformati e riadattati al fine di calzare al proprio utile e intento, ma in altro senso è incapace di raccontare sé stesso. Come un burattino, anche la sua lingua è “finta”, una non-lingua, un ostinato rifiuto alla comunicazione, un linguaggio arruffato e sconnesso, sospeso in un eterno presente privo di sviluppo. Ma questo rifiuto costante della crescita e della comunicazione costituisce in fondo anche il suo principale elemento di fascino: Pinocchio piace, ai bambini soprattutto, perché rema contro la Storia, perché è compresente, in linea con la loro percezione sincronica e orizzontale della realtà. Pinocchio piace, ancora, perché fugge continuamente verso il mondo vivace e vivo dell’arte, del teatro, della letteratura, evitando continuamente la “ pedagogia grigia” e statica del Grillo Parlante che richiama al dovere ed alle responsabilità.
Possiamo in definitiva affermare che Le avventure di Pinocchio attraggono soprattutto in forza del variegato gioco di luci ed ombre che le illumina, della loro costante ambivalenza: sono “ufficialmente” una fiaba a lieto fine, nel senso che la metamorfosi conclusiva del burattino-bambino segna il suo ingresso nel mondo ordinato e ben regolato dagli adulti; eppure, in chiusura, resta nel lettore l’amaro in bocca per l’addio ad un mondo di giochi e fughe verso la libertà, un mondo di perenne rifiuto di responsabilità e vincoli sociali. Pinocchio si presenta ancora come un racconto carico di fantasia e magia positiva, andando a pescare a piene mani negli archetipi fantastici della civiltà occidentale, (il Paese dei Balocchi, il viaggio all’interno del ventre del pesce), ma al tempo stesso non esita a muoversi al confine con i territori della paura e della morte, dell’abbandono e della perdita. E pur dovendo rappresentare una vicenda esemplare per il bambino disubbidiente, sollecitando la sua entrata nei ranghi della società borghese, deriva il suo fascino maggiore dall’anarchia comportamentale del protagonista, che Collodi colloca acutamente in una società agricola violenta e crudele, capace solo di moralizzazione. Non è un caso che Ferroni definisca la cifra stilistica, oscillante e ambivalente, dell’autore col termine di “realismo fantastico” ad indicare quelle componenti compresenti nel racconto che ne fanno fuor di dubbio un classico della letteratura, senza distinzioni di età.