La robotica educativa

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Un genitore e un insegnante in dialogo

LE PAROLE DELLA SCUOLA

Che cosa significa "fare" robotica alla Scuola primaria? E perché si parla di robotica educativa? Perché può diventare uno strumento che favorisce l'inclusione: tutti possono fare tutto, se ben motivati; l'esperienza laboratoriale di gruppo è un’occasione per coinvolgere tutti gli alunni, ognuno con il proprio bagaglio di pregi e difetti. Ce lo racconta l'insegnante Gian Antonio Scandella.

intervista a Gian Antonio Scandella

Innanzitutto, che cosa significa "fare" robotica alla Scuola primaria? E perché si parla di robotica educativa?

Significa introdurre nel lavoro di tutti i giorni uno strumento nuovo, stimolante, gratificante. Significa rendere interessante e appetibile qualcosa che solitamente è per lo più noioso. Ora, diciamocelo chiaro, studiare le tabelline non è molto divertente: generazioni di insegnanti si sono spaccate il cervello per trovare modi più divertenti per farle digerire ai propri studenti. Accanto alle canzoni, ai giochi, si potrebbe introdurre il lavoro con i robot. Non intendo naturalmente un robot che ripete le tabelline: che tristezza! Intendo un'attività strutturata, di tipo progettuale, da inserire accanto alle altre e che funga da stimolo per costruire la propria esperienza e quindi il proprio apprendimento.
Le tabelline resteranno di certo noiose, ma sai che soddisfazione e divertimento quando la matematica diventa occasione per fare e per creare!
Si parla di robotica educativa e non di robotica, perché non si tratta di aggiungere un'altra materia di studio alle tante che già ci sono. Si tratta invece di utilizzare la costruzione e la programmazione di robot all'interno di un percorso di lavoro ben definito, per aiutare gli alunni a raggiungere le competenze previste. E, naturalmente, di insegnare loro a farlo da soli, sfruttando tutte le risorse che l'ambiente intorno a noi ci fornisce, nel modo corretto, con rispetto e impegno, senza sprecare. Insomma si tratta di Educare.

Che vantaggi hanno / che cosa imparano in più i bambini che fanno robotica rispetto a bambini in classi tradizionali in cui non viene realizzata questa esperienza?

Intanto il solo fatto di fare robotica educativa, vuol dire mettere le mani in pasta. Vuol dire quindi utilizzare le proprie mani, collegandole al cervello, per realizzare qualcosa di proprio. Qualcosa da poter mostrare agli altri con soddisfazione. Qualcosa che, se anche non dovesse funzionare alla perfezione, suscita l'ammirazione degli altri. Qualcosa in cui mi sento protagonista. Se ben integrata con le attività che si svolgono in classe, diventa un potente veicolo di conoscenze. Mi sono stupito molto quando i miei alunni di seconda della scuola primaria (8 anni), mentre studiavamo le tabelline, abbiano capito così facilmente che i robot che sarebbero andati più lontano, erano quelli che programmavano inserendo una velocità più alta e una durata di funzionamento delle ruote maggiore. Facevano moltiplicazioni senza neanche rendersene conto e capivano una legge di fisica che di solito si apprende alle superiori. Anche io, in questi anni, ho imparato qualcosa: non ci si deve stancare di lasciarsi stupire dai bambini. Ne inventano sempre una che va oltre ogni tua rosea previsione. Se si lascia loro spazio, naturalmente. Se invece si programma tutto per filo e per segno, se si conduce sempre tutto e lo si riduce a un semplice passaggio di informazioni, come avviene nelle classi cosiddette "tradizionali";, che spazio hanno i bambini per sviluppare creatività, pensiero divergente, capacità organizzative e di soluzione di problemi? A proposito... ma esistono ancora le "classi tradizionali"?

Non c’è il rischio che solo i bambini già incuriositi e “portati” per le tecnologie si divertano e imparino, mentre altri magari meno spontaneamente interessati non ne traggano grande beneficio e qualcuno sia proprio lasciato indietro?

Questo rischio c'è sempre, in qualsiasi attività venga portata avanti in una qualsiasi scuola, non vi è mai la sicurezza che un bambino impari qualcosa. A questo punto entra in gioco la capacità dell'insegnante di coinvolgere e motivare tutti i bambini che fanno parte del gruppo.
In primo luogo si deve programmare e preparare con cura e attenzione l'ambiente di lavoro: non deve apparire simile alla solita classe dove hanno luogo le solite lezioni. Mi spiego meglio: ci possono essere tavoli, banchi, computer, ecc., ma il protagonista deve essere il bambino, che si può muovere liberamente tra di essi, andando a vedere ciò che fanno gli altri, chiedendo aiuto all'insegnante, ma anche ai compagni, provando tutte le esperienze messe in gioco in quel laboratorio. Ecco, proprio l'esperienza laboratoriale di gruppo dovrebbe coinvolgere tutti, ognuno con le sue ansie, idiosincrasie, ma anche con il proprio bagaglio di pregi e difetti. Non si costringe nessuno a fare tutto quello che c'è da fare, ma nello stesso tempo si richiede di aiutarsi a vicenda per raggiungere un obiettivo. E questo aiutarsi presuppone anche il provare a fare qualcosa in cui ci si sente meno pronti, senza essere giudicati, senza essere valutati negativamente se si commette un errore.
Importante, nell'ambiente predisposto, il prevedere la presenza di un luogo centrale, dove provare e riprovare ciò che si è costruito, dove sbagliare, riflettere sull'errore e poi modificare il proprio lavoro, molto spesso senza l'intervento dell'insegnante, che è impegnato con un altro gruppo. In questo spazio, alla fine del lavoro, ogni gruppo deve presentare il proprio lavoro agli altri, in modo efficace, semplice e comprensibile.
Penso che qui si verifichino le sorprese più grosse per un insegnante. Alunni che parlano poco si gettano in disquisizioni con gli altri, sull'opportunità di seguire un certo percorso o meno, sull'efficacia del lavoro svolto. Sia chiaro, la robotica non è la panacea di tutti i mali; sbaglierebbe chi pensasse che, per il solo fatto di farla, tutti i problemi si risolvano, come per magia. Semplicemente è uno strumento (uno dei tanti) che favorisce l'inclusione. Tutti possono fare tutto, se ben motivati. Basta non pretendere che lo facciano per forza.

Ma non andrà a finire che i bambini si divertono, imparano ad assemblare robot ma poi non sanno le tabelline e non sono più in grado di fare le divisioni?

A questa domanda ho già risposto in parte. Non si tratta di sostituire le tabelline e le divisioni con i robot, bensì di usare i robot per capire meglio come le tabelline e le divisioni funzionano. Ma soprattutto (e qui mi metto dalla parte dei ragazzi) per comprendere perché questi adulti ci tengono tanto che io impari le tabelline e le divisioni. Poi quando assemblo, quando programmo un robot, quando lo provo nell'area di lavoro, quando discuto con i miei compagni e con l'insegnante, cercando di capire perché non funziona, quando spiego ai compagni cosa ho realizzato e perché... ecco allora sviluppo competenze che mi rimarranno per tutta la vita. Competenze che mi renderanno autonomo. Competenze che mi renderanno in grado di imparare per tutta la vita, anche da solo. Competenze che mi faranno capace, quando mi sarò dimenticato come si risolve una divisione, di recuperare le conoscenze e le procedure. Ma non solo. Qui sono coinvolte anche le competenze linguistiche. Quando racconto una storia, imposto la missione da svolgere quel giorno, stendo un progetto di lavoro, compilo delle tabelle e stilo la relazione finale. Lì non sto forse facendo italiano? Ma almeno ho dato uno scopo pratico e stimolante al mio fare quelle cose che spesso vengono richieste a scuola, ma senza esplicitare un motivo valido per cui io le debba fare. Quando si chiede a un alunno di svolgere un testo sugli Egizi, che scopo ha per lui? Perché lo deve fare? Almeno stendere una relazione su come ha realizzato un robot ha lo scopo di rendere la sua idea fruibile agli altri e, cosa non da poco, di renderlo consapevole che è capace di costruire una cosa concreta e utile.

Oggi bambini sempre più piccoli sono a rischio di stare ore davanti a schermi e dispositivi elettronici. Portare anche a scuola questi “giochi tecnologici” non li incoraggia ancora di più a una vera e propria dipendenza dai dispositivi elettronici?

Come i bambini della generazione precedente erano a rischio di stare ore davanti alla famigerata televisione. Non è lo strumento il male in sé, ma tutto dipende da come lo si usa. Il martello mi serve per piantare un chiodo e appendere un bellissimo quadro sulla parete di casa mia: è utile. Se lo batto sul mio pollice, mi faccio del male, ma non è colpa del martello. Se lascio mio figlio per ore davanti al televisore, senza filtri, è probabile che qualche problema possa nascere. Se, al contrario, mi metto con lui a vedere un documentario sul sistema solare, poi ne parliamo e andiamo a cercare notizie in internet, o magari approfittiamo per fare una visita al planetario... penso che sia tutto diverso. Lo stesso avviene per i dispositivi elettronici. Se un ragazzo utilizza troppe ore al giorno il cellulare per giocare, corre il rischio di sviluppare una dipendenza. E, cosa ancor più grave, perde l'abitudine a dialogare con gli amici, gli insegnanti, i genitori. Se invece gli insegniamo a programmare lui stesso i propri giochi, a costruirseli e poi a condividerli con gli altri, discutendone, ecco che la prospettiva si inverte e tutto ha più senso. Si utilizza la tecnologia in modo umano. Intendo dire che la robotica educativa deve mettere insieme, non isolare. Se costruisco il mio robot e poi gli dò vita, programmandolo in modo che possa muoversi autonomamente, se ci ragiono sopra e spiego agli altri cosa ho fatto, allora non sviluppo dipendenza, ma motivazione intrinseca. Divento in-dipendente, cioè capace di cavarmela nel mondo.

 

Gian Antonio Scandella, di origine bergamasca, insegna da undici anni nell’Istituto Comprensivo Don Milani di Vimercate. Negli anni ha sviluppato un profondo interesse per le tematiche dell’inclusività, dell’educazione emotiva, della didattica laboratoriale. Adora tutto ciò che è “tecnologico”, ha cercato quindi di coniugare informatica, coding, robotica nel normale lavoro in classe, con particolare attenzione agli aspetti relazionali. Quando non è a scuola, adora viaggiare, leggere, soprattutto libri di filosofia, e parlare di persona con gli amici.