Stato e nazione: come sono cambiati nel tempo?
Rispondono Giovanni De Luna e Marco Meriggi
Stato e nazione, fino alla Rivoluzione francese, sono parole che hanno un significato diverso da quello che oggi attribuiamo ad esse. Gli Stati di Antico regime sono infatti formazioni politiche di tipo soprattutto dinastico; proprietà di chi le governa, non delle popolazioni che vivono al loro interno. E queste ultime spesso parlano lingue diverse, a seconda dei territori. Il potere esercitato dai sovrani – autorità supreme, ma lontane dalla vita quotidiana dei sudditi – non è però illimitato. Tutt’altro. Essi lo devono infatti condividere con poteri territoriali al tempo stesso complementari e alternativi: quello dell’aristocrazia feudale, quello del clero, quello delle città. Si tratta di veri e propri Stati nello Stato, ciascuno dei quali costituisce l’orizzonte primario di orientamento e di appartenenza per la popolazione comune; i contadini al lavoro nelle signorie feudali laiche o ecclesiastiche, i lavoratori all’opera all’interno delle mura urbane.
E quando si parla di “nazione”, durante quei secoli, lo si fa per lo più riferendosi a una identità di carattere locale. Esistono, per esempio, una nazione fiorentina; o una napoletana. Non ancora una nazione italiana, sebbene gli strati colti di Firenze e di Napoli condividano una stessa lingua letteraria.
Tra la seconda metà del Settecento e la prima dell’Ottocento, ecco però una prima svolta radicale. Essa si condensa nella formula dello Stato nazionale, capace di esercitare un potere esclusivo e uniforme – ma auspicabilmente non troppo invasivo – su una comunità sovrana di cui esso rappresenta l’espressione e della cui indipendenza rispetto al dominio straniero è garante. Quello dello Stato nazionale diventa un sogno di libertà e di emancipazione. Ben presto conoscerà, peraltro, straordinarie metamorfosi, di ordine sia quantitativo sia qualitativo.
Il rapporto tra Stato e nazione diventa infatti squilibrato, con il primo termine del binomio che tende progressivamente a prevalere sul secondo. In questo senso possiamo dire che il Novecento è stato il secolo di una statualità pienamente dispiegata. C’è stata allora una grande scommessa che l’umanità ha fatto con sé stessa, culminata nel tentativo di sovrapporre allo stato di natura e alla sua “ferinità” un ordine artificiale, progettato sulla convivenza e sulla pace da opporre al conflitto permanente e all’anarchia che avevano dilaniato i rapporti tra gli esseri umani. Almeno a partire dal XVII secolo era stata questa la “modernità” della politica, che nel Novecento aveva poi trovato la sua più compiuta realizzazione nello Stato, una istituzione che tendeva ad espandersi ben oltre i limiti che avevano contraddistinto la sua realtà ottocentesca.
A uno Stato che circoscriveva la sua sfera d’azione alla politica estera, al mantenimento dell’ordine pubblico e alla eventuale condotta della guerra si sostituisce infatti uno Stato che abbraccia un vasto complesso di istituzioni che si occupano di molti bisogni e desideri dei cittadini. È lo Stato dei servizi pubblici, della tutela della salute, delle garanzie sociali, dei diritti civili.
È lo Stato che si propone come risposta alla partecipazione politica di massa che il Novecento aveva registrato. È però uno Stato potente che, nel caso delle esperienze totalitarie del nazismo, del fascismo e del comunismo, assume i tratti dell’onnipotenza. Ed è uno Stato che, proprio per essere “nazionale,” fonda i rapporti con gli altri Stati sull’egoismo e sulla sopraffazione, ripristinando in questo caso la parità tra i due termini del binomio Stato/nazione. Il conflitto, esorcizzato al proprio interno, viene proiettato all’esterno. Il rapporto tra il ruolo dello Stato nazionale e la guerra diventa così uno dei lasciti più scomodi ereditati dal post-Novecento.
Giovanni De Luna e Marco Meriggi, autori di Valore Storia
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