Titolo: La bambina delle fragole, in Mele dal deserto
Autrice: Savyon Liebrecht
Editore: edizioni e/o
Destinazione: Scuola secondaria di primo grado (terzo anno) e di secondo grado
La bambina delle fragole, nella raccolta Mele dal deserto della scrittrice israeliana Savyon Liebrecht, «è un titolo dolce per un racconto terribile»*. Una donna tedesca (che nel racconto rimane senza nome), moglie di un ufficiale dell’esercito del Führer (Walter) impiegato in una strana fabbrica, che è in realtà un campo di sterminio, non sa cosa succeda realmente là dentro e cosa faccia esattamente il marito, non se lo chiede ed è contenta della sua vita lussuosa e della sua famiglia perfetta. Il racconto, in prima persona, prende avvio dall’incontro con una bambina ebrea che porta delle fragole enormi e rossissime in dono a un’amica della narratrice (Helena), mentre le due donne si trovano in casa bevendo del tè. L’incontro con la bambina è sconvolgente; quando la vede per la prima volta, la narratrice ne prova terrore e la sua figura la tormenterà in sogno nelle notti successive. La descrizione della fanciulla suscita orrore anche nel lettore: Quando la vidi fui turbata (…) mai avevo visto un bambina dall’aspetto così orribile. Aveva i capelli brutalmente rasati intorno al cranio, che le tracciavano una linea storta sopra l’orecchio e stavano dritti come spine sulla fronte e sulla nuca (…). Le ossa della mascella, assai sporgenti, le risaltavano sul volto come quelle di un teschio (…) lasciando in fondo a crateri scuri due occhi che ardevano come braci un attimo prima di spegnersi in cenere.
«So benissimo che una bambina di dieci anni non aveva la possibilità di sopravvivere in un campo di sterminio, ma cercavo un modo per descrivere la vita di questi tedeschi, per cercare di capire quanto sapevano, quanto di umano avevano»*. La donna, pur non rendendosi conto ancora che quella bambina sopravvive in un campo di concentramento, nell’orrore della morte quotidiana, comincia a provarne pietà e arriverà a donarle degli indumenti, sempre in cambio delle fragole grosse come il pugno di un uomo, rosse d’un profondo rosso tendente al viola, gonfie di succo. Se le avessi spezzettate con le mani – m’immaginai – il colore mi sarebbe penetrato nella carne e non sarebbe mai più scomparso.
Le fragole sono il simbolo della vita che resiste, che rinasce dalla morte: la bambina sopravvive coltivando quelle fragole che dona a Helena (moglie anch’essa di un ufficiale del campo di sterminio e consapevole, a differenza dell’amica, di cosa accada nella “fabbrica”) e che mostra come qualcosa di prezioso ed esclusivo. Ma nello stesso tempo queste fragole sono colorate con il sangue di tutti quei morti, sulle ceneri dei quali – si scoprirà alla fine – vengono coltivate, e pertanto sono anche il frutto della volontà di sterminio e simbolo di morte.
Solo nelle ultime pagine del racconto la narratrice prende coscienza di quanto accade nella fabbrica, quando in treno si sta dirigendo con il figlio e l’amica Helena dalla Polonia verso la Germania, per sottrarsi all’arrivo dei russi. Il racconto contiene altri episodi che indagano il rapporto tra la donna e il marito, dal quale lei si sta lentamente allontanando, un uomo troppo freddo e duro, soprattutto con il figlio Ludwig: nel marito si rivelano chiaramente le due facce della realtà che è davanti agli occhi della donna e di cui essa non ha coscienza, una faccia perfetta, ordinata, efficiente e un’altra terribile, violenta, spietata. Inoltre, parlando di una festa organizzata per un ufficiale in partenza, si mostra come all’interno dell’esercito nazista ci fossero soldati e ufficiali che cominciavano a non reggere il confronto con l’orrore dello sterminio, e che inevitabilmente venivano emarginati o rimossi dai loro incarichi.
Su tutto incombe il pericolo dell’arrivo imminente dei soldati russi, che effettivamente di lì a poco avrebbero aperto le porte del campo di Auschwitz. Anche su questo punto il racconto è sorprendente e scomodo: i soldati russi sono visti nel racconto come qualcosa di minaccioso, di pericoloso, da cui fuggire, mentre noi siamo abituati a pensare che siano i liberatori, quelli che hanno salvato gli ebrei dal campo di concentramento.
Il racconto alla sua pubblicazione suscitò forti perplessità in Israele e alcuni chiesero addirittura che venisse ritirato, ma poi una donna che viveva in un kibbutz chiamò la scrittrice e le disse, convincendola a non ritirare il testo, che la sua vicenda personale nel campo di Majdanek era straordinariamente simile a quella narrata nel racconto: «Questo episodio mi fece capire che cosa significava davvero scrivere dell’Olocausto. È al di là dell’immaginazione. Non importa quanto lontano si vada con l’immaginazione: l’Olocausto ha varcato tutti i limiti»*.
Lo spunto del racconto è venuto alla scrittrice dalla notizia – trovata leggendo le memorie di Rudolf Höss, comandante del lager di Auschwitz – che la moglie di Höss viveva in un’area vicina al campo con il marito e i loro due figli. Come si può condurre una vita normale proprio “fuori” dal campo di sterminio, avere una moglie, essere padre di due figli e, una volta attraversata la soglia, diventare il comandante di Auschwitz? Come si può avere una casa bella, con un giardino curato dai giardinieri, in cui giocano tuo marito e tuo figlio, sorseggiare tranquillamente del tè in raffinate tazze di porcellana, organizzare feste con cori di bambini proprio lungo le mura di confine del campo di sterminio, in cui vengono uccisi ogni giorno uomini, donne e bambini? Si comprende così la volontà che ha mosso l’autrice, quella di «cercare di capire quanto sapevano, quanto di umano avevano»*: come è stato possibile non avere coscienza dell’orrore dello sterminio, non vedere? Quanto di umano c’era in quelle persone che non vedevano o che non volevano vedere?
*Le citazioni sono tratte dal testo di una conferenza tenuta il 10 settembre 2003 a Milano da Savyon Liebrecht, ospite dell’Ambasciata Israeliana e dell’Università degli Studi di Milano. Tema della conferenza era: “La presenza della Shoà nella mia opera”.