Libri in classe: Stefan Zweig, Gli occhi dell’eterno fratello
CONSIGLI DI LETTURA - SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO
Titolo: Gli occhi dell’eterno fratello
Autore: Stefan Zweig
Editore: Adelphi (Milano 2013)
Temi: pena di morte, giustizia, santità, esempio, servizio
Destinazione: Scuola secondaria di secondo grado, primo e secondo biennio
Virata, prima che il Buddha venisse sulla terra, serviva il nobile re Rajputas nel paese di Birwagh ed era noto come «il lampo della spada», l’uomo che incarnò i quattro nomi della virtù: ora di lui nessuno ha più memoria. Come è potuto accadere? A Virata, come coraggioso e nobile guerriero, il re chiede aiuto contro i nobili ribelli. Il «lampo della spada» non lo delude e sconfigge i nemici del re in una battaglia memorabile, nella quale però uccide di sua mano, senza avvedersene, il proprio fratello: lo sguardo senza vita del fratello cambia per sempre la storia del coraggioso Virata. Egli capisce che «chiunque uccide un uomo uccide il proprio fratello» e, pertanto, chiede al re, che è disposto per la vittoria ottenuta e la fedeltà dimostrata a donargli anche metà del suo regno, di non dover più combattere, di non dover più essere costretto a compiere violenza contro il fratello. Così il coraggioso, il forte Virata diventa il giusto Virata: il re gli chiede di assumere il compito di giudicare al posto suo. Virata si dimostra un giudice equo e sereno, che medita a lungo tutte le decisioni, che non condanna mai nessuno a morte. Finché un giorno un terribile omicida, che tutti vorrebbero punito con la pena capitale, lo pone di fronte a una terribile verità: Virata è un giudice giusto, ma non conosce per niente le sofferenze cui condanna i colpevoli, non può comprendere la paura di essere rinchiuso per anni in un carcere, la disperazione di chi deve rinunciare alla luce del giorno. Virata, messo in crisi da questo spietato reo confesso, vuole provare cosa significhi essere privato della libertà, sopportare la punizione delle frustate, per poter in seguito giudicare con maggiore consapevolezza, e sceglie di prendere il posto del condannato in carcere. Al termine del mese passato in prigione, Virata comprende che non può più essere giudice, perché nessun uomo può giudicare un altro uomo, perché chi si arroga il diritto di punire si macchia a sua volta di una colpa. Il giusto Virata diventa ora il saggio Virata, che dispensa miti consigli di conciliazione a chiunque, fino al giorno in cui vede i propri figli, nella sua stessa casa, punire a sangue uno schiavo che aveva tentato di scappare. Virata è sconvolto dal dolore dello schiavo, dall’odio e dalla rabbia che ha visto nei suoi figli che, però, punendo lo schiavo non hanno fatto nulla di illecito. Comprende che per il solo fatto di possedere schiavi egli commette un torto e una violenza: toglie la libertà a qualcuno. Non valgono a nulla le proteste dei figli, i tentativi di farlo ricredere, Virata decide di abbandonare tutto perché in ogni possesso è incluso il potere e questo implica il torto, la violenza, il sopruso. Così, il saggio Virata diventa il puro Virata che vive nel bosco, senza nulla, cibandosi di ciò che la natura gli concede, in armonia con gli animali.
La fama del santo anacoreta si diffonde e le persone cominciano ad andare a osservare Virata che vive nella sua capanna e molti decidono di imitarlo. Al suo passaggio Virata è salutato da tutti con gioia e ammirazione e lui, sereno e finalmente beato, sorride a tutti. Un giorno in un villaggio incrocia lo sguardo carico di odio e di rabbia di una donna: le chiede che cosa le abbia fatto, dato che nemmeno la conosce, per meritarsi quell’astio. La donna gli mostra il figlio, l’ultimo che le è rimasto e che sta morendo nel povero giaciglio della sua umile casa. Come lui sono morti anche gli altri suoi due figli e la responsabilità di tutto ricade su Virata: sì, perché il marito, un bravo tessitore, ha deciso di seguire l’esempio di Virata e se ne è andato a vivere di niente nel bosco, lasciando senza sostegno la famiglia e causando così la morte dei figli. Virata comprende che nemmeno rinunciando a tutto e ritirandosi in solitudine gli è possibile vivere senza fare del male a qualcuno, capisce che nemmeno nella rinunzia all’azione c’è la soluzione, perché anche così ha innescato una reazione, anche la vita solitaria ha generato il male. Alla fine Virata ritorna dal re e gli spiega quello che ha capito: l’unico modo di vivere senza far soffrire nessuno è di servire un altro. Chiede al nobile sovrano di assegnargli un servizio, uno qualsiasi, in modo che la sua volontà non sia più libera ma dipenda da quella di un altro. Il re gli assegna il compito di custode dei cani e Virata passa i suoi ultimi giorni curando quelle povere bestie, incompreso da tutti, anche dai suoi figli. Ecco come è potuto accadere che tutti si dimenticassero di Virata, l’uomo che ha incarnato i quattro nomi della virtù.