Un ragazzino che pattina in una perfetta giornata d’inverno riflessa tra le foglie del Maine, il ghiaccio che crocchia, il vento che soffia: un attimo e uno schianto. Il ragazzino è steso sul ghiaccio, che per lui non è più bianco, ma nero: ghiaccio nero, odore di bruciato, paura che pulsa.
Sa che quello che vede a occhi chiusi, nascosto sotto l’enorme bernoccolo viola, è un assaggio di futuro, fatto di terrore acido e di dolore resistente, scioccante. Il ragazzino si scrolla la paura e via di corsa sui pattini, ancora una volta in piedi, ancora una volta tra le braccia del gelo. È fatto così lui, cuor di leone, sorriso aperto, mente pura. È il 1951 e quel ragazzino ha un nome tanto comune da sembrare finto, John Smith. Nome qualunque, destino eccezionale. Destino che lo porterà da grande a diventare un insegnante di talento, a sbancare una ruota della fortuna in una festosa serata insieme alla sua ragazza, ad avere un incidente terrificante, a risvegliarsi dal coma quasi cinque anni dopo, di botto, in una camera d’ospedale senza fiori né biglietti d’auguri e la maledetta sensazione che qualcosa, o meglio qualcuno, si sia perso per sempre, inghiottito dallo scivoloso abbraccio del tempo e con quegli assaggi di futuro che ora sono visioni chiare, tragiche scene in HD di ciò che è stato, di ciò che è, di ciò che sarà. E se ciò che sarà è un presidente degli Stati Uniti con l’aspetto grottesco del compagnone dalla battuta facile e il cuore nero di sangue e violenza allora è arrivato il momento di trasformare quello che gli altri chiamano dono e farne una missione. Riuscirà John a fermare il destino, a cambiare lo scorrere del tempo, a plasmarlo negli angoli remoti della "zona morta", là dove non tutte le cose si possono vedere e tutto può essere cambiato e forse, nella pace di avere fatto la cosa giusta, si trova il senso di quello che è stato?
La zona morta, romanzo di Stephen King -annata 1979-, ci porta in una quarta dimensione, quella del "non ancora scritto". Ci fa girare intorno al cuore dei nostri talenti, alla voglia e al pericolo di sapere a ogni costo, alla fonte dei nostri desideri, all'idea di un destino che si può e si deve volgere al bene, nella consapevolezza dolce che, come scrive King alla fine del romanzo “niente è perduto per sempre, niente che non possa essere ritrovato”.