L’accordo di Parigi sul clima: impegni e prospettive

Emisfero Nord

ATTUALITÀ PER LA CLASSE | Tecnologia, Scienze, Biologia, Chimica, Scienze della Terra

Si è chiusa lo scorso dicembre la ventunesima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici. Quasi tutti i Paesi del mondo hanno riconosciuto che, per colpa dell’uomo, il clima sta cambiando, e che bisogna correre in fretta ai ripari. In questo articolo, un breve inquadramento storico dell’accordo e una descrizione dei suoi punti fondamentali.

Pietro Greco

Forse un giorno ricorderemo il mese di dicembre 2015 come il momento della svolta, quello in cui l’umanità ha tentato di cambiare passo nel contrasto alla più grave minaccia che in questo XXI secolo incombe sulla sua testa: i cambiamenti accelerati del clima. Solo il futuro ci dirà se il tentativo è riuscito. Certo è che con la COP 21, la ventunesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, chiusa a Parigi a metà dello scorso mese di dicembre, per la prima volta i rappresentanti di quasi tutti i Paesi del mondo hanno riconosciuto che il clima sta cambiando a ritmi non usuali; che gli effetti di questo cambiamento non sono desiderabili; che la causa principale del cambiamento accelerato è l’uomo; che è necessario contrastarlo con una seria ed equa politica sia di mitigazione (ovvero riduzione delle emissioni di gas serra) sia di adattamento. Certo, per ora gli impegni sono limitati e di natura volontaristica. L’elusione non prevede sanzioni. Ma la COP 21 di Parigi 2015 deve essere considerato il secondo passo importante di un lungo e impervio percorso iniziato a Rio de Janeiro nel giugno 1992 e che per la fine del secolo dovrebbe portare a contenere entro i 2 °C il previsto aumento della temperatura media del pianeta.

Pannelli fotovoltaici

Da Rio de Janeiro a Kyoto

Tutto ha avuto inizio quasi un quarto di secolo fa nella città brasiliana, quando le Nazioni Unite organizzarono la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED 1992), nel corso della quale fu proposta la Convenzione quadro sui cambiamenti del clima, una legge internazionale di indirizzo, in cui si riconosceva non solo che il clima stava cambiando e che la causa più probabile del mutamento era l’uomo, ma anche che le varie nazioni avevano responsabilità diverse. In particolare: l’80% del cambiamento era responsabilità del 20% della popolazione mondiale che risiede nei Paesi di antica industrializzazione (Europa dell’Ovest e dell’Est, Usa, Giappone) che sversando, nel corso degli ultimi duecento anni, crescenti quantità di gas serra in atmosfera sia attraverso l’uso dei combustibili fossili sia finanziando grandi progetti di deforestazione, stava modificando la composizione chimica dell’atmosfera stessa. Per questo la Convenzione, sottoscritta da quasi tutti i Paesi, prevedeva che a fare il primo passo per contrastare i cambiamenti del clima dovessero essere i Paesi di antica industrializzazione. La concreta realizzazione di questo primo e asimmetrico programma veniva demandata a un protocollo (una legge attuativa) che fu proposto a Kyoto cinque anni dopo, nel 1997: i Paesi storicamente responsabili avrebbero dovuto tagliare le emissioni di gas serra del 5% rispetto ai valori di riferimento del 1990 entro il 2012. Quasi tutti accettarono l’impegno.

Tra i grandi Paesi solo gli Stati Uniti si sottrassero, con due motivazioni: 1) c’è ancora troppa incertezza scientifica sulla realtà e sulla cause dei cambiamenti climatici; 2) in ogni caso gli Usa non si impegneranno in azioni che possono frenarne lo sviluppo se anche i grandi Paesi a economia e a responsabilità emergenti (leggi, soprattutto, Cina e India) non faranno altrettanto.
La Cina, l’India e gli altri Paesi in via di sviluppo assunsero un atteggiamento speculare e opposto: noi non ci muoveremo se voi non farete il primo concreto passo e non ci risarcirete dell’inquinamento pregresso. In realtà a Rio de Janeiro nel 1992 fu anche riconosciuto questa sorta di diritto al risarcimento da parte dei Paesi in via di sviluppo: in pratica, i Paesi ricchi avrebbero dovuto trasferire ingenti risorse (dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari l’anno) per aiutare i poveri a finanziare uno sviluppo sostenibile.

Combustibili fossili

Il divario tra consapevolezza scientifica e decisioni politiche

Anche senza gli Usa, il protocollo di Kyoto è stato attuato. Ma i suoi effetti pratici sono stati minimi: si calcola che abbia evitato un ulteriore aumento della temperatura nell’ordine di un decimo di grado. Oggi sappiamo che la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,9 °C rispetto all’epoca preindustriale e verifichiamo, anche, che Paesi di nuova industrializzazione, come l’India e soprattutto la Cina, sono entrati nel novero dei Paesi più inquinanti.
Così, dal giugno 1992 al dicembre 2015, la pressione antropica sul clima è aumentata, la temperatura e i gas serra in atmosfera sono aumentati, le incertezze scientifiche sono state dissolte (il 97% dei climatologi di tutto il mondo riconosce la realtà e la causa antropica dei cambiamenti del clima), mentre la politica di contrasto è risultata nei fatti bloccata e la forbice tra consapevolezza scientifica e determinazione politica si è progressivamente allargata. Per la prima volta in un quarto di secolo, però, COP 21 ha iniziato a ridurre questa divergenza. Certo, i risultati dei negoziati sotto la torre Eiffel sono come il classico bicchiere da considerare mezzo pieno, sebbene non sia colmo quanto necessario. Non è ancora sufficiente, ma la svolta a Parigi c’è stata. In tutti e rispetto a ciascuno dei “punti caldi” della politica sul clima.

Tutti gli impegni per la prevenzione del riscaldamento globale

Fino a qualche anno fa, molti governi faticavano persino a riconoscere l’esistenza di un problema “cambiamenti climatici”. Gli Stati Uniti di George W. Bush, per esempio, negavano che il fenomeno esistesse o che fosse determinato dalle attività dell’uomo; Cina e India riconoscevano l’esistenza del problema, ma sostenevano che per responsabilità storica spettasse ad altri risolverlo. L’Europa si trovava a essere la locomotiva volenterosa ma debole di un convoglio formato da vagoni piombati. A Parigi tutto è cambiato. Perché 195 governi hanno riconosciuto che il problema è reale, che riguarda tutti e che tutti, sia pure con responsabilità e impegno diversi, devono concorrere a risolverlo, nell’ambito di un quadro scientifico ben definito e da tutti accettato: contenere il previsto aumento della temperatura media del pianeta entro il 2100 “ben al di sotto di 2 °C” e possibilmente “entro 1,5 °C” rispetto all’epoca pre-industriale.
Si tratta, in pratica, di modificare il paradigma energetico, passando dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili e carbon free. Un impegno realistico, ma non facile. Questa la parte piena del bicchiere. Resta, però, l’altra metà rimasta vuota. Perché non ci sono obiettivi condivisi, generali e chiari di riduzione delle emissioni di gas serra: i 195 Paesi si sono lasciati il diritto di indicare ciascuno e in maniera unilaterale i propri obiettivi specifici.

L’Unione Europea, per esempio, si impegna a tagliare le proprie emissioni del 20% entro il 2020 e del 40% entro il 2030, rispetto ai livelli di riferimento del 1990. Gli Stati Uniti si impegnano a ridurre del 26-28% le emissioni entro il 2015 e poi del 32% quelle da impianti di produzione di energia elettrica, ma rispetto ai livelli (più alti) del 2005. E ancora, la Cina si impegna a raggiungere il picco delle emissioni nel 2030, solo dopo inizierà a ridurle; e l’India rivendica il suo diritto allo sviluppo economico fino a un livello paragonabile a quello occidentale, prima di assumere impegni di riduzione.
Ebbene, la somma di questi variegati impegni non è sufficiente a garantire che la temperatura media del pianeta resti “ben al di sotto di 2 °C”. Anzi, secondo i modelli scientifici di previsione (che sono probabilistici), con gli impegni finora assunti, l’aumento della temperatura potrebbe superare la soglia di 2,5 °C e assestarsi a un valore compreso tra 2,7 e 3,5 °C.

Risultati monitorati ma non sanzionati

A Parigi, i governi hanno accettato di monitorare i risultati delle loro politiche di mitigazione verificandoli ogni cinque anni. Insomma, hanno accettato il principio della trasparenza. E tuttavia i controllori non saranno indipendenti: ciascun Paese sarà il controllore di se stesso. Trasparenza sì, ma limitata. In ogni caso, l’eventuale mancato rispetto degli impegni assunti non è sanzionabile: chi dovesse derogare sa che non pagherà pegno alcuno.

Aiuti ai paesi più poveri

Terza decisione per nulla scontata, a Parigi è stato riconosciuto il gradiente di responsabilità tra i diversi Paesi. E un modo concreto per riconoscerlo sono gli aiuti economici e il trasferimento di tecnologie pulite dai Paesi ricchi, con maggiori responsabilità, a quelli più poveri, con minori responsabilità. Il principio, per la verità, era stato formulato e accettato fin dai tempi di Rio 92, ma finora non era stato applicato. Non in forma sostanziale, almeno. Ora i Paesi ricchi si sono impegnati a trasferire ai Paesi poveri almeno 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2025, anno entro il quale sarà effettuato un aggiornamento. Tuttavia, è una svolta non ancora sufficiente: perché quei 100 miliardi di dollari l’anno sono considerati insufficienti dai Paesi in via di sviluppo; perché non è ancora chiaro chi dovrà trasferire quanto a chi (la Cina, per esempio, è tra i Paesi che devono dare o tra quelli che hanno diritto a ricevere?); perché l’impegno finanziario è contenuto nel preambolo e non nella parte legalmente vincolante dell’accordo. Insomma, è sì un impegno scritto, ma sulla sabbia.

Un traguardo ancora lontano

In definitiva, a Parigi l’umanità – o meglio, le nazioni unite – si sono messe in carreggiata e hanno iniziato a camminare nella giusta direzione. Ma il passo verso un futuro climatico desiderabile (o, almeno, non troppo indesiderabile) è ancora lento e incerto. Il traguardo è ancora molto lontano e potrà essere raggiunto solo se, cammin facendo, aumenteranno determinazione e velocità. Per questo è importante che scienziati e opinione pubblica si alleino e realizzino una “nuova alleanza”, facendo costantemente sentire, come usa dire, il fiato sul collo ai governi. Insomma, il futuro è, anche, nelle nostre mani.

Per approfondire online

  • J. Flynn, Senza alibi. Il cambiamento climatico: impedire la catastrofe, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
  • A. Giddens, La politica del cambiamento climatico, Il Saggiatore, 2015.
  • P. Greco, Le febbre del pianeta, La Cittadella, Assisi, 2012.

 

Pietro Greco è giornalista e scrittore. È membro del consiglio scientifico di ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e di Fondazione Idis-Città della Scienza. Inoltre è condirettore di Scienza in rete.