Il divario tra consapevolezza scientifica e decisioni politiche
Anche senza gli Usa, il protocollo di Kyoto è stato attuato. Ma i suoi effetti pratici sono stati minimi: si calcola che abbia evitato un ulteriore aumento della temperatura nell’ordine di un decimo di grado. Oggi sappiamo che la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,9 °C rispetto all’epoca preindustriale e verifichiamo, anche, che Paesi di nuova industrializzazione, come l’India e soprattutto la Cina, sono entrati nel novero dei Paesi più inquinanti.
Così, dal giugno 1992 al dicembre 2015, la pressione antropica sul clima è aumentata, la temperatura e i gas serra in atmosfera sono aumentati, le incertezze scientifiche sono state dissolte (il 97% dei climatologi di tutto il mondo riconosce la realtà e la causa antropica dei cambiamenti del clima), mentre la politica di contrasto è risultata nei fatti bloccata e la forbice tra consapevolezza scientifica e determinazione politica si è progressivamente allargata. Per la prima volta in un quarto di secolo, però, COP 21 ha iniziato a ridurre questa divergenza. Certo, i risultati dei negoziati sotto la torre Eiffel sono come il classico bicchiere da considerare mezzo pieno, sebbene non sia colmo quanto necessario. Non è ancora sufficiente, ma la svolta a Parigi c’è stata. In tutti e rispetto a ciascuno dei “punti caldi” della politica sul clima.
Tutti gli impegni per la prevenzione del riscaldamento globale
Fino a qualche anno fa, molti governi faticavano persino a riconoscere l’esistenza di un problema “cambiamenti climatici”. Gli Stati Uniti di George W. Bush, per esempio, negavano che il fenomeno esistesse o che fosse determinato dalle attività dell’uomo; Cina e India riconoscevano l’esistenza del problema, ma sostenevano che per responsabilità storica spettasse ad altri risolverlo. L’Europa si trovava a essere la locomotiva volenterosa ma debole di un convoglio formato da vagoni piombati. A Parigi tutto è cambiato. Perché 195 governi hanno riconosciuto che il problema è reale, che riguarda tutti e che tutti, sia pure con responsabilità e impegno diversi, devono concorrere a risolverlo, nell’ambito di un quadro scientifico ben definito e da tutti accettato: contenere il previsto aumento della temperatura media del pianeta entro il 2100 “ben al di sotto di 2 °C” e possibilmente “entro 1,5 °C” rispetto all’epoca pre-industriale.
Si tratta, in pratica, di modificare il paradigma energetico, passando dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili e carbon free. Un impegno realistico, ma non facile. Questa la parte piena del bicchiere. Resta, però, l’altra metà rimasta vuota. Perché non ci sono obiettivi condivisi, generali e chiari di riduzione delle emissioni di gas serra: i 195 Paesi si sono lasciati il diritto di indicare ciascuno e in maniera unilaterale i propri obiettivi specifici.
L’Unione Europea, per esempio, si impegna a tagliare le proprie emissioni del 20% entro il 2020 e del 40% entro il 2030, rispetto ai livelli di riferimento del 1990. Gli Stati Uniti si impegnano a ridurre del 26-28% le emissioni entro il 2015 e poi del 32% quelle da impianti di produzione di energia elettrica, ma rispetto ai livelli (più alti) del 2005. E ancora, la Cina si impegna a raggiungere il picco delle emissioni nel 2030, solo dopo inizierà a ridurle; e l’India rivendica il suo diritto allo sviluppo economico fino a un livello paragonabile a quello occidentale, prima di assumere impegni di riduzione.
Ebbene, la somma di questi variegati impegni non è sufficiente a garantire che la temperatura media del pianeta resti “ben al di sotto di 2 °C”. Anzi, secondo i modelli scientifici di previsione (che sono probabilistici), con gli impegni finora assunti, l’aumento della temperatura potrebbe superare la soglia di 2,5 °C e assestarsi a un valore compreso tra 2,7 e 3,5 °C.
Risultati monitorati ma non sanzionati
A Parigi, i governi hanno accettato di monitorare i risultati delle loro politiche di mitigazione verificandoli ogni cinque anni. Insomma, hanno accettato il principio della trasparenza. E tuttavia i controllori non saranno indipendenti: ciascun Paese sarà il controllore di se stesso. Trasparenza sì, ma limitata. In ogni caso, l’eventuale mancato rispetto degli impegni assunti non è sanzionabile: chi dovesse derogare sa che non pagherà pegno alcuno.
Aiuti ai paesi più poveri
Terza decisione per nulla scontata, a Parigi è stato riconosciuto il gradiente di responsabilità tra i diversi Paesi. E un modo concreto per riconoscerlo sono gli aiuti economici e il trasferimento di tecnologie pulite dai Paesi ricchi, con maggiori responsabilità, a quelli più poveri, con minori responsabilità. Il principio, per la verità, era stato formulato e accettato fin dai tempi di Rio 92, ma finora non era stato applicato. Non in forma sostanziale, almeno. Ora i Paesi ricchi si sono impegnati a trasferire ai Paesi poveri almeno 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2025, anno entro il quale sarà effettuato un aggiornamento. Tuttavia, è una svolta non ancora sufficiente: perché quei 100 miliardi di dollari l’anno sono considerati insufficienti dai Paesi in via di sviluppo; perché non è ancora chiaro chi dovrà trasferire quanto a chi (la Cina, per esempio, è tra i Paesi che devono dare o tra quelli che hanno diritto a ricevere?); perché l’impegno finanziario è contenuto nel preambolo e non nella parte legalmente vincolante dell’accordo. Insomma, è sì un impegno scritto, ma sulla sabbia.
Un traguardo ancora lontano
In definitiva, a Parigi l’umanità – o meglio, le nazioni unite – si sono messe in carreggiata e hanno iniziato a camminare nella giusta direzione. Ma il passo verso un futuro climatico desiderabile (o, almeno, non troppo indesiderabile) è ancora lento e incerto. Il traguardo è ancora molto lontano e potrà essere raggiunto solo se, cammin facendo, aumenteranno determinazione e velocità. Per questo è importante che scienziati e opinione pubblica si alleino e realizzino una “nuova alleanza”, facendo costantemente sentire, come usa dire, il fiato sul collo ai governi. Insomma, il futuro è, anche, nelle nostre mani.