Dall’industria civile ai campi di battaglia
Il primo e più importante “campo di battaglia” per le armi chimiche è stato sicuramente il primo conflitto mondiale. Già nella primavera del 1915, nonostante quanto stabilito dalla Convenzione dell’Aja, i tedeschi usarono il cloro come gas asfissiante in una delle battaglie avvenute a Ypres, nelle Fiandre occidentali. Il gas, sparso nell’aria e sospinto dal vento fino alle linee nemiche, causò la morte di circa 5000 dei 10 000 soldati colpiti. L’attacco tuttavia non fu risolutivo, perché lo Stato Maggiore tedesco lo aveva considerato un semplice esperimento, e non aveva previsto una strategia successiva. Il cloro era una vecchia conoscenza: scoperto come elemento nel 1810, e studiato quindi da oltre un secolo, era fondamentale per la produzione dell’acido cloroacetico necessario per ottenere l’indaco sintetico. Il cloro, prodotto dall’elettrolisi del cloruro di sodio in soluzione, nasce quindi come sostanza per usi pacifici utilizzata in particolare nell’industria dei coloranti: viene usato ancora oggi in moltissimi casi: per potabilizzare l’acqua e disinfettare le piscine, o per produrre carta, coloranti, tessuti, medicine, insetticidi e altro ancora.
La storia del fosgene (dicloruro di carbonile, COCl2), utilizzato in combinazione con il cloro perché più velenoso e perché quest’ultimo, che bolle a temperatura più bassa, lo trasporta e mantiene allo stato gassoso, è simile. Sintetizzato nel 1812 e prodotto dalla reazione tra cloro gassoso e monossido di carbonio catalizzata da carbone, era ed è impiegato nell’industria dei coloranti per produrre i derivati del trifenilmetano.
Nati per la guerra
Cloro e fosgene, quindi, non sono stati studiati e messi a punto appositamente per l’uso bellico, ma non è così per altri agenti chimici impiegati durante la Prima guerra mondiale: la difenilcloroarsina, per esempio, un agente starnutatore in grado di attraversare i filtri delle maschere antigas degli alleati, è stata sviluppata proprio per l’impiego in guerra. Il primo dei gas mostarda, l’iprite, utilizzato sempre a Ypres nel 1917, è un tioetere [S(CH2CH2Cl)2] sintetizzato nel 1822, le cui proprietà fisiologiche erano note già dal 1860, ma che non aveva mai avuto applicazioni pratiche in ambito civile. Anche la Lewisite, un agente vescicante scoperto e prodotto negli Stati Uniti (ma studiato anche in Germania) verso la fine della guerra, non ha impieghi pratici e non è stata utilizzata solo perché nel frattempo la guerra si è conclusa.
Dinamiche tra scienza e società
Ma perché queste dinamiche? Come e perché nasce un’arma chimica? Che cosa cambia tra il modificare la destinazione d’uso – da civile a bellico – di una sostanza e l’utilizzarne una che non ha altre applicazioni se non come arma? Le risposte a queste domande si intrecciano con la storia e la politica della scienza nei vari paesi coinvolti. All’inizio del Novecento, la maggior parte dei paesi non era consapevole dell’importanza della scienza in caso di guerra, né di fatto aveva una politica della scienza. Solo il governo della Germania, dove all’epoca sia le conoscenze in ambito chimico sia la loro applicazione industriale erano nettamente superiori a quelle degli altri paesi, aveva iniziato a fornire un appoggio diretto alla ricerca. Questo contribuì a far sì che i tedeschi fossero i primi a impiegare, come armi, sostanze delle quali avevano già conoscenze, tecnologia e impianti necessari. In seguito anche altri stati in guerra si sono adeguati, dando avvio a una rincorsa per mettere a punto sia nuovi aggressivi chimici sia nuovi mezzi di difesa.
Quando una sostanza e le sue metodiche di sintesi sono già note, si sa già come e dove reperire i reagenti necessari e la produzione su larga scala è già stata progettata ed eseguita in sicurezza. Nel caso di un’arma sviluppata ex novo bisogna progettare tutto da zero: predisporre procedure di sintesi su larga scala, eventualmente anche per i reagenti necessari, costruire impianti, formare il personale perché lavori in condizioni di sicurezza, fornire dispositivi di protezione adeguati. In entrambi i casi, però, bisogna studiare caratteristiche e proprietà chimiche e fisiologiche delle sostanze, per capire meglio come possono essere efficaci, stabilire come utilizzarle al meglio e anche come proteggersi. Inoltre, occorre progettare e avviare la produzione dei sistemi per la loro dispersione: proiettili, bombe, armi per il lancio. Non basta dunque che un ricercatore scopra o sintetizzi casualmente una sostanza nociva per avere un’arma chimica: è necessario uno sforzo decisamente maggiore che coinvolge buona parte della società.
Eredità pesanti
Nel corso della Seconda guerra mondiale, tutti i contendenti avevano a disposizione armi chimiche, che però non sono state utilizzate. Dopo il conflitto, dunque, si è posto il problema di eliminarle. Fino alla fine degli anni Settanta l’unica soluzione è stata l’affondamento del materiale bellico obsoleto nei fondali marini. Per l’Italia questo significa un’eredità pesante: in vari punti delle coste italiane, come il golfo di Napoli, o il basso Adriatico, sono presenti ordigni caricati ad armi chimiche risalenti proprio al secondo conflitto mondiale, di cui non sempre si conosce con sicurezza il contenuto. Armi abbandonate dall’esercito americano o da quello tedesco, oppure recuperate in operazioni di bonifica e affondate altrove, come nel caso degli ordigni della John Harvey, una nave statunitense affondata dai tedeschi nel golfo di Bari nel 1943: le armi chimiche recuperate nel 1947 sono state affondate nel mare davanti a Molfetta.
Oggi le operazioni di recupero e bonifica funzionano diversamente. Gli stati aderenti alla CWC si sono impegnati a distruggere eventuali scorte entro il 29 aprile 2012 senza danni per l’ambiente. Le reazioni che rendono inoffensive le armi chimiche sono principalmente di idrolisi: i composti organici del fosforo costituenti i gas nervini, per esempio, vengono trasformati nei corrispondenti acidi fosfonici. In altri casi, come per l’iprite, è possibile ricorrere a reazioni con ipoclorito, o a reazioni di ossidazione con ozono. La Siria, che ha aderito alla CWC solo a fine 2013, ha provveduto in questi mesi alla distruzione del proprio arsenale chimico – iprite e precursori del Sarin, un gas nervino – trasportandolo a bordo di navi attrezzate come la Cape Ray. Anche Russia e Stati Uniti sono ancora impegnate in queste operazioni: dovrebbero terminare la prima nel 2016 e i secondi nel 2023.