Armi chimiche: la guerra con le molecole

La nave Cape Ray

ATTUALITÀ PER LA CLASSE | Chimica

Nonostante una convenzione internazionale ne vieti utilizzo e stoccaggio, le armi chimiche sono ancora una realtà. In questo articolo vediamo di che cosa si tratta, quando sono state utilizzate e come possono essere neutralizzate in sicurezza.

Chiara Manfredotti

È lunga quasi 200 metri, batte bandiera americana e ha un equipaggio di 35 marinai e… 64 chimici specializzati, impegnati con due FDHS, sistemi trasportabili per la neutralizzazione di armi chimiche mediante idrolisi (Field Deployment Hydrolysis System). Si chiama Cape Ray e non è un’imbarcazione qualunque, ma la nave che il 2 luglio scorso ha lasciato il porto di Gioia Tauro dopo aver caricato circa 600 tonnellate di armi chimiche di origine siriana destinate ad essere distrutte a bordo. I prodotti delle operazioni di neutralizzazione, molecole più semplici non più utilizzabili come armi, saranno scaricati in Germania e Finlandia e smaltiti come rifiuti pericolosi.
Questa complessa operazione internazionale conferma che la produzione e l’utilizzo di armi chimiche purtroppo continua, nonostante gli accordi e i ripetuti divieti a livello internazionale. Proprio nel conflitto siriano, per esempio, è stato ipotizzato l’uso di gas nervini o cloro. Ma di che cosa stiamo parlando esattamente?

Breve storia di un divieto

Secondo la Convenzione internazionale sulle armi chimiche, CWC (Chemical Weapon Convention), che dal 1997 pone il divieto di uso, immagazzinamento, produzione e sviluppo di armi chimiche e ne regolamenta la distruzione, un’arma chimica è qualsiasi sostanza tossica o qualsiasi suo precursore che abbia proprietà tali da procurare morte, invalidità, incapacità momentanea o irritazione dei sensi. La definizione non si limita alle sostanze, ma si estende anche alle munizioni e ai sistemi per trasportarle e disperderle, indipendentemente dal fatto che siano pieni o vuoti.
La CWC, in realtà, è solo l’ultima convenzione internazionale sulle armi chimiche, in ordine di tempo, nata con l’obiettivo non solo di bandirne l’utilizzo in tutto il mondo, ma anche di assicurare l’eliminazione dei depositi esistenti. Già nel 1899, la Convenzione dell’Aja aveva posto il divieto di utilizzo dei gas asfissianti, disatteso durante la Prima guerra mondiale. Nel 1925, con il Protocollo di Ginevra, il divieto era stato esteso ad altre sostanze, ma anche in questo caso senza grandi risultati: molti paesi hanno continuato a produrre e ad immagazzinare armi chimiche, anche se principalmente come minaccia nei confronti dei nemici. Qualcuno, talvolta, le ha anche utilizzate, come l’Italia con l’iprite e i gas asfissianti durante la guerra d’Etiopia nel 1935-36 o, in tempi più recenti, l’Iraq contro la popolazione curda ad Halabja nel 1988.

 

Soldati con maschere antigas in una trincea durante la Prima Guerra Mondiale

Dall’industria civile ai campi di battaglia

Il primo e più importante “campo di battaglia” per le armi chimiche è stato sicuramente il primo conflitto mondiale. Già nella primavera del 1915, nonostante quanto stabilito dalla Convenzione dell’Aja, i tedeschi usarono il cloro come gas asfissiante in una delle battaglie avvenute a Ypres, nelle Fiandre occidentali. Il gas, sparso nell’aria e sospinto dal vento fino alle linee nemiche, causò la morte di circa 5000 dei 10 000 soldati colpiti. L’attacco tuttavia non fu risolutivo, perché lo Stato Maggiore tedesco lo aveva considerato un semplice esperimento, e non aveva previsto una strategia successiva. Il cloro era una vecchia conoscenza: scoperto come elemento nel 1810, e studiato quindi da oltre un secolo, era fondamentale per la produzione dell’acido cloroacetico necessario per ottenere l’indaco sintetico. Il cloro, prodotto dall’elettrolisi del cloruro di sodio in soluzione, nasce quindi come sostanza per usi pacifici utilizzata in particolare nell’industria dei coloranti: viene usato ancora oggi in moltissimi casi: per potabilizzare l’acqua e disinfettare le piscine, o per produrre carta, coloranti, tessuti, medicine, insetticidi e altro ancora.
La storia del fosgene (dicloruro di carbonile, COCl2), utilizzato in combinazione con il cloro perché più velenoso e perché quest’ultimo, che bolle a temperatura più bassa, lo trasporta e mantiene allo stato gassoso, è simile. Sintetizzato nel 1812 e prodotto dalla reazione tra cloro gassoso e monossido di carbonio catalizzata da carbone, era ed è impiegato nell’industria dei coloranti per produrre i derivati del trifenilmetano.

Nati per la guerra

Cloro e fosgene, quindi, non sono stati studiati e messi a punto appositamente per l’uso bellico, ma non è così per altri agenti chimici impiegati durante la Prima guerra mondiale: la difenilcloroarsina, per esempio, un agente starnutatore in grado di attraversare i filtri delle maschere antigas degli alleati, è stata sviluppata proprio per l’impiego in guerra. Il primo dei gas mostarda, l’iprite, utilizzato sempre a Ypres nel 1917, è un tioetere [S(CH2CH2Cl)2] sintetizzato nel 1822, le cui proprietà fisiologiche erano note già dal 1860, ma che non aveva mai avuto applicazioni pratiche in ambito civile. Anche la Lewisite, un agente vescicante scoperto e prodotto negli Stati Uniti (ma studiato anche in Germania) verso la fine della guerra, non ha impieghi pratici e non è stata utilizzata solo perché nel frattempo la guerra si è conclusa.

Dinamiche tra scienza e società

Ma perché queste dinamiche? Come e perché nasce un’arma chimica? Che cosa cambia tra il modificare la destinazione d’uso – da civile a bellico – di una sostanza e l’utilizzarne una che non ha altre applicazioni se non come arma? Le risposte a queste domande si intrecciano con la storia e la politica della scienza nei vari paesi coinvolti. All’inizio del Novecento, la maggior parte dei paesi non era consapevole dell’importanza della scienza in caso di guerra, né di fatto aveva una politica della scienza. Solo il governo della Germania, dove all’epoca sia le conoscenze in ambito chimico sia la loro applicazione industriale erano nettamente superiori a quelle degli altri paesi, aveva iniziato a fornire un appoggio diretto alla ricerca. Questo contribuì a far sì che i tedeschi fossero i primi a impiegare, come armi, sostanze delle quali avevano già conoscenze, tecnologia e impianti necessari. In seguito anche altri stati in guerra si sono adeguati, dando avvio a una rincorsa per mettere a punto sia nuovi aggressivi chimici sia nuovi mezzi di difesa.
Quando una sostanza e le sue metodiche di sintesi sono già note, si sa già come e dove reperire i reagenti necessari e la produzione su larga scala è già stata progettata ed eseguita in sicurezza. Nel caso di un’arma sviluppata ex novo bisogna progettare tutto da zero: predisporre procedure di sintesi su larga scala, eventualmente anche per i reagenti necessari, costruire impianti, formare il personale perché lavori in condizioni di sicurezza, fornire dispositivi di protezione adeguati. In entrambi i casi, però, bisogna studiare caratteristiche e proprietà chimiche e fisiologiche delle sostanze, per capire meglio come possono essere efficaci, stabilire come utilizzarle al meglio e anche come proteggersi. Inoltre, occorre progettare e avviare la produzione dei sistemi per la loro dispersione: proiettili, bombe, armi per il lancio. Non basta dunque che un ricercatore scopra o sintetizzi casualmente una sostanza nociva per avere un’arma chimica: è necessario uno sforzo decisamente maggiore che coinvolge buona parte della società.

Eredità pesanti

Nel corso della Seconda guerra mondiale, tutti i contendenti avevano a disposizione armi chimiche, che però non sono state utilizzate. Dopo il conflitto, dunque, si è posto il problema di eliminarle. Fino alla fine degli anni Settanta l’unica soluzione è stata l’affondamento del materiale bellico obsoleto nei fondali marini. Per l’Italia questo significa un’eredità pesante: in vari punti delle coste italiane, come il golfo di Napoli, o il basso Adriatico, sono presenti ordigni caricati ad armi chimiche risalenti proprio al secondo conflitto mondiale, di cui non sempre si conosce con sicurezza il contenuto. Armi abbandonate dall’esercito americano o da quello tedesco, oppure recuperate in operazioni di bonifica e affondate altrove, come nel caso degli ordigni della John Harvey, una nave statunitense affondata dai tedeschi nel golfo di Bari nel 1943: le armi chimiche recuperate nel 1947 sono state affondate nel mare davanti a Molfetta.
Oggi le operazioni di recupero e bonifica funzionano diversamente. Gli stati aderenti alla CWC si sono impegnati a distruggere eventuali scorte entro il 29 aprile 2012 senza danni per l’ambiente. Le reazioni che rendono inoffensive le armi chimiche sono principalmente di idrolisi: i composti organici del fosforo costituenti i gas nervini, per esempio, vengono trasformati nei corrispondenti acidi fosfonici. In altri casi, come per l’iprite, è possibile ricorrere a reazioni con ipoclorito, o a reazioni di ossidazione con ozono. La Siria, che ha aderito alla CWC solo a fine 2013, ha provveduto in questi mesi alla distruzione del proprio arsenale chimico – iprite e precursori del Sarin, un gas nervino – trasportandolo a bordo di navi attrezzate come la Cape Ray. Anche Russia e Stati Uniti sono ancora impegnate in queste operazioni: dovrebbero terminare la prima nel 2016 e i secondi nel 2023.

La classificazione della CWC

Le armi chimiche sono sostanze molto diverse tra loro: la classificazione più usata si basa sulle proprietà e non sulla composizione chimica. Nella suddivisione della CWC si distinguono:

  • agenti asfissianti, come cloro e fosgene: causano lesioni ai polmoni tali da provocare la morte per asfissia;
  • agenti vescicanti: agiscono sia per inalazione sia per contatto con la pelle, prima come sostanze irritanti, poi come veleni per le cellule;
  • agenti emotossici, come il cianuro di idrogeno (HCN): distribuiti nel corpo con il flusso sanguigno, inibiscono le attività di trasporto e utilizzo dell’ossigeno da parte delle cellule;
  • gas nervini: danneggiano la trasmissione degli impulsi nervosi;
  • gas “mostarda” come l’iprite: pur essendo vescicanti, danneggiano anche polmoni, occhi e organi interni. Sono indicati così per il loro odore caratteristico.

Una curiosità è rappresentata dai gas lacrimogeni e dai pepper spray a base di capsicina, la sostanza responsabile della sensazione di bruciore data dai peperoncini. Tecnicamente sono armi chimiche, e infatti l’uso su larga scala, come in guerra, è vietato. Possono però essere utilizzati come antisommossa nelle operazioni di piazza o per difesa personale.

L’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche

La Convenzione sulle armi chimiche non si limita a vietare lo sviluppo, la produzione, l’immagazzinamento e l’uso delle armi chimiche, ma istituisce anche una organizzazione apposita, l’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW), con sede a L’Aja, che si occupa di rendere effettiva la convenzione stessa. L’OPCW garantisce un sistema di controlli eseguiti da esperti al suo servizio, per verificare l’eventuale uso di armi chimiche: sono sue le prove che confermerebbero l’uso di cloro in Siria nel 2014. Inoltre offre assistenza, protezione e cooperazione internazionale per lo smaltimento graduale e lo smantellamento strutturale degli arsenali chimici, secondo le procedure indicate nel testo della Convenzione. L’OPCW si occupa inoltre di coordinare operazioni di smaltimento complesse a cui partecipano molti stati, come quella effettuata dalla Cape Ray l’estate scorsa.

PER APPROFONDIRE

  • Cape Ray, pagina web dell’U.S. Department of Defense dedicata alla nave speciale per lo smaltimento di armi chimiche.
  • L. Cerruti, Bella e potente. La Chimica del Novecento tra scienza e società, Ed. Riuniti.
  • C. Da Rold, WW1: la chimica in trincea, in OggiScienza. 
  • M. Bidetti, L’iprite dimenticata, in Galileo. 
  • Chemical Emergencies, pagina web dedicata al rischio chimico dei Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta. 
  • Y.C. Yang, J.A. Baker and J.R. Ward, Decontamination of chemical warfare agents, Chem. Rev., 1992, vol. 92, pp. 1729-1743.

Scheda didattica

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Chiara Manfredotti: è laureata in chimica. È stata ricercatrice sulla chimica fisica delle superfici, ora è insegnante a tempo pieno e divulgatrice saltuaria.