Come prevenire la contaminazione biologica da forme di vita aliene

Per ora, l’unica certezza è che noi terrestri siamo i veri invasori spaziali!

SCIENZE DELLA TERRA – BIOLOGIA

Dal 1995, anno della scoperta del primo pianeta extrasolare, denominato 51 Pegasi b, sono stati scoperti 4885 pianeti extrasolari, e un numero pari quasi al doppio è in attesa di conferma. Se esistessero nello Spazio forme di vita, saremmo in grado di proteggerci da una loro eventuale invasione? Ad oggi, l’importazione, ossia il trasporto e la diffusione di un organismo extraterrestre sulla Terra, è poco probabile. Nel prossimo futuro però questa probabilità non potrà che aumentare.

di Simona Romaniello

Nella canzone Altre forme di vita del 1998 i Bluvertigo sostenevano che è praticamente ovvio che ne esistano. Dopo più di vent’anni da quella canzone, per la scienza l’esistenza di altre forme di vita nel Cosmo non è per nulla ovvia!
Dal 1995, anno della scoperta del primo pianeta extrasolare, denominato 51 Pegasi b, sono stati scoperti 4885 pianeti extrasolari, e un numero pari quasi al doppio è in attesa di conferma.

I pianeti extrasolari sono altri mondi che ruotano intorno ad altre stelle. Su questi c’è vita? Per ora non lo sappiamo, la ricerca è in grado di distinguere tra un pianeta gassoso, come Giove, e uno roccioso come la Terra.

Si può definire, inoltre, una “zona di abitabilità” del sistema planetario, ossia una regione circumstellare in cui per un pianeta è teoricamente possibile mantenere acqua liquida sulla sua superficie.

Questa definizione si riferisce solo alla presenza di acqua sulla superficie di un pianeta, non è da escludere che essa possa esistere anche al di sotto della superficie planetaria, come nel caso di Europa, una delle lune maggiori di Giove, estendendo così i limiti della zona di abitabilità.

Confronto tra la zona di abitabilità del sistema solare e quella del sistema planetario Trappist.
Crediti: NASA/JPL-Caltech/Lizbeth B. De La Torre

Anatomia di un alieno

Una volta scoperto un pianeta roccioso di dimensioni simili alla Terra, la cui orbita si trova nella fascia di abitabilità, siamo sicuri che il pianeta ospiti vita? Assolutamente no, se si pensa che nel nostro sistema solare anche Marte e Venere cadono in fascia di abitabilità eppure, per quanto ne sappiamo, né Marte né Venere ospitano vita.
E che forme di vita ci aspettiamo di trovare su questi mondi? Per ora nessun omino verde o in generale nessuna forma di vita intelligente, piuttosto forme di vita semplici, simili ad alcuni organismi estremofili che troviamo sulla Terra.

Estremofili

Gli estremofili sono per la maggior parte microrganismi che vivono in condizioni estreme, ossia in ambienti inaccessibili a molte forme di vita, in particolare agli uomini, come ad esempio luoghi con alti o bassi livelli di temperatura, pressione, illuminazione e salinità.

Questi organismi hanno particolari proprietà metaboliche e di utilizzo dell’energia, che permettono loro di resistere serenamente alle condizioni avverse dell’ambiente.
Fanno parte della categoria “estremofili” molti tipi di batteri, gli Archei, ma anche forme di vita decisamente più complesse, come il Riftia pachyptila, detto anche “verme tubo gigante”, le cui dimensioni possono raggiungere anche i due metri di lunghezza, che vive vicino alle sorgenti idrotermali marine, ad altissime temperature e a contatto con ingenti quantità di zolfo.

Immagine del Riftia pachyptila, detto anche “verme tubo gigante”, presa durante il NOAA Okeanos Explorer Program, Galapagos Rift Expedition 2011. Public domain, via Wikimedia Common

Il tardigrado

La star degli estremofili e il miglior candidato per colonizzare altri mondi è certamente il tardigrado, per gli inglesi “waterbear”, cioè “orsetto d’acqua”. È un tipo di invertebrato protostomo celomato, cioè dotato di una cavità del corpo piena di liquido, di cui esistono forse un migliaio di specie. Le dimensioni possono variare da meno di 0,1 mm a 1,5 mm. A seconda della specie di appartenenza possono apparire bianco-grigiastre, come nel caso delle specie marine, ma anche arancioni, rosa, gialli, verdi o neri, come nel caso delle specie di terra.

Viene considerato come la star degli estremofili perché per esempio è in grado di sopravvivere al vuoto assoluto e alle radiazioni ionizzanti dello Spazio.

Immagine di un tardigrado. Crediti: Wikimedia

In alcuni esperimenti sono stati lanciati a velocità prossime a 3000 km/h contro bersagli di sabbia, sopravvivendo all’impatto. In altri esperimenti hanno dimostrato di resistere a pressioni cinque volte superiore a quella del punto più profondo degli oceani, ma anche a temperature di + 150 gradi o fino a - 270 gradi (appena sopra lo zero assoluto). Sapendo che sono così resistenti, l’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, ha coinvolto 3000 tardigradi nell'esperimento TARDIS (Tardigrades in Space): per 12 giorni nel settembre 2007, i nostri “orsetti d’acqua” hanno fatto l'autostop nello spazio, orbitando intorno alla Terra a bordo della capsula Foton-M3.

L’esperimento ha confermato che il vuoto spaziale, che comporta inoltre un'estrema disidratazione e radiazioni cosmiche, non è assolutamente un problema.
Per riuscire a sopravvivere usano una tecnica molto ingegnosa: la forma "tun", uno stato dormiente in cui si raggrinziscono a palla, espellono la maggior parte dell'acqua dal corpo e abbassano il loro metabolismo tramite criptobiosi, fino a quando non entrano in un ambiente più adatto alla vita.

Capsula Foton - M3. Crediti ESA - S. Corvaja

Prevenire la contaminazione biologica da forme di vita aliene

Siamo giunti quindi alla domanda portante di questo articolo: “Se esistessero nello Spazio forme di vita come il tardigrado, saremmo in grado di proteggerci da una loro eventuale invasione?”
Ad oggi, l’importazione, ossia il trasporto e la diffusione di un organismo extraterrestre sulla Terra è poco probabile.
Nel prossimo futuro però, con l’incremento delle missioni spaziali che prevedono tra l’altro di riportare sulla Terra campioni da analizzare, questa probabilità non potrà che aumentare.
Per ora, l’unica certezza è che noi terrestri siamo i veri invasori spaziali! Pensiamo, per esempio, ai tantissimi rover che sono stati inviati su Marte e che si muovono sul suo suolo, o ancora alla missione Chang’e 5 dell’agenzia spaziale cinese che ha raccolto e riportato sulla Terra campioni di suolo della Luna. Le procedure di decontaminazione oggi utilizzate non sono efficaci al 100%.
Nonostante tutte le precauzioni adottate per evitare la contaminazione biologica alcuni microrganismi sembrano sopravvivere indenni anche negli ambienti più puliti.

Nelle camere bianche o “cleanroom” della Nasa, dove vengono assemblati i veicoli spaziali, sono stati trovati, anche se in piccolissima quantità, ceppi microbici come per esempio gli Acinetobacter, un genere di batteri che è stato trovato nei luoghi dove sono stati assemblati Mars Odyssey e Phoenix. Erano in grado di crescere in condizioni di estrema pulizia, biodegradando i detergenti usati durante l’assemblaggio dei veicoli spaziali. Erano in grado di crescere e diffondersi utilizzando come fonte di energia il carbonio presente nell’alcol etilico, nell’alcol isopropilico e nel Kleenol 30 usati tipicamente per disinfettare.

Come dobbiamo comportarci allora nell’esplorazione di altri pianeti? Scegliamo di osare per l’amore della ricerca e dell'esplorazione spaziale o manteniamo un atteggiamento prudenziale, impedendo così che qualche batterio o altro abitante della Terra finisca per colonizzare altri mondi?
Questo dilemma ha creato un acceso dibattito nel caso per esempio di Marte, per il quale sono state infatti individuate alcune zone off limits, le cosiddette “Special Regions”, aree in cui può esserci acqua allo stato liquido, alla stregua di quanto avviene per i “sistemi insulari” come le isole oceaniche in cui gli ecosistemi si sono dimostrati estremamente sensibili agli effetti di un’invasione di specie aliene.
Nella Planetary Protection, il protocollo guida da seguire nella progettazione di missioni interplanetarie, è stato quindi sancito che possono accedere alle special regions solo lander e rover che soddisfano requisiti di sterilizzazione estremamente severi e costosi. Così facendo si sta impedendo di “stanare” la vita marziana nei luoghi in cui è più probabile che si trovi.
Forse dovremmo semplicemente imparare a fare i conti con una crescita della contaminazione batterica o di altre forme di vita extraterrestri, in primis dei pianeti e le lune del sistema solare, ma anche della Terra, cercando di fare il meglio che possiamo con la tecnologia a nostra disposizione.

Referenze iconografiche: sdecoret / Shutterstock

 

Simona Romaniello è astrofisica e comunicatrice scientifica. Si occupa del coordinamento dell'ufficio di Didattica e Divulgazione di Infini.to presso il Planetario di Torino.

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