L’epidemia attuale di ebola in Africa occidentale non è certo la prima, però è l’unica che si è diffusa così ampiamente. Perché? In cosa differisce dalle altre?
Gli esperti continuano a chiederselo: non è ancora chiaro cosa sia accaduto. Come le altre epidemie, anche questa ha avuto origine in una regione desolata e povera, la zona forestale nei dintorni di Guéckédou, in Guinea, dove deve essere avvenuto il contatto con animali serbatoio per il virus, probabilmente pipistrelli della frutta. A differenza di quanto accaduto altrove, però, questa volta è stata colpita una popolazione molto mobile, capace di spostarsi da un luogo all’altro, anche grazie alla vicinanza di strade importanti, che hanno permesso al virus di raggiungere grandi città, dove le misure di contenimento sono più difficili da attuare. Per di più, Guéckédou si trova vicino ai confini con Liberia e Sierra Leone, il che ha facilitato la diffusione in questi paesi. E nell’espansione dell’epidemia ha giocato un ruolo anche il fatto che, almeno all’inizio, le popolazioni interessate non collaboravano affatto con i sistemi e gli operatori sanitari, nazionali o internazionali. Per molto tempo, la gente ha nascosto i casi di malattia.
In tutto ciò sembra che l’OMS non sia stata abbastanza pronta a rispondere all’emergenza. Forse, dicono alcuni, anche per i grossi tagli al bilancio subiti negli ultimi anni.
Penso che ci sia stata davvero una sottovalutazione della situazione da parte dell’OMS. Probabilmente all’inizio si è pensato che il fenomeno fosse simile ad altri e in primavera c’è stato un momento in cui sembrava che i casi diminuissero, mentre poi hanno ripreso a crescere. Tutto questo non ha facilitato una pronta risposta. Certo, nelle aree colpite sono arrivate anche velocemente organizzazioni non governative e realtà internazionali attive nell’emergenza sanitaria, ma è mancato il loro coordinamento, che sarebbe appunto compito dell’OMS. E i risultati che ottieni senza coordinamento sono sicuramente peggiori di quelli che potresti avere con un intervento coordinato.
Che cosa ci può dire dei laboratori mobili europei dislocati in Guinea e in Liberia?
I nostri laboratori sono stati tra i primi ad arrivare, seguiti da quelli di altri paesi, dalla Cina ad alcuni stati africani: anche in questo caso, il nodo critico è il coordinamento delle attività, che sono dedicate in particolare alla conferma della diagnosi, cioè all’identificazione del virus nei campioni prelevati ai pazienti.
Come viene identificato il virus e perché è così importante la conferma diagnostica?
La verifica è principalmente di tipo molecolare e si basa su un test di amplificazione del materiale genetico del virus con PCR, la reazione a catena della polimerasi. Il test può essere eseguito in tempi brevi, circa 4 ore dall’arrivo del campione in laboratorio, per ridurre al massimo la permanenza dei sospetti nei centri di trattamento. L’obiettivo è distinguere (e separare) il prima possibile chi è malato di ebola da chi non lo è. Una volta individuato un malato, scatta la fase successiva, che consiste nel rintracciare tutte le persone con cui è stato in contatto per sottoporle a controlli ed eventualmente porle in isolamento per evitare che possano a loro volta infettare altre persone. È proprio questa strategia la chiave fondamentale per il contenimento dell’epidemia ed è per questo che la diagnosi è così importante. Non bastano i sintomi a far riconoscere un caso di ebola perché, specie agli esordi, possono essere generici e comuni a quelli di altre malattie molto diffuse in Africa, prima tra tutte la malaria. Tracciare e seguire i contatti di tutti coloro che si presentano in un centro medico con febbre, diarrea e dolori muscolari sarebbe davvero impossibile, ma identificando i veri casi di ebola si riduce il numero di persone da seguire. Naturalmente, tutto ciò richiede una grande collaborazione da parte della popolazione, e su questo aspetto c’è ancora margine di miglioramento.
Ma con l’estensione raggiunta, ha ancora senso puntare al tracciamento dei contatti per contenere l’epidemia?
Certo in alcune aree è diventato difficile realizzare questa strategia, perché non c’è modo di isolare tutti i pazienti. A metà settembre mi trovavo a Monrovia, in Liberia, è ho verificato personalmente che nei centri medici non c’erano letti sufficienti per isolare tutti i malati: chi era infetto ma non aveva sintomi gravi veniva rimandato a casa. Però ricordiamoci che, in mancanza di una terapia efficace, tracciare e isolare i contatti è l’unico mezzo efficace per arrestare l’epidemia.