Insalata in busta sempre fresca, pesce dell’Atlantico al banco frigo che sembra appena pescato, e mele croccanti come raccolte in quel momento dall’albero. Forse non tutti lo sanno, ma dietro a queste meraviglie che finiscono nei nostri carrelli della spesa c’è una tecnologia che a tratti appare fantascientifica. E c’è, soprattutto, tanta fisica: dalla meccanica delle alte pressioni alla luce pulsata, passando per gli ultrasuoni e i raggi X.
Sicuro e “naturale”
Per quanto ci possa piacere l’idea che per fare un succo di frutta non serva altro che la frutta (e al più una centrifuga), è chiaro che nell’industria alimentare le cose non possono funzionare così. Per tre motivi: bisogna garantire la sicurezza per la salute dei consumatori, la conservazione nel tempo del prodotto e la sua qualità. I produttori si trovano così a rispondere a due esigenze che sembrano in antitesi: «Da un lato la richiesta, ovvia, di prodotti sani, igienici, privi di ogni contaminazione microbiologica o chimica, dall’altro la domanda, sempre più pressante, di alimenti genuini, naturali, cioè non sofisticati e il più possibile simili a quelli freschi», spiega Domenico Cacace, coordinatore del dipartimento di Ingegneria e Metrologia della Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari (SSICA), con laboratori a Parma e ad Angri, in provincia di Salerno. «Queste due richieste sono spesso incompatibili se si pensa alle tecniche tradizionali per inattivare i microrganismi, operazione indispensabile per garantire la sicurezza dei prodotti.» Basti pensare a quelle che si basano sulle alte temperature – come la sterilizzazione e la pastorizzazione – o al contrario sulle basse temperatura – come il congelamento e la surgelazione. Oppure a quelle che riducono il contenuto di acqua libera necessario alla proliferazione batterica (la concentrazione, l’essiccazione o la salagione), e a quelle che modificano l’acidità, cioè il pH, degli alimenti (la marinatura e la conservazione in aceto) o il contenuto di ossigeno (confezionamento sotto vuoto e in atmosfera modificata). Tutte queste tecniche intaccano più o meno pesantemente le proprietà nutrizionali dei cibi: per esempio possono distruggere le proteine e le vitamine, e degradare altri preziosi nutrienti, come gli zuccheri e i grassi. Inoltre, possono modificarne il colore, l’aroma, la consistenza. Accanto ai sistemi tradizionali e più diffusi, però, negli ultimi anni se ne sono sviluppati molti altri che hanno avuto come imperativo quello di modificare il meno possibile l’alimento. Queste tecnologie sfruttano soprattutto l’energia meccanica (come le alte pressioni) e l’energia elettromagnetica.
Come ti schiaccio il batterio
Oggi si possono trovare sul mercato prodotti alimentari “stabilizzati ad alta pressione”. Cosa significa questa espressione? In estrema sintesi, che i cibi vengono sottoposti a pressioni così elevate che i batteri muoiono per compressione: la membrana cellulare diminuisce di spessore fino a lacerarsi, il citoplasma fuoriesce, il metabolismo viene pregiudicato in modo irreversibile. «E sebbene il DNA resti stabile anche in condizioni di pressioni altissime, fino a mille MegaPascal (corrispondenti a circa 10mila atmosfere, NdR), viene inibita la sua capacità di replicazione e trascrizione», sottolinea Cacace.
Ecco come funziona il processo: l’alimento viene imbustato in plastiche flessibili (che trasmettono la pressione senza rompersi) e inserito in un cilindro fatto di un acciaio speciale, con una elevatissima resistenza meccanica; il cibo viene quindi caricato nella camera ad alta pressione, riempita di acqua. Una volta chiusa la camera, la pressione all’interno è portata al valore desiderato per il tempo desiderato. Per il principio di Pascal, il fluido trasmetterà istantaneamente la pressione in ogni punto, in tutte le direzioni.
«L’idea che le alte pressioni potessero avere un effetto battericida risale al 1800 – racconta l’ingegnere – e già nei primi anni del Novecento si era scoperto che pressioni di qualche centinaia di atmosfere allungavano la conservazione del latte. Ma all’epoca, la tecnologia non riusciva a generare e a gestire con sicurezza pressioni così elevate. Le cose sono cambiate con lo sviluppo dell’industria siderurgica e, nel tempo, si sono intensificati gli studi finché, nei primi anni novanta, un’industria giapponese ha messo in commercio le prime marmellate microbiologicamente stabilizzate ad alta pressione. Alla SSICA vi sono due tra i primi impianti sperimentali costruiti in Italia, e facciamo test sui diversi tipi di alimenti per verificare, caso per caso, quali pressioni applicare e per quanto tempo, il periodo per il quale si può assicurare l’assenza di batteri, il modo in cui reagisce il prodotto.»