Un mare di plastica

Immense isole di plastica galleggiano nel l’oceano Pacifico

ATTUALITÀ PER LA CLASSE | Tecnologia, Scienze, Biologia, Chimica, Scienze della Terra

Bottiglie, fibre sintetiche, reti da pesca, giocattoli e oggetti per la casa, perfino componenti di cosmetici e creme per la pelle. La plastica - anche nella sua versione micro - è davvero ovunque, e quando non la usiamo più, spesso finisce in mare, costituendo una grave forma di inquinamento e una delle peggiori minacce all’equilibrio degli ecosistemi.

Tiziana Moriconi

It’s a styrofoam deep sea landfill (“c’è una discarica di polistirolo in alto mare”), canta Damon Albarn in Plastic Beach, successo del gruppo musicale dei Gorillaz che dà il titolo al loro penultimo album, uscito ormai da qualche anno. Non c’è alcun intento o messaggio ambientalista, ma il riferimento è proprio ai detriti di plastica dispersi nell’Oceano Pacifico che, trascinati dalle correnti e per un gioco di vortici, si radunano a formare immense isole galleggianti.
C’è “un’allusione all’ambiente un po’ confusa che permea ogni bit di questo disco”, raccontava il cantante in un’intervista a Wired Usa nel 2010, all’indomani dell’uscita dell’album. Certo, le vere isole di plastica non hanno molto a che vedere con l’immagine pop della copertina del cd: sono piuttosto gigantesche chiazze formate da vari tipi di rifiuti, da reti da pesca e da miriadi di piccoli pezzi di vari oggetti, come bottiglie, spazzolini da denti, scarpe, corde. Va anche detto che la plastica è dispersa un po’ ovunque nel mare da molto tempo: già nel 1997, secondo le stime rappresentava tra il 60 e l’80 per cento di tutti i detriti. Che la situazione da allora non sia migliorata lo dicono i dati. È molto difficile (se non impossibile) calcolare quanta plastica vi sia nelle nostre acque, dalla superficie ai fondali più profondi, ma sappiamo che la produzione di materie plastiche nel mondo è in costante aumento: solo nel 2014 ne sono stati prodotti 311 milioni di tonnellate, quasi cento in più rispetto al 2004 (dati Plastics Europe ). Anche la percentuale di plastica riciclata è aumentata, ma non abbastanza e non ovunque.

Fibre di microplastica identificate in ambiente marino

Piccolo è peggio

Oggi la plastica, e in particolare la microplastica – cioè i frammenti più piccoli di 5 millimetri di diametro – è considerata una delle principali forme di inquinamento e tra le tre più gravi minacce per gli ecosistemi marini, insieme alle nuove classi di composti chimici (farmaci e antibiotici, mangimi per animali, trattamenti per imbarcazioni) e alla presenza di specie non autoctone, cioè originarie di altri luoghi.
Solo da poco, però, si è preso coscienza del “problema microplastiche”. Il primo articolo scientifico sull’argomento è apparso su Science nel 2004: descriveva microscopici frammenti di polimeri sintetici presenti nella maggior parte dei campioni di acqua e di sedimenti prelevati nella baia di Plymouth, nel sud del Regno Unito. Richard Thompson, ricercatore presso l’università della città, aveva identificato nove tipi di polimeri usati in molti ambiti diversi, in particolare per i vestiti (le fibre acriliche) e per gli imballaggi, suggerendo che questi frammenti fossero il risultato della disgregazione di oggetti più grandi. Aveva poi esteso i campionamenti ad altre zone e spiagge, trovando sempre le microplastiche. Si trattava soprattutto di fibre dal diametro inferiore ai 20 micrometri e dai colori brillanti. Non solo: Thompson aveva anche dimostrato che tre diverse specie di animali marini – i piccoli crostacei anfipodi (detritivori) e cirripedi (filtratori) e i vermi anellidi del genere arenicola (che si cibano di depositi organici) – ingeriscono le microplastiche.

Le ostriche di mare ingeriscono considerevoli quantità di microplastica

Il Plancton di plastica

«Noi scienziati lo chiamiamo il plancton di plastica proprio perché gli organismi più grandi lo confondono con le loro piccole prede», spiega Paola Del Negro, direttore della Sezione di Oceanografia dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. «Non conosciamo ancora bene gli effetti dell’ingestione delle microplastiche su tutta la rete trofica, dai minuscoli animali fino agli uccelli e ai grandi mammiferi, per arrivare agli esseri umani, ma di certo ci sono diversi rischi potenziali per gli ecosistemi. Sappiamo, per esempio, che i piccoli pezzi di plastica sono un ottimo substrato per i batteri, compresi quelli patogeni per l’uomo che provengono dalle nostre fognature. Le acque reflue subiscono trattamenti che uccidono questi batteri, che in ogni caso non sopravvivrebbero più di qualche giorno in mare. Il discorso, però, cambia in presenza delle microplastiche, che li proteggono e li trasportano, aumentando areali e tempi di diffusione. Un altro pericolo è rappresentato da sostanze dannose come insetticidi e pesticidi che si possono accumulare nelle microplastiche stesse per essere poi rilasciate.»
Arnaud Huvet dell’Institut Français de Recherche pour l’Exploitation de la Mer (Ifremer) di Plouzané, in Bretagna, ha indagato per la prima volta gli effetti di questo inquinamento sulle ostriche del Pacifico. I risultati mostrano che gli animali che vivono in acque inquinate producono uova e spermatozoi di qualità inferiore e circa il 40% in meno di piccoli rispetto al gruppo di ostriche di controllo, allevate senza la microplastica.

Se 268 mila tonnellate vi sembrano poche

Studi più recenti hanno confermato che la microplastica c’è ovunque la si cerchi: dai Poli (è stata trovata anche nei ghiacci artici) ai circuiti oceanici, in tutta la colonna d’acqua, nei sedimenti costieri e sui fondali, che sembrano essere i principali siti di stoccaggio. Nel 2014, sempre su Science, Thompson tornava a fare il punto sulla situazione, a distanza di 10 anni dal primo studio.
Modelli oceanografici e osservazioni ambientali riportavano concentrazioni molto variabili, che superavano i dieci milioni di frammenti per chilometro quadro di acqua nei circuiti subtropicali e nel Mediterraneo. Più in generale, nello stesso anno, uno studio apparso su PLoS ONE aveva provato a fare una stima delle quantità di plastica (macro e micro) e a tracciarne una mappa: parlava di oltre 268 mila tonnellate disperse in tutto, di cui 23,2 mila nel Mare Nostrum.

Zuppa sintetica

Ma come si è creata questa zuppa sintetica? La risposta sta nelle caratteristiche dei polimeri di cui sono fatte le materie plastiche, che hanno un lungo ciclo di vita e sono leggeri, facilmente trasportabili dal vento e dai fiumi. Le microplastiche sono in parte il prodotto della disgregazione chimica e fisica dei rifiuti non riciclati, e in parte sono già presenti sul mercato sotto forma micro: sono, per esempio, i granelli presenti nelle creme esfolianti e nei detersivi. Queste particelle non vengono fermate dai sistemi di filtraggio delle acque, e arrivano nei fiumi e quindi in mare. Motivo per cui nel 2015, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha chiesto di considerare la loro messa al bando all’interno dei prodotti cosmetici.
Ciò che possiamo dire con certezza ad oggi è che ne sappiamo davvero poco di questo problema: non ne conosciamo la portata, né gli effetti su larga scala, né abbiamo una soluzione, se non quella di limitare il danno, per esempio aumentando la percentuale di plastica riciclata e cercando di controllare il rilascio di reti da pesca in mare. Come ha ricordato lo scorso maggio una risoluzione dell’UNEP, sappiamo che c’è “bisogno di una risposta globale urgente".

Tutela del mare: a che punto siamo?

Nel 2008, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea hanno emanato la Strategia Marina, una direttiva quadro recepita in Italia nel 2010 che chiede agli Stati UE di raggiungere il “buono stato ambientale” entro il 2020, fissando specifici obiettivi di controllo e tutela. Per la prima volta, viene messo al centro il funzionamento degli ecosistemi marini e non soltanto le ricadute dell’inquinamento sull’essere umano. «Oggi vige una sorveglianza molto stretta e rigorosa sulla maggior parte degli inquinanti noti, come i metalli pesanti, la diossina e gli idrocarburi policiclici aromatici», sottolinea l’oceanografa Paola Del Negro. «Grazie alle nuove normative, anche l’eutrofizzazione delle acque non è più un problema così grande. Le prossime sfide riguardano gli sversamenti occasionali di petrolio grezzo che, se di modesta entità, può essere confinato e rimosso, e soprattutto l’inquinamento da farmaci e composti chimici di nuova generazione. Un altro problema di cui si parla poco è l’introduzione di nuove specie legata sia ai fenomeni di tropicalizzazione sia al grande incremento dei traffici marittimi. Per motivi di bilanciamento dei pesi, infatti, le navi possono caricare in un punto acqua di mare – con tutto quello che contiene – e rilasciarla in aree molto distanti. Manca ancora una cultura di protezione e prevenzione degli habitat marini. Si pensa che la resilienza del mare superi qualsiasi cosa, ma non è così.»

PAROLE CHIAVE

ACQUE REFLUE Acque di scarico di attività domestiche, agricole e industriali.

EUTROFIZZAZIONE Inquinamento dovuto alla presenza eccessiva di nutrienti, in particolare sali di azoto e fosforo, derivanti dagli scarichi in mare e dall’uso di fertilizzanti in agricoltura. Questi nutrienti causano un’incontrollata crescita di alghe con conseguente impoverimento di ossigeno sul fondo.

CIRCUITO OCEANICO Vasto sistema di correnti oceaniche superficiali che si muovono con movimento circolare.

RESILIENZA Capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento, cioè di tornare al suo stato iniziale dopo essere stato sottoposto a una perturbazione che lo ha modificato.

RETE TROFICA Rete alimentare.

Scheda infografica

Scheda didattica

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Un mare di plastica

di Tiziana Moriconi

 

Tiziana Moriconi: giornalista scientifica, collabora con Galileo, Le Scienze, D la Repubblica online, Wired.it.