Anche in matematica...
Certo, perché è un contesto ideale per contribuire a costruire questa competenza. Eppure difficilmente si costruiscono a scuola occasioni di discussione e di argomentazione proprio in matematica. Di conseguenza, i ragazzi raramente si assumono la responsabilità di quello che fanno, dei loro errori: alla domanda «perché hai fatto così? » (tra l’altro fatta esclusivamente quando l’allievo sbaglia, come se argomentare il perché fosse importante solo se la risposta è sbagliata), le risposte più comuni sono del tipo: «perché me l’hai detto tu», «perché me lo ha detto mio padre», «perché c’è scritto sul libro di testo». L’allievo, tutt’al più, si assume la responsabilità di aver sbagliato nell’applicare una procedura, ma non quella di aver scelto di usare una procedura invece di un’altra. D’altra parte è difficile dar torto ai nostri allievi: spesso e volentieri in matematica è richiesto loro proprio di applicare bene procedure imposte da altri (l’insegnante, il libro di testo). Dal punto di vista sociale questo delegare agli altri la responsabilità è piuttosto preoccupante all’epoca del sempre più diffuso «a mia insaputa».
Cosa succede quando chiediamo agli studenti di argomentare?
A qualsiasi età, se gli allievi non sono abituati a essere stimolati ad argomentare, le prime volte che viene loro richiesto sono perplessi, disorientati, non capiscono l’obiettivo della richiesta. Per esempio, come dicevamo, hanno difficoltà a spiegare come hanno fatto a fare una cosa.
Dobbiamo stimolarli con continuità ad argomentare, perché è solo argomentando che si impara ad argomentare: ed è un processo lento, ma continuo (i primi segnali positivi si colgono subito). Si impara per esempio a capire che l’argomentazione cambia a seconda del contesto e dell’interlocutore: se devo spiegare un concetto matematico a un bambino, a un collega, o al mio babbo, argomento in modo diverso. E questo non dipende dal fatto che parlo di matematica: ogni argomentazione è data in base al contesto.
Far argomentare in classe è importantissimo anche per dare occasione di ascoltare le argomentazioni altrui e coglierne i punti deboli e i punti forti.
Gli insegnanti di tutti i livelli scolari dovrebbero dedicare un apposito tempo all’argomentare in matematica: non è tempo perso, è tempo dedicato a una delle competenze fondamentali per la crescita dell’allievo, competenza che, se ben sviluppata, è cruciale per qualsiasi tipo di studio. Tra l’altro l’argomentare, lo spiegarsi il perché delle cose, fortifica molto anche la conoscenza degli aspetti più specifici di contenuto, che altrimenti vengono dimenticati in maniera rapida.
Però alcuni docenti evitano di proporre attività di argomentazione in ambito matematico per paura di trovarsi in difficoltà nello spiegare il perché delle procedure...
Sì, succede soprattutto a livello di scuola primaria. La mia opinione è che gli insegnanti non devono avere paura di non sapere alcune cose, e ancor meno di rispondere «non lo so» agli eventuali «perché» che dovessero emergere dagli studenti. Altrimenti finisce che hanno paura delle domande degli studenti e allora, più o meno intenzionalmente, cercano di evitare le occasioni in cui tali domande possono emergere. Non c’è niente di male in un insegnante che dica ai suoi studenti «non lo so, ma ho gli strumenti per informarmi su questo aspetto e discuterlo con voi la prossima volta». È educativamente significativo far vedere che tutti, anche l’insegnante, possono non sapere qualcosa. Tra l’altro, si evita la pericolosissima alternativa di dare in ogni caso una risposta sicura, che sicura non è, e nemmeno attendibile.
Come possiamo fare per dire «non lo so»?
Il primo lavoro importante, anche nella formazione dei futuri insegnanti, è legato alla sfera “affettiva”: dobbiamo cercare di abituare all’idea che non bisogna aver paura di ammettere di non sapere (e ancor prima non bisogna avere paura di sbagliare). Non si può chiedere agli insegnanti di sapere tutto. Se ci aspettiamo di dover sapere tutto, inevitabilmente abbiamo paura dei processi e degli errori.
A proposito di errori: come fare a gestirli?
Il primo passo è cercare di interpretarli. Il lavoro di Ferrari è molto significativo anche in questo senso, perché offre un’interpretazione delle difficoltà matematiche legata ad aspetti linguistici.
Se un allievo ha difficoltà, l’insegnante deve riuscire a interpretare le cause delle difficoltà dell’allievo. Come sottolinea Rosetta Zan [3], il punto non è tanto interpretare in maniera corretta tutte le difficoltà dei propri allievi, ma testare la propria interpretazione sui risultati dell’eventuale intervento di recupero. Se l’intervento non funziona potrebbe non essere colpa dell’allievo, ma di un’interpretazione delle cause non fondata. Allora per l’insegnante è cruciale avere un repertorio di interpretazioni sulle difficoltà in matematica. Il problema è che spesso e volentieri consideriamo un’unica interpretazione della difficoltà: «ha sbagliato, perché non ha studiato, perché non sa le cose di quel contesto. E allora io gli ripeto le cose di quel contesto». Tendiamo ad avere un’interpretazione molto locale: relativa solo al contesto in cui stiamo lavorando. Il secondo è che sono di fatto esclusi tutti gli altri tipi di interpretazione – per esempio quelli legati ai fattori affettivi o ai fattori linguistici – che invece sono spesso causa primaria di difficoltà.
Ci fa un esempio?
Prendiamo il quesito: «quale numero tra questi è più vicino a 100?», accompagnato da una serie di opzioni, tra le quali quattro numeri decimali. In una sperimentazione, molti insegnanti avevano ipotizzato che le difficoltà fossero dovute a problemi con le operazioni tra i decimali e invece abbiamo scoperto che per quasi tutti era un problema di natura “linguistica”: l’aggettivo vicino aveva fatto automaticamente escludere tutti i numeri superiori al 100. Nel linguaggio naturale, siamo vicini al traguardo prima di superarlo, non dopo! È evidente che un intervento didattico basato su esercizi sui decimali non avrebbe risolto nulla, semplicemente perché l’interpretazione alla base dell’intervento di recupero non intercettava la vera natura del problema. Come sottolinea Zan nel suo lavoro, l’interpretazione è un’ipotesi di lavoro: se funziona, bene; se non funziona, devi passare a un’ipotesi di lavoro alternativa.
Come dobbiamo gestire le nostre interpretazioni?
Dal punto di vista didattico è importante che gli insegnanti mettano in discussione le proprie interpretazioni e che le considerino ipotesi e non certezze, anche se questo è sempre meno frequente con la crescita del livello scolare, perché i docenti diventano sempre più specialisti della materia e questo accresce la convinzione di saper riconoscere le difficoltà da un punto di vista disciplinare. Invece molto spesso i problemi sono su altri aspetti, non su quelli locali; magari sono anche di contenuti, ma non necessariamente di contenuti di quel contesto. A volte il contenuto da riprendere è uno che sta dietro. Altre volte è un problema di linguaggio, oppure c’è un atteggiamento negativo o ci sono delle convinzioni errate (i cosiddetti fattori affettivi).
Concretamente come si fa ad avere un ventaglio di interpretazioni?
È molto importante conoscere gli studi e le ricerche sulle difficoltà sviluppati negli ultimi trent’anni. Una volta in possesso di più chiavi interpretative, il secondo passaggio è cercare di raccogliere elementi per scegliere quella adeguata, dotandoci di una “ipotesi di lavoro”.
Un buon metodo è proprio lavorare sull’argomentazione: spostare l’attenzione dai prodotti (i risultati) ai processi per raggiungere tali prodotti. Insomma far argomentare è fondamentale per permettere agli studenti di costruire la competenza argomentativa, ma anche per dare agli insegnanti strumenti per interpretare le difficoltà. Strumenti che la sola risposta non fornisce, anzi talvolta li mistifica: quante difficoltà si nascondono dietro a risposte corrette…