Matematica: l'importanza di argomentare

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In classe si lascia poco spazio all’argomentazione. Eppure è una competenza fondamentale per gli allievi e aiuta gli insegnanti a capire e interpretare gli errori dei ragazzi. In questa intervista, il punto di vista di Pietro di Martino, ricercatore in didattica della matematica.

Daniele Gouthier

Pietro Di Martino, da anni ricercatore in didattica della matematica all’Università di Pisa

La matematica è conto, ma è anche racconto. Il ragionamento matematico procede per formule e calcoli, ma ancora di più con l’argomentazione. E proprio del ruolo che diamo (o non diamo) all’argomentazione abbiamo parlato con Pietro Di Martino, ricercatore in didattica della matematica all’Università di Pisa (qui la sua pagina web).

Come mai insegniamo così poco ad argomentare in matematica?
L’obiettivo di insegnare ad argomentare nell’ambito dell’educazione matematica in genere è visto come secondario rispetto ad obiettivi più legati a contenuti specifici. Io la penso diversamente e, quel che è più importante, “la pensano diversamente” anche le nuove Indicazioni Nazionali, che pongono lo sviluppo della competenza argomentativa tra i traguardi fondamentali dell’educazione matematica. Di sicuro lavorare sull’argomentazione matematica è difficile. Argomentare è una competenza trasversale, che mette in gioco competenze linguistiche: ci si può dunque scontrare con difficoltà in questo ambito, amplificate dal fatto che il linguaggio matematico ha le sue peculiarità. Ci sono parole del contesto quotidiano che sono usate anche in quello matematico, ma non sempre con lo stesso significato.

Un esempio?
La parola alcuni nel linguaggio quotidiano è usata per dire «più di uno, ma non tutti». In matematica invece può significare anche uno, oppure tutti. Su un libro di matematica per la scuola primaria per introdurre “nessuno, tutti, alcuni” ho trovato uno schema dal quale emergeva con forza la difficoltà a gestire questa ambiguità tra il senso del termine alcuni nel quotidiano e il suo significato matematico. Nei tipici quesiti (secondo me molto discutibili, proprio perché giocano sul filo di questa ambiguità) che chiedono di associare frasi di significato equivalente, la presenza dell’aggettivo alcuni è garanzia di un’alta percentuale di errori.

Ok. Dobbiamo spiegare meglio i termini ambigui. Più in generale, però, come possiamo gestire l’interpretazione dei nodi linguistici critici?
Ci sono studi internazionali sugli aspetti linguistici nell’educazione matematica. Tra questi, consiglio Matematica e linguaggio (Pitagora Editrice) di Pier Luigi Ferrari [1] dell’Università del Piemonte Orientale. Ferrari parte dal principio di cooperazione di Herbert Paul Grice [2] che è basato su quattro massime:
1. da’ un contributo appropriato sotto il profilo della quantità di informazioni (massima della quantità); 
2. non dire cose che credi false o che non hai ragione per credere vere (massima della qualità);
3. da’ un contributo pertinente ad ogni stadio della comunicazione (massima della relazione);
4. esprimiti in modo chiaro, breve, ordinato (massima del modo).
Secondo Grice, in contesto quotidiano, noi facciamo un sacco di inferenze interpretative basate sulla convinzione che il principio di cooperazione sia rispettato. Ferrari osserva come il contesto matematico sia scarsamente cooperativo e come si possano trovare diversi esempi in matematica di violazione di tutte e quattro le massime. Per esempio, tutte le dimostrazioni per assurdo sono una chiara violazione della massima della qualità. E, come abbiamo visto più sopra, se dici alcuni sapendo che sono tutti – corretto dal punto di vista matematico – stai violando la massima della quantità: perché con lo stesso sforzo potevi dare più informazioni. Un’altra violazione della massima della quantità è il caso di “2 minore o uguale di 1000” che è una relazione matematica vera, ma è chiaramente inadeguata in contesto quotidiano: non diresti mai «2 minore o uguale di 1000». Il disagio provocato da questa inadeguatezza è testimoniato dai molti bambini che ti dicono «non è vero che 2 minore o uguale di 1000, 2 è minore di 1000!».

Stiamo scivolando da questioni meramente linguistiche ad altre più profonde che riguardano la capacità di esprimerci quando parliamo di matematica.
Esatto: proprio per questo al centro dell’apprendimento matematico dovrebbe esserci l’argomentare. L’argomentazione è una delle competenze centrali per la crescita della persona: una persona che sa argomentare e che sa valutare le argomentazioni altrui, è una persona più forte, meno indifesa. Voglio sottolineare due cose importanti: la prima è che ad argomentare non si nasce imparati, la seconda è che argomentare è una delle competenze sulla quale il contesto sociale di provenienza fa più la differenza. Un bambino la cui famiglia ha la possibilità e la volontà di seguirlo, lo stimola a descrivere quel che fa, gli chiede il perché delle cose, è molto avvantaggiato rispetto a chi non ha questa opportunità. Per colmare questo deficit, la scuola dovrebbe investire energie sull’argomentazione.

È solo argomentando che si impara ad argomentare

Anche in matematica...
Certo, perché è un contesto ideale per contribuire a costruire questa competenza. Eppure difficilmente si costruiscono a scuola occasioni di discussione e di argomentazione proprio in matematica. Di conseguenza, i ragazzi raramente si assumono la responsabilità di quello che fanno, dei loro errori: alla domanda «perché hai fatto così? » (tra l’altro fatta esclusivamente quando l’allievo sbaglia, come se argomentare il perché fosse importante solo se la risposta è sbagliata), le risposte più comuni sono del tipo: «perché me l’hai detto tu», «perché me lo ha detto mio padre», «perché c’è scritto sul libro di testo». L’allievo, tutt’al più, si assume la responsabilità di aver sbagliato nell’applicare una procedura, ma non quella di aver scelto di usare una procedura invece di un’altra. D’altra parte è difficile dar torto ai nostri allievi: spesso e volentieri in matematica è richiesto loro proprio di applicare bene procedure imposte da altri (l’insegnante, il libro di testo). Dal punto di vista sociale questo delegare agli altri la responsabilità è piuttosto preoccupante all’epoca del sempre più diffuso «a mia insaputa».

Cosa succede quando chiediamo agli studenti di argomentare?
A qualsiasi età, se gli allievi non sono abituati a essere stimolati ad argomentare, le prime volte che viene loro richiesto sono perplessi, disorientati, non capiscono l’obiettivo della richiesta. Per esempio, come dicevamo, hanno difficoltà a spiegare come hanno fatto a fare una cosa.
Dobbiamo stimolarli con continuità ad argomentare, perché è solo argomentando che si impara ad argomentare: ed è un processo lento, ma continuo (i primi segnali positivi si colgono subito). Si impara per esempio a capire che l’argomentazione cambia a seconda del contesto e dell’interlocutore: se devo spiegare un concetto matematico a un bambino, a un collega, o al mio babbo, argomento in modo diverso. E questo non dipende dal fatto che parlo di matematica: ogni argomentazione è data in base al contesto.
Far argomentare in classe è importantissimo anche per dare occasione di ascoltare le argomentazioni altrui e coglierne i punti deboli e i punti forti.
Gli insegnanti di tutti i livelli scolari dovrebbero dedicare un apposito tempo all’argomentare in matematica: non è tempo perso, è tempo dedicato a una delle competenze fondamentali per la crescita dell’allievo, competenza che, se ben sviluppata, è cruciale per qualsiasi tipo di studio. Tra l’altro l’argomentare, lo spiegarsi il perché delle cose, fortifica molto anche la conoscenza degli aspetti più specifici di contenuto, che altrimenti vengono dimenticati in maniera rapida.

Però alcuni docenti evitano di proporre attività di argomentazione in ambito matematico per paura di trovarsi in difficoltà nello spiegare il perché delle procedure...
Sì, succede soprattutto a livello di scuola primaria. La mia opinione è che gli insegnanti non devono avere paura di non sapere alcune cose, e ancor meno di rispondere «non lo so» agli eventuali «perché» che dovessero emergere dagli studenti. Altrimenti finisce che hanno paura delle domande degli studenti e allora, più o meno intenzionalmente, cercano di evitare le occasioni in cui tali domande possono emergere. Non c’è niente di male in un insegnante che dica ai suoi studenti «non lo so, ma ho gli strumenti per informarmi su questo aspetto e discuterlo con voi la prossima volta». È educativamente significativo far vedere che tutti, anche l’insegnante, possono non sapere qualcosa. Tra l’altro, si evita la pericolosissima alternativa di dare in ogni caso una risposta sicura, che sicura non è, e nemmeno attendibile.

Come possiamo fare per dire «non lo so»?
Il primo lavoro importante, anche nella formazione dei futuri insegnanti, è legato alla sfera “affettiva”: dobbiamo cercare di abituare all’idea che non bisogna aver paura di ammettere di non sapere (e ancor prima non bisogna avere paura di sbagliare). Non si può chiedere agli insegnanti di sapere tutto. Se ci aspettiamo di dover sapere tutto, inevitabilmente abbiamo paura dei processi e degli errori.

A proposito di errori: come fare a gestirli?
Il primo passo è cercare di interpretarli. Il lavoro di Ferrari è molto significativo anche in questo senso, perché offre un’interpretazione delle difficoltà matematiche legata ad aspetti linguistici.
Se un allievo ha difficoltà, l’insegnante deve riuscire a interpretare le cause delle difficoltà dell’allievo. Come sottolinea Rosetta Zan [3], il punto non è tanto interpretare in maniera corretta tutte le difficoltà dei propri allievi, ma testare la propria interpretazione sui risultati dell’eventuale intervento di recupero. Se l’intervento non funziona potrebbe non essere colpa dell’allievo, ma di un’interpretazione delle cause non fondata. Allora per l’insegnante è cruciale avere un repertorio di interpretazioni sulle difficoltà in matematica. Il problema è che spesso e volentieri consideriamo un’unica interpretazione della difficoltà: «ha sbagliato, perché non ha studiato, perché non sa le cose di quel contesto. E allora io gli ripeto le cose di quel contesto». Tendiamo ad avere un’interpretazione molto locale: relativa solo al contesto in cui stiamo lavorando. Il secondo è che sono di fatto esclusi tutti gli altri tipi di interpretazione – per esempio quelli legati ai fattori affettivi o ai fattori linguistici – che invece sono spesso causa primaria di difficoltà.

Ci fa un esempio?
Prendiamo il quesito: «quale numero tra questi è più vicino a 100?», accompagnato da una serie di opzioni, tra le quali quattro numeri decimali. In una sperimentazione, molti insegnanti avevano ipotizzato che le difficoltà fossero dovute a problemi con le operazioni tra i decimali e invece abbiamo scoperto che per quasi tutti era un problema di natura “linguistica”: l’aggettivo vicino aveva fatto automaticamente escludere tutti i numeri superiori al 100. Nel linguaggio naturale, siamo vicini al traguardo prima di superarlo, non dopo! È evidente che un intervento didattico basato su esercizi sui decimali non avrebbe risolto nulla, semplicemente perché l’interpretazione alla base dell’intervento di recupero non intercettava la vera natura del problema. Come sottolinea Zan nel suo lavoro, l’interpretazione è un’ipotesi di lavoro: se funziona, bene; se non funziona, devi passare a un’ipotesi di lavoro alternativa.

Come dobbiamo gestire le nostre interpretazioni?
Dal punto di vista didattico è importante che gli insegnanti mettano in discussione le proprie interpretazioni e che le considerino ipotesi e non certezze, anche se questo è sempre meno frequente con la crescita del livello scolare, perché i docenti diventano sempre più specialisti della materia e questo accresce la convinzione di saper riconoscere le difficoltà da un punto di vista disciplinare. Invece molto spesso i problemi sono su altri aspetti, non su quelli locali; magari sono anche di contenuti, ma non necessariamente di contenuti di quel contesto. A volte il contenuto da riprendere è uno che sta dietro. Altre volte è un problema di linguaggio, oppure c’è un atteggiamento negativo o ci sono delle convinzioni errate (i cosiddetti fattori affettivi).

Concretamente come si fa ad avere un ventaglio di interpretazioni?
È molto importante conoscere gli studi e le ricerche sulle difficoltà sviluppati negli ultimi trent’anni. Una volta in possesso di più chiavi interpretative, il secondo passaggio è cercare di raccogliere elementi per scegliere quella adeguata, dotandoci di una “ipotesi di lavoro”.
Un buon metodo è proprio lavorare sull’argomentazione: spostare l’attenzione dai prodotti (i risultati) ai processi per raggiungere tali prodotti. Insomma far argomentare è fondamentale per permettere agli studenti di costruire la competenza argomentativa, ma anche per dare agli insegnanti strumenti per interpretare le difficoltà. Strumenti che la sola risposta non fornisce, anzi talvolta li mistifica: quante difficoltà si nascondono dietro a risposte corrette…

Qual è il principale ostacolo nello spostare l’attenzione dai prodotti ai processi?
La convinzione che “non c’è tempo”. Come se il tempo dedicato a lavorare sul processo non fosse tempo ben speso (lavorando su uno degli obiettivi cruciali dell’educazione matematica). Tempo che permette di recuperarne altro, proprio perché aiuta l’insegnante a fare interpretazioni più adeguate sulle eventuali difficoltà e quindi intervenire in maniera più mirata ed efficace.
Il fatto che di solito in matematica non si chieda di descrivere, giustificare, spiegare il processo è in un certo senso confermato dal fatto che quando chiediamo ad un allievo «perché hai fatto così? », la tipica reazione è che l’allievo non spiega il perché, ma cambia risposta! D’altra parte siamo abituati a chiedere «perché? » solo a chi fornisce una risposta scorretta: l’attenzione è sul prodotto non sul processo. Il “perché?” non è una dimostrazione di attenzione al processo da parte dell’insegnante, ma è un avvertimento di errore e, coerentemente con questo, l’allievo cambia risposta.
Se invece spostiamo davvero l’attenzione dal prodotto al processo, chiediamo il perché a tutti, perché ci interessa come hanno fatto più ancora del “risultato” e dunque ne discutiamo con loro, non limitandoci ad annuire o a censurare. Così facendo otteniamo anche di depotenziare la tensione sugli errori.

Gli errori: a volte mi viene da pensare che abbiamo paura degli errori. O che, se non altro, ci disturbino. È così?
Certo, gli errori disturbano in primis noi adulti. Si dice sempre «sbagliando si impara», però poi bastoniamo gli studenti quando sbagliano e cerchiamo di dare esercizi in cui “il rischio di errore” sia limitato (per usare un eufemismo). La ragione principale è che abbiamo paura noi dell’errore dell’allievo. Ci disturba, ci infastidisce!
Un’altra “prova”, come mi ha fatto osservare Rosetta Zan, è il fatto che quando introduciamo un argomento (lo facciamo anche all’università!) spesso mettiamo in guardia dagli errori tipici. Se ci pensiamo bene, questo modo di procedere non ha alcun senso. Dal punto di vista didattico, se sono errori tipici, vuol dire che toccano nodi critici sui quali è bene che gli allievi caschino e ne discutano tra loro e con noi. Cosa vuol dire mettere in guardia dagli errori tipici? Vuol dire «guardate che se sbagliate mi date noia». Non ha nessun altro senso. Se non li facciamo sbagliare e sappiamo che lì c’è un nodo concettuale, un punto in cui quasi tutti sbagliano, non gli lasciamo affrontare la difficoltà che quindi rimarrà sotto il tappeto. E a posteriori sarà molto più ardua da affrontare.
La paura che gli adulti hanno degli errori in matematica ha conseguenze disastrose: da una parte passa agli allievi, dall’altra condiziona le scelte didattiche degli insegnanti, portandoli a evitare le attività in cui l’errore e le difficoltà si possono affrontare: proprio le attività che insegnano qualcosa di significativo. Chiudiamo il cerchio: una di queste attività significative è richiedere di argomentare. Molti dicono che «sono troppo difficili». Ebbene, proponiamole ai nostri studenti e lasciamo loro la possibilità di avere difficoltà, di sbagliare e di imparare proprio con la forte motivazione di superare le difficoltà.

BIBLIOGRAFIA

  • [1] P.L. Ferrari, Matematica e linguaggio, Pitagora Editrice,Bologna 2004.
  • [2] H.P. Grice, Logica e conversazione, Il Mulino, Bologna 1993.
  • [3] R. Zan, Difficoltà in matematica. Osservare, interpretare, intervenire, Springer, Milano 2007.

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Daniele Gouthier: è un matematico e uno scrittore di scienza. Insegna al Master in Comunicazione della Scienza alla Sissa di Trieste e al Diploma accademico in Disegno Industriale all’Isia di Pordenone. È autore del libro di testo Il bello della matematica (Pearson Bruno Mondadori, 2014).