Piccoli fossili marini per studiare il clima che cambia

Scogliere di Dover formate da resti di nannofossili calcarei e gusci di foraminiferi

ATTUALITÀ PER LA CLASSE | Biologia, Scienze della Terra

Si chiamano coccolitoforidi, sono piccolissime alghe molto abbondanti negli oceani, anche nelle loro forme fossili. E proprio dallo studio di queste forme – i cosiddetti nannofossili calcarei - si ottengono informazioni fondamentali sul clima del passato e sulla sua evoluzione attuale.

Katia Carbonara e Valentina Murelli

Avete presente le bianche scogliere di Dover, nel Regno Unito? Immense e abbaglianti pareti di roccia affacciate sul Canale della Manica e, nelle belle giornate, visibili fin dalla Francia. Sembra incredibile, ma alla base di tanta maestosità ci sono anche alcune delle creature fossili più minuscole della Terra, i cosiddetti nannofossili calcarei. Parliamo di resti fossili di piccolissime alghe fotosintetiche unicellulari, dal diametro compreso tra 2 e 35 micrometri (μm) e appartenenti all’ordine dei Coccolitophorales e, nel complesso, al fitoplancton, cioè l’insieme di organismi autotrofi fotosintetizzanti presenti nel plancton. I loro discendenti, i coccolitoforidi, popolano ancora oggi gli oceani, svolgendo un ruolo importante nei cicli dello zolfo e del carbonio. Il bello delle forme fossili, però, è che oltre a regalarci paesaggi spettacolari ci permettono di effettuare incursioni nel lontano passato della Terra, alla scoperta del clima di centinaia di milioni di anni fa.

Immagine in falsi colori al microscopio elettronico a scansione di Gephyrocapsa oceanica, con i coccoliti in evidenza

Identikit di un’alga con scudo

Caratteristica principale dei coccolitoforidi è quella di produrre, in varie fasi del loro ciclo vitale, i cosiddetti coccoliti: placchette calcaree di dimensioni ridotte (siamo nell’ordine dei micron) che funzionano come scudi scheletrici esterni, che nel complesso – in genere ce ne sono da 10 a 30, incastrati tra loro ad avvolgere completamente o parzialmente la cellula – formano una coccosfera di forma subsferica o ellissoidale. Sono proprio questi coccoliti che, dopo la morte della cellula che ricoprono, si separano uno dall’altro per depositarsi sul fondo del mare, dove fossilizzano. A lungo andare, possono anche formare successioni di rocce di notevole spessore, come appunto le scogliere di Dover. I coccoliti possono attraversare una colonna d’acqua di 5000 metri raggiungendo il fondo del mare in soli 22-100 giorni: questo assicura una certa corrispondenza tra le specie viventi che popolano gli strati superiori della colonna d’acqua e quelli che si depositano sul fondo. Significa che, conoscendo proprietà e caratteristiche – per esempio, le condizioni di salinità e temperatura in cui prosperano – delle specie di oggi, posso avere informazioni anche su quelle di ieri: un punto importante per lo studio del clima del passato.

L’odore del mare

Per quanto possa sembrare incredibile, i minuscoli coccolitoforidi sono anche responsabili di una delle sensazioni che più ci colpiscono quando facciamo una passeggiata in riva al mare o una gita in barca: il caratteristico “odore del mare”. Queste alghe, infatti, producono nel loro metabolismo un composto dello zolfo che, successivamente alla loro morte, viene convertito da alcuni batteri che si cibano dei resti delle alghe stesse in dimetilsolfuro (DMS), composto al quale si deve il tipico profumo di salsedine (per alcuni, più banalmente, “puzza di alghe”). E ancora, i coccolitoforidi rappresentano una fonte a breve termine di CO2 atmosferica, attraverso il processo di calcificazione (il processo di creazione di gusci calcarei a partire da ioni calcio e ioni idrogenocarbonato, con liberazione di acqua e diossido di carbonio). Inoltre, sono responsabili della rimozione della CO2 dall’atmosfera attraverso la fotosintesi. Insomma, partecipano attivamente allo scambio sia di CO2 sia di DMS tra l’acqua del mare e l’atmosfera.

Indicatori del clima di ieri

Come abbiamo detto, i resti fossili dei coccolitoforidi possono raccontarci molto del clima del passato: attraverso il loro studio, possiamo risalire a informazioni utili per descrivere il clima di decine, centinaia o milioni di anni fa. Addirittura, i nannofossili calcarei ci permettono di ricostruire il clima caratteristico di determinate aree della Terra ben 200 milioni di anni fa!
Il punto è che, per usare un termine tecnico, sono utilissimi proxies o indicatori, in grado di darci informazioni su temperatura, precipitazioni, salinità e altri parametri ambientali del passato. In particolare, ogni specie mostra preferenze ecologiche ben specifiche e distinte da quelle delle altre specie. Per esempio, un parametro assolutamente fondamentale per la sopravvivenza e l’accrescimento delle varie specie è la temperatura: ci sono forme che prediligono condizioni più fredde e altre che invece preferiscono condizioni più calde. Così, in base all’abbondanza relativa delle varie forme presenti in un dato campione di sedimenti marini – a preferenza calda o fredda – si riesce a capire com’era il clima nel momento in cui quei sedimenti hanno cominciato a formarsi, se tendenzialmente più caldo o più freddo. Detto altrimenti, poiché risentono dei cambiamenti dei parametri chimico-fisici delle masse d’acqua in cui vivono, i nannofossili calcarei ci permettono di interpretare variazioni paleoclimatiche e paleoceanografiche di varie zone.
Tra l’altro, molte caratteristiche generali fanno dei nannofossili calcarei degli ottimi proxies ambientali: per esempio, l’ampia diffusione geografica e la rapida evoluzione nel tempo, li rendono utilissimi strumenti di datazione. E ancora, la grande abbondanza nei sedimenti marini, che ne assicura la reperibilità, e le ridotte dimensioni, fanno sì che basti poco sedimento per poterli studiare bene.

Vista dallo spazio su fioriture di fitoplancton, in particolare di coccolitoforidi, nel Mar Baltico

Al lavoro!

Ma come si fa, concretamente, a studiare questi nannofossili? Ovviamente, per prima cosa bisogna andare a raccoglierli, e lo si fa con navi oceanografiche ben attrezzate con dispositivi per perforare (o carotare) il fondale marino. Una volta prelevate le “carote” di sedimento, che sono generalmente costituite di fango, queste sono tagliate a metà e campionate. Significa che vengono raccolti campioni di fango di quantità fissa, conservati in semplici buste di plastica con etichette che riportano tutte le informazioni utili per risalire all’identikit del campione stesso (dove è stato prelevato, a quale profondità, a quale carota appartiene e così via).
Il resto del lavoro avviene in laboratorio: il fango di ogni campione viene strisciato su un vetrino e osservato al microscopio ottico a elevato ingrandimento, oppure al microscopio elettronico. A questo punto, si procede al conteggio di almeno 500 fossili per campione, compilando schede apposite che riportano i nomi delle specie e le relative abbondanze. Infine, questi dati sono inseriti in software che permettono di interpretare il clima presente all’epoca di formazione del sedimento raccolto (che intanto altri ricercatori, con varie tecniche, si sono occupati di datare).
Nel mio laboratorio, per esempio, abbiamo studiato campioni raccolti nel mare Artico, al largo delle isole Svalbard, scoprendo che circa 15 000 anni fa è iniziata una fase di riscaldamento, punteggiata però da alcuni periodi di freddo di grande importanza per la definizione del clima globale.

Dal clima di ieri a quello di oggi

A questo punto, però, la domanda sorge spontanea: ma perché ci interessa tanto sapere se 20 000 o, peggio, 200 milioni di anni fa, facesse caldo o freddo? In realtà, tutte queste informazioni non sono mai fini a se stesse, ma ci aiutano a capire come sta evolvendo oggi – e come evolverà domani – il clima sul nostro pianeta. Sappiamo bene che per fare questo tipo di “previsioni” occorrono modelli matematici molto accurati. Per costruire un modello, però, servono in prima battuta dei dati reali: solo sapendo come sono andate le cose nel tempo e al variare delle condizioni possiamo preparare simulazioni relative al futuro. Ebbene, tutti i dati che si raccolgono con lo studio dei nannofossili calcarei sono preziosissimi in questo senso, perché contribuiscono ad arricchire quell’archivio di dati sui quali si basano i modelli climatici che utilizziamo oggi per capire a che punto è la “febbre” del pianeta.

PER APPROFONDIRE

Scheda didattica

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Piccoli fossili marini per studiare il clima che cambia

di Katia Carbonara e Valentina Murelli

Katia Carbonara: 27 anni, pugliese. Si è laureata in Scienze Naturali a Bari e sta svolgendo un Dottorato di ricerca in Scienze della Terra a Parma. Analizza “carote” di sedimento prelevate dal fondale dell’Oceano Artico durante spedizioni oceanografiche.

Valentina Murelli: è giornalista e science writer freelance.