A caccia di fossili
«Da ragazzo sull’altopiano di Asiago andavo anche io alla ricerca di fossili. Quando vivevo a Concorezzo (MB), invece, cercavo rane e girini e nel giardino della nostra villetta avevo ricreato uno stagno, con le sponde inclinate nel modo gusto, e ci studiavo i girini, affascinato dalla loro trasformazione. Quando sono arrivato qui per fare la tesi, mi hanno affidato una collezione di resti di mammiferi del Quaternario raccolti da un anziano signore di Stradella (in provincia di Pavia) che poi li aveva affidati al Museo. Ma io non mi sono accontentato di classificarli a tavolino, sono voluto andare a parlare con lui, a vedere i posti in cui li aveva trovati, per capire come fossero arrivati fino a lì, anche se così per finire la tesi ci ho impiegato due anni.»
Anni a volte anche un po’ noiosi, nel lavoro di classificazione, ma preziosi, in cui, dice, ha imparato un metodo di lavoro. Lo stesso che gli ha permesso di fare la sua prima, piccola scoperta, il giorno in cui Giovanni Pinna (proprio l’autore del suo libro di bambino, nel frattempo diventato il suo capo, come direttore del Museo) gli affidò i resti di un piccolo rettile perché lo “preparasse” per la conservazione aggiungendo, come se lo dicesse un po’ per caso, che di quel rettile non si conosceva la classificazione e, magari, poteva intanto provare lui a capirci qualcosa. In effetti, scoprì Dal Sasso, era proprio una specie sconosciuta.
Un lavoro minuzioso
Intanto, nel giacimento di Besano, vicino al lago di Lugano, dove da sempre scavano i paleontologi del museo milanese, comincia a emergere un grande ittiosauro, un rettile marino di quelli che precedettero la comparsa dei dinosauri. Del Sasso partecipa al lavoro di scavo degli undici metri quadrati del fossile che richiede un anno e mezzo per essere staccato dalla roccia e poi altri cinque anni e 16.500 ore di lavoro di preparazione per essere trasformato nel fossile che oggi si può ammirare anche in una ricostruzione tridimensionale. «Perché chi vede un fossile pensa che esca così dalla roccia, ma non è affatto vero, ovviamente, e il lavoro per renderlo visibile e pronto per essere studiato è enorme. Nel caso dell’ittiosauro abbiamo dovuto dividerlo in lastre di cinquanta centimetri di lato, che però poi si fratturavano e andavano preparate e ricomposte un pezzo alla volta.»
L’insolito arrivo di Ciro
La scoperta più importante, invece, arriva in un modo insolito. «Una sera mi telefona un collega del Museo, dicendo di essere a casa di una persona che ha voluto mostrargli un fossile singolare, un rettile, del quale lui non sa molto, perché studia altro, ma che a me potrebbe interessare.»
È così che Dal Sasso adotta Ciro, piccolo dinosauro carnivoro rimasto intrappolato nella roccia matese un giorno qualsiasi del Cretaceo, pochi giorni dopo essere nato. Un esemplare rarissimo e bellissimo, che mostra anche gli organi interni e i tessuti molli e che Dal Sasso continua davvero a curare e accudire anno dopo anno, come se lo crescesse. Una scoperta è un processo, non un momento preciso, almeno in questo caso. «In sé, la scoperta può essere un attimo, anche nel nostro campo: quello in cui trovi un fossile. Ma il paleontologo alla Indiana Jones, che passa tutta la sua vita sul campo, non esiste, o è molto difficile che esista, ci vuole tanto studio, bisogna leggere tanta letteratura, scrivere, pubblicare.»
Una tac per il fossile
Non solo. Il paleontologo, anche chiuso nel suo studio, oggi è sempre meno uno studioso solitario. Rigirarsi il fossile tra le mani, farne un calco, confrontarsi con i geologi per capire la storia del luogo in cui un animale è vissuto non è più l’unica possibilità. Anziché affidarsi alla plastilina e alla propria manualità, o a calchi che, per quanto ben fatti, mai possono restituire tutti i dettagli di un reperto e tutte le sue forme, un paleontologo può ricorrere a una Tac. Con la tomografia computerizzata una mummia o un osso di mammuth possono essere ingranditi, miniaturizzati, guardati da ogni angolazione, sezionati senza doverli toccare.
E se la tomografia anziché essere realizzata con gli strumenti ordinari in uso negli ospedali sfrutta la luce di sincrotrone, quella emessa dagli elettroni quando corrono in un acceleratore di particelle, allora diventa in grado di rivelare dettagli minimi e svelare cose che sarebbe stato impossibile vedere a occhio nudo o verificare: il punto esatto dell’inserzione di un tendine, per esempio. Il risultato della tomografia, inviato a una stampante 3D, può riprodurre anche nella resina sintetica qualunque particolare in poco tempo: una copia esatta del reperto può essere creata con poca spesa e da chiunque. Scienziati di continenti diversi possono così scambiarsi i pezzi su cui lavorare insieme, attraverso lo schermo o prendendoli in mano, senza averli mai toccati davvero.
Far parlare i resti antichi
I metodi basati sulla fluorescenza indotta da luce ultravioletta, invece, sono in grado di dire con precisione la composizione chimica delle diverse parti di un fossile, fino a svelare la posizione di un muscolo, la forma dell’intestino. È anche grazie a questi tipi di analisi che la paleoistologia riesce a estrarre informazioni preziose, persino la dieta di un animale fossilizzato, la sua età, il sesso, sulla base degli elementi chimici contenuti nelle sue ossa. «Sono analisi sempre più sofisticate e utilissime per far dire di più ai resti di cui disponiamo. Perché alla fine, anche se io non credo nella possibilità di clonare un giorno qualche animale estinto partendo dai pochi frammenti di Dna dei quali disponiamo, il nostro lavoro può essere descritto così: rendere i fossili sempre meno animali pietrificati e sempre più animali vivi.»