Dalla "Grande bellezza" al "Bello dell’italiano": due libri dai destini incrociati
APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI - SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO
Il triennio 2011-2014 mi ha visto impegnato nella realizzazione di due libri: un manuale dedicato all’analisi e alla descrizione della lingua e dello stile delle opere dei nostri grandi trecentisti (Dante, Petrarca e Boccaccio) e una grammatica italiana destinata al biennio della scuola secondaria di secondo grado. Il primo libro è nato come impresa solitaria, mentre il secondo è il frutto di un lavoro a sei mani: quelle di Luca Serianni, quelle di Valeria Della Valle e le mie..
I due testi, diversissimi per contenuto, destinazione e finalità, sono curiosamente vicini nel titolo, che è La grande bellezza dell’italiano. Dante, Petrarca, Boccaccio (Patota 2015) nel caso del manuale universitario e Il bello dell’italiano (Serianni, Della Valle, Patota 2015) nel caso del libro di grammatica.
Chi legge stenterà a credere che i due titoli abbiano avuto una genesi distinta e separata, eppure è proprio così: mentre il primo titolo è una mia idea, il secondo è nato da una proposta degli editor della Pearson, che nulla sapevano del primo; una proposta che Della Valle, Serianni e io abbiamo apprezzato ed accolto con piacere.
La combinazione è curiosa, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’associazione fra la categoria estetica della bellezza (o, se si preferisce, del bello) e una qualsivoglia lingua è teoricamente inaccettabile: le lingue, in sé, non sono né belle né brutte, quali che siano i criteri assunti per descriverle; sono, e basta. Sul piano storico, però, il collegamento fra la lingua italiana e la bellezza è alla base di una vulgata che ricorre da molto tempo fra le persone colte di tutto il mondo e che, almeno a partire dal XVIII secolo, è diventata «una certezza di massa da “Guide bleu”» (De Mauro 2008: 277). Ne hanno dato e continuano a darne ampia testimonianza gli stranieri, intellettuali e non, che dal Rinascimento in poi hanno di volta in volta qualificato l’italiano come armonioso, delicato, dolce, elegante, fluido, gentile, gradevole, grazioso, liscio, melodico, piacevole, seducente; per non dire del protagonista delle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull di Thomas Mann, il quale, interrogato da un direttore d’albergo in merito alla sua conoscenza dell’italiano, risponde all’interlocutore in questo modo: «Ma Signore, che cosa mi domanda? Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. Ho bisogno soltanto d’aprire la mia bocca e involontariamente diventa il fonte di tutta l’armonia di quest’idioma celeste. Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli del cielo parlano italiano» (Stammerjohann 2013: 269-270).
«Gli angeli nel cielo parlano italiano», afferma il personaggio di Mann. In effetti, nell’Inferno della Divina Commedia (il primo capolavoro della nostra tradizione linguistica), la parola bellezza non s’incontra mai. I diavoli accolgono in sé tutto il suo contrario. Quello che arriva nella bolgia dei barattieri portando con sé un nuovo dannato è nero e feroce; sulla sua spalla, magra e sporgente, spiccano ali da pipistrello (Inf. XXI 29-36 e XXXIV 49). I suoi compari hanno nomi sgradevoli, da Malebranche (Inf. XXI 37) a Graffiacane (Inf. XXI 122), passando per Scarmiglione e Draghignazzo (Inf. XXI 105 e 121), e comunicano in una lingua che degrada fino al rumore osceno («ed elli avea del cul fatto trombetta», Inf. XXI 139). Lucifero, nel fondo dell’inferno, è qualificato esplicitamente come brutto (Inf. XXXIII 34).
La bellezza comincia a farsi vedere soltanto nel Purgatorio (in cui la parola che la indica ricorre quattro volte), per poi manifestarsi apertamente nel Paradiso (ben sette volte).
Prima che nella Commedia, Dante aveva usato la parola bellezza nella giovanile Vita nova: in sei occasioni, e sempre per riferirsi all’amata Beatrice. Il regno della bellezza, però, non è né nella Vita nova né nella Commedia. È, invece, nel Convivio, in cui il termine ricorre per ben trenta volte (Onder 1970). E in otto dei trenta casi in cui compare, la parola non è associata a un individuo, all’aspetto fisico o spirituale di una donna, né a Dio o alla sua opera, ma a una lingua: segnatamente, a quello che Dante chiama il volgare del sì e che noi, col senno e la terminologia di poi, chiamiamo l’italiano.