Questa analogia fra i due canti, sulla base delle parole significative che vengono ripetute, è sottolineata da diversi commentatori (in particolare da Freccero): Dante ormai può procedere senza quegli ostacoli che gli avevano sbarrato il cammino. Da qui inizierà un altro viaggio e sarà pronto per salire al paradiso terrestre e poi per i cieli del paradiso. Oltre alle analogie sono però importanti anche le differenze: la selva antica altro non è che il giardino dell’Eden che Adamo, con il peccato originale, ha reso selva oscura. Eppure è solo da qui, da questa condizione di oscurità e di peccato, che l’uomo può iniziare il suo cammino.
Il confronto con Agostino
Anche Agostino parla metaforicamente, a proposito della propria vita passata immersa nel peccato, come di una «immensa selva, piena di insidie e di pericoli» (Confessioni, X, 35). La difficoltà insita nel processo di conversione è indicata anche da un altro passaggio agostiniano che presenta molte analogie con la situazione di stallo del prologo dantesco:
Altro è vedere da una cima selvosa la patria della pace e non trovare la strada per giungervi, frustrarsi in tentativi per plaghe sperdute, sotto gli assalti e gli agguati dei disertori fuggiaschi guidati dal loro capo, leone e dragone insieme; e altro tenere la via che vi porta, presidiata dalla solerzia dell’Imperatore celeste.
(Confessioni, VII, 21; trad. it. Carlo Carena)
Agostino individua due ostacoli per il suo viaggio verso la montagna nelle fiere dei Salmi, il leone e il drago; Dante vi preferisce le tre fiere del libro di Geremia (leone, lupo, leopardo, Ger 5,4-6), che il profeta dichiara nemiche di tutti i peccatori di Gerusalemme. Il catalogo di analogie tra Dante e Agostino potrebbe continuare; ma qui basti aver rilevato alcuni elementi significativi tra i due testi.
Il gran diserto
Ritorniamo ora alla scena descritta da Dante. Il poeta si ritrova nella selva spaventato e smarrito; vede la luce sulla cima del colle e cerca di salirvi, percorrendo una piaggia diserta ma il suo cammino è bloccato quasi al cominciar dell’erta dalle tre fiere. Notiamo che la piaggia diserta (v. 29) diventa il gran diserto (v. 64), immagine che, più che avere funzioni descrittive, ha valenze allegoriche e morali: il deserto è l’animo del peccatore che ancora non ha raggiunto la purificazione piena. Appena prima però di parlare di questo deserto, leggiamo un’importante similitudine: quella che sovrappone all’immagine del pellegrino quella del naufrago scampato al mare in burrasca. Mare e deserto: ossia due immagini che ricordano da vicino gli ostacoli che il popolo di Israele ha dovuto superare per uscire dall’Egitto e arrivare alla terra promessa, Gerusalemme. Ora, la meta di Dante-pellegrino è proprio la Gerusalemme celeste e, in questo senso, il suo percorso si delinea come una nuova raffigurazione dell’uscita dall’Egitto del popolo di Dio. Per ogni commentatore medievale, l’immagine del mare e quella del deserto rappresentano proprio due degli stadi dell’esodo del popolo ebraico. Secondo i commentatori medievali, inoltre, l’esodo di Israele è duplice: il primo è l’uscita dal paese d’Egitto; il secondo è l’uscita dal deserto. Dante ha ben presente queste interpretazioni esegetiche del testo biblico e applica perciò alla propria esperienza di pellegrino l’exemplum dell’esodo. Naturalmente, tutto si svolge a livello allegorico e metaforico, per cui l’Egitto cui si sta implicitamente paragonando l’esperienza dantesca è uno stato della mente e dell’animo, non ovviamente un riferimento geografico. Ma è un esodo che, almeno per ora, a Dante non riesce, o almeno gli riesce solo in parte: esce dalla selva ma non esce dal diserto, giacché incontra le tre fiere che gli sbarrano il cammino.
Il confronto con Riccardo di San Vittore
Cosa c’è dunque in questo “deserto”? Ecco come viene spiegata questa immagine simbolica da Riccardo di San Vittore, autore noto a Dante:
Uscendo dalle tenebre dell’Egitto [selva oscura], dagli errori del mondo ai luoghi più segreti del cuore, tu non scopri nient’altro che una zona di terrore [paura] e di solitudine immensa. Questa è quella terra deserta [piaggia diserta], arida e inattraversabile [impediva tanto il mio cammino], in altre parole a lungo trascurata dalla coscienza [pien di sonno], completamente incolta [selvaggia], ricoperta di spine e rovi [aspra] e piena di cose ripugnanti [forte].
(Riccardo di San Vittore, De exterminatione mali et promotione beni, I, V; PL, 196, 1076; trad. mia)
Ho provato a inserire tra parentesi quadre le tessere lessicali della scena del prologo dantesco che risultino concettualmente affini al testo di Riccardo. Non importa che vi sia una sovrapponibilità totale fra i due testi; ciò che importa e che i due brani si muovano nel medesimo campo semantico e che abbiano espressioni simili, quando non addirittura concettualmente coincidenti. Anche questo confronto prova che ci troviamo nel medesimo ambito culturale e nella trattazione dello stesso tema della conversione, alla cui base sta la medesima figura scritturale dell’esodo: l’uscita di Israele dall’Egitto e poi dal deserto è l’emblema figurale nel quale si rispecchia l’“uscita” dantesca dal mondo del peccato. Nel deserto l’animo dell’uomo incontra però gli ostacoli dei vizi e delle passioni, che vediamo figurati nelle tre fiere che sbarrano il cammino. Prima di raggiungere il monte sarà necessario purificarsi, ma Dante potrà farlo solo alla conclusione della seconda cantica, quando “tornerà” a questo monte e sarà degno di salirvi. Sarà dunque necessario recedere e cominciare un altro viaggio, quello della discesa nell’inferno e nell’umiltà per purgare le proprie passioni ed essere ammesso alla visio Dei.