La selva e il monte. La scena del prologo della «Divina Commedia»

La selva e il monte. La scena del prologo della «Divina Commedia»

APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI - SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO

All’inizio di ogni anno scolastico si ripresenta l’occasione di proporre la lettura della Divina Commedia a nuovi studenti. Un’avventura affascinante, come sottolineava Italo Calvino in uno dei passaggi più celebri del suo libro Perché leggere i classici: «Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli».

Paolo Senna

Un’oscurità proverbiale

È dunque un’avventura affascinante, ma anche impegnativa. Ogni volta che ci troviamo di fronte alla lettura di un testo decisamente complesso come la Divina Commedia, molti passaggi ci risultano di ardua comprensione, e non a caso sono spesso definiti “oscuri” dagli stessi critici. Questa “oscurità”, spesso divenuta proverbiale, è un dato di fatto inevitabile per il lettore e, ancora di più, per lo studente che si trova a leggere per la prima volta uno dei canti dell’opera. La Divina Commedia, come ogni grande opera letteraria, ha infatti bisogno di più letture per essere compresa; e comunque qualcosa sfugge sempre. Questo perché, da un lato, bisogna tener presente che i passi che leggiamo non sono porzioni di testo a sé stanti, ma fanno parte di un tutto, ed è dunque necessario inquadrare il canto che stiamo affrontando nel contesto dell’intero poema; dall’altro lato, è anche necessario inquadrare il poema stesso nel contesto della tradizione cui esso appartiene, che è una tradizione medievale, filosofica e profondamente cristiana.

Organicità e complessità del pensiero dantesco

In un libro uscito qualche anno fa, il critico americano John Freccero ha offerto un’interpretazione suggestiva della scena del prologo. In queste righe vorrei provare a esporre uno snodo concettuale della scena iniziale del canto I dell’Inferno sulla scia del commento di Freccero, alla luce di alcuni riferimenti scritturali ed esegetici, così da mostrare sia la complessità sia l’organicità del pensiero dantesco all’interno della sua cultura – che è fatalmente differente dalla nostra. Per approfondire il tema, rimando (in allegato) a una serie di studi che, chi vorrà, potrà a sua volta recuperare e leggere.

In ogni grande opera letteraria la geometria ha la sua importanza. Le opere letterarie oltre che di contenuti sono fatte anche di strutture, ossia delle varie opzioni formali con cui il poeta sceglie di disporre la materia di cui tratta. Sono così in generale di grande importanza le parti iniziali, finali e centrali di un’opera: si tratta di momenti “forti” che saltano immediatamente alla vista del lettore e in cui l’autore, oltre a elementi contenutistici, immette anche dati programmatici, cioè una serie di messaggi, di chiavi, per far comprendere al meglio la sua opera, o per far emergere temi particolarmente significativi. È per questo motivo che il I canto dell’Inferno non costituisce solo e semplicemente il prologo della prima cantica, ma è lo è di tutto il poema, e in esso Dante ha inteso definire la situazione di stallo dell’uomo di fronte al peccato e il suo desiderio di riscatto. E lo ha fatto utilizzando gli elementi e i concetti della tradizione che gli apparteneva, appunto quella filosofica e cristiana.

Come sappiamo, Dante non ci parla in modo diretto, ma lo fa per immagini, utilizzando figure come la similitudine, la metafora, l’allegoria che, anzi, costituisce la forza propulsiva dell’intero poema. Accanto a essa, però, un altro strumento letterario che l’autore impiega e dissemina copiosamente lungo tutta l’opera è il rimando a testi preesistenti, e dunque il riferimento preciso a passi e ai concetti culturali che più sentiva vicini e pertinenti al proprio discorso.

La scena del prologo

La Commedia inizia, s’è detto, con una situazione di stallo: il personaggio-Dante si “ritrova” in una selva oscura e, fuggendola, si incammina verso il colle, ma il suo viaggio è subito frenato dalle tre fiere. Soffermiamoci per ora sull’immagine della selva e del colle, ma prima dobbiamo fare un breve passo indietro. Fin dal primo verso compare prepotentemente la figura dell’io (mi ritrovai). Ora, secondo la convenzione scrittoria del Medioevo, non era consentito a qualsiasi autore parlare di sé, a meno che la propria esperienza non potesse rivestire un qualche valore universale. Come dire che l’io può ergersi a protagonista solo se ha valore per la nostra vita, cioè per l’esperienza vitale di tutti gli uomini. Dante è ben consapevole di questa prassi (ne fa riferimento in Convivio, I, II, 12-14) e, se parla di sé, lo fa perché mira ad attribuire alla sua opera valore di exemplum. Così facendo, egli si ricollega a un illustre precedente, ossia alle Confessioni di sant’Agostino testo capitale della tradizione occidentale, nel quale il santo ripercorre le tappe della propria esistenza, narrandole in un discorso ininterrotto rivolto a Dio, in modo da dare vita, appunto, a una “confessione”. Gli elementi in comune tra i due testi sono molteplici: entrambi parlano di una conversione come di un viaggio necessario; entrambi, inoltre, ne parlano in termini di lotta e di fatica; e entrambi fanno riferimento a essa come a un processo lungo e laborioso. La conversione non è infatti un atto istantaneo, una folgorazione che consente di cambiare vita in modo immediato, quanto piuttosto un duraturo e faticoso processo di umiltà, attuabile solo con un altro viaggio, che nella Commedia è rappresentato dalla discesa all’inferno. Per questo motivo Dante non riesce subito a scalare il monte, anche se lo vede (guardai in alto): nella scena iniziale, appena uscito dalla selva, Dante sa dove deve arrivare ma non sa come arrivarci. Scalerà il monte solo nel Purgatorio, quando cioè sarà già avviato il processo di conversione. E infatti un confronto tra i versi di Inferno I e di Purgatorio XXVIII è illuminante:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

[...]

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai

[...]

Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta

Inf. I, 1-2, 10, 31

Già m’avevan trasportato i lenti passi

dentro a la selva antica tanto, ch’io

non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi;

ed ecco più andar mi tolse un rio,

 

 

Purg. XXVIII, 22-25

Questa analogia fra i due canti, sulla base delle parole significative che vengono ripetute, è sottolineata da diversi commentatori (in particolare da Freccero): Dante ormai può procedere senza quegli ostacoli che gli avevano sbarrato il cammino. Da qui inizierà un altro viaggio e sarà pronto per salire al paradiso terrestre e poi per i cieli del paradiso. Oltre alle analogie sono però importanti anche le differenze: la selva antica altro non è che il giardino dell’Eden che Adamo, con il peccato originale, ha reso selva oscura. Eppure è solo da qui, da questa condizione di oscurità e di peccato, che l’uomo può iniziare il suo cammino.

Il confronto con Agostino

Anche Agostino parla metaforicamente, a proposito della propria vita passata immersa nel peccato, come di una «immensa selva, piena di insidie e di pericoli» (Confessioni, X, 35). La difficoltà insita nel processo di conversione è indicata anche da un altro passaggio agostiniano che presenta molte analogie con la situazione di stallo del prologo dantesco:

Altro è vedere da una cima selvosa la patria della pace e non trovare la strada per giungervi, frustrarsi in tentativi per plaghe sperdute, sotto gli assalti e gli agguati dei disertori fuggiaschi guidati dal loro capo, leone e dragone insieme; e altro tenere la via che vi porta, presidiata dalla solerzia dell’Imperatore celeste.

(Confessioni, VII, 21; trad. it. Carlo Carena)

Agostino individua due ostacoli per il suo viaggio verso la montagna nelle fiere dei Salmi, il leone e il drago; Dante vi preferisce le tre fiere del libro di Geremia (leone, lupo, leopardo, Ger 5,4-6), che il profeta dichiara nemiche di tutti i peccatori di Gerusalemme. Il catalogo di analogie tra Dante e Agostino potrebbe continuare; ma qui basti aver rilevato alcuni elementi significativi tra i due testi.

Il gran diserto

Ritorniamo ora alla scena descritta da Dante. Il poeta si ritrova nella selva spaventato e smarrito; vede la luce sulla cima del colle e cerca di salirvi, percorrendo una piaggia diserta ma il suo cammino è bloccato quasi al cominciar dell’erta dalle tre fiere. Notiamo che la piaggia diserta (v. 29) diventa il gran diserto (v. 64), immagine che, più che avere funzioni descrittive, ha valenze allegoriche e morali: il deserto è l’animo del peccatore che ancora non ha raggiunto la purificazione piena. Appena prima però di parlare di questo deserto, leggiamo un’importante similitudine: quella che sovrappone all’immagine del pellegrino quella del naufrago scampato al mare in burrasca. Mare e deserto: ossia due immagini che ricordano da vicino gli ostacoli che il popolo di Israele ha dovuto superare per uscire dall’Egitto e arrivare alla terra promessa, Gerusalemme. Ora, la meta di Dante-pellegrino è proprio la Gerusalemme celeste e, in questo senso, il suo percorso si delinea come una nuova raffigurazione dell’uscita dall’Egitto del popolo di Dio. Per ogni commentatore medievale, l’immagine del mare e quella del deserto rappresentano proprio due degli stadi dell’esodo del popolo ebraico. Secondo i commentatori medievali, inoltre, l’esodo di Israele è duplice: il primo è l’uscita dal paese d’Egitto; il secondo è l’uscita dal deserto. Dante ha ben presente queste interpretazioni esegetiche del testo biblico e applica perciò alla propria esperienza di pellegrino l’exemplum dell’esodo. Naturalmente, tutto si svolge a livello allegorico e metaforico, per cui l’Egitto cui si sta implicitamente paragonando l’esperienza dantesca è uno stato della mente e dell’animo, non ovviamente un riferimento geografico. Ma è un esodo che, almeno per ora, a Dante non riesce, o almeno gli riesce solo in parte: esce dalla selva ma non esce dal diserto, giacché incontra le tre fiere che gli sbarrano il cammino.

Il confronto con Riccardo di San Vittore

Cosa c’è dunque in questo “deserto”? Ecco come viene spiegata questa immagine simbolica da Riccardo di San Vittore, autore noto a Dante:

Uscendo dalle tenebre dell’Egitto [selva oscura], dagli errori del mondo ai luoghi più segreti del cuore, tu non scopri nient’altro che una zona di terrore [paura] e di solitudine immensa. Questa è quella terra deserta [piaggia diserta], arida e inattraversabile [impediva tanto il mio cammino], in altre parole a lungo trascurata dalla coscienza [pien di sonno], completamente incolta [selvaggia], ricoperta di spine e rovi [aspra] e piena di cose ripugnanti [forte].

(Riccardo di San Vittore, De exterminatione mali et promotione beni, I, V; PL, 196, 1076; trad. mia)

Ho provato a inserire tra parentesi quadre le tessere lessicali della scena del prologo dantesco che risultino concettualmente affini al testo di Riccardo. Non importa che vi sia una sovrapponibilità totale fra i due testi; ciò che importa e che i due brani si muovano nel medesimo campo semantico e che abbiano espressioni simili, quando non addirittura concettualmente coincidenti. Anche questo confronto prova che ci troviamo nel medesimo ambito culturale e nella trattazione dello stesso tema della conversione, alla cui base sta la medesima figura scritturale dell’esodo: l’uscita di Israele dall’Egitto e poi dal deserto è l’emblema figurale nel quale si rispecchia l’“uscita” dantesca dal mondo del peccato. Nel deserto l’animo dell’uomo incontra però gli ostacoli dei vizi e delle passioni, che vediamo figurati nelle tre fiere che sbarrano il cammino. Prima di raggiungere il monte sarà necessario purificarsi, ma Dante potrà farlo solo alla conclusione della seconda cantica, quando “tornerà” a questo monte e sarà degno di salirvi. Sarà dunque necessario recedere e cominciare un altro viaggio, quello della discesa nell’inferno e nell’umiltà per purgare le proprie passioni ed essere ammesso alla visio Dei.

 

Paolo Senna: svolge mansioni di selector librarian presso la biblioteca dell’Università Cattolica di Milano. È autore di diversi articoli di argomento letterario usciti su rivista («Testo», «Rivista di Letteratura italiana», «Otto/Novecento») e su quotidiani («Avvenire», «Il Sole 24Ore»). È coautore delle antologie scolastiche per il primo biennio della scuola secondaria di secondo grado Anni da leggere e Ingresso libero, Edizioni Archimede.