A proposito di questa seconda possibilità, che prevede Manzoni in quarta e Leopardi in quinta, si potrebbero sviluppare svariate riflessioni, lontane dagli intendimenti specifici di questo intervento. Quantomeno però, tale disposizione delle Indicazioni nazionali non deve determinare, per un processo di eterogenesi dei fini, quello che sarebbe un evidente errore di prospettiva, ossia quello di pensare a un Manzoni “autore che conclude un’epoca” a fronte di un Leopardi “autore che ne apre un’altra”, quasi proiettando l’uno solo verso “il prima” e l’altro verso “il dopo”: in tal modo, infatti, da un lato si misconoscerebbe il legame di Manzoni con il romanzo italiano successivo, legame che, invece, è molto profondo; dall’altro, si rischierebbe sia di ignorare le fitte implicazioni di Leopardi con la tradizione letteraria precedente sia di ridimensionare la distanza che separa il più grande poeta del nostro Ottocento dalla tradizione lirica successiva, influenzata in modo determinante, anche se non esclusivo, dalla stagione simbolista (Baudelaire, ma soprattutto Rimbaud e Mallarmé), la quale semmai, se proprio dovessimo parlare di genealogie, si riallaccia piuttosto a quella tradizione romantica alla quale Leopardi idealmente decise di non appartenere. Da questo punto di vista, invece, Leopardi e Manzoni si trovano sullo stesso piano: entrambi sono importanti per il solido legame con la tradizione precedente (non solo italiana, ma europea) e per la loro sintesi innovativa, sia pure giocata su generi letterari diversi, in ragione della quale diventeranno modelli per gli autori successivi.
Due “convertiti” di segno opposto
Manzoni e Leopardi. Diversissimi, senz'altro. Il primo, nato a Milano, città degli illuministi e crocevia dell’Europa, trascorre la sua infanzia in diversi collegi religiosi, che lo renderanno giacobino e anticlericale come nessuna famiglia giacobina e anticlericale avrebbe potuto mai. Tuttavia, insieme alla moglie Enrichetta Blondel, maturerà la personale conversione al cattolicesimo.
Leopardi cresce a Recanati, piccola città dello Stato pontificio, in una famiglia fortemente reazionaria. L’ambiente oppressivo determina in Leopardi un allontanamento sempre più deciso dai dogmi della Chiesa cattolica, dalla tradizione, nel rifiuto di qualsiasi vincolo costringente, contro qualsiasi mito della modernità.
Così ha inizio la letteratura italiana dell’epoca contemporanea, con questi due scrittori “convertiti” di segno opposto, ha scritto Rolando Damiani, posseduti dall’ombra di un’identità rimossa. L’inevitabile, persistente confronto con questa “identità” determinerà intransigenza morale, finezza di pensiero, desiderio inesauribile di libertà.
Se si dovesse scegliere quale aspetto li differenzia maggiormente, dovremmo individuarlo in una maggiore o minore disposizione personale a una sintesi concettuale conclusiva, in grado di raccogliere le diverse antitesi di cui si compone la loro riflessione teorica e la loro pratica letteraria. Cosa si intende dire? Partiamo da alcune considerazioni svolte in modo indipendente da due studiosi: Pier Vincenzo Mengaldo e Pierantonio Frare. Se il primo ha asserito che il pensiero, filosofico e poetico, di Leopardi ama svolgersi per opposizioni binarie senza sintesi o Aufhebungen (antichi contro moderni, natura contro ragione, individuo contro società ecc.), il secondo, invece, ha dichiarato che «il pensare e lo scrivere manzoniano partono spesso da una formulazione dualistica calata in uno stampo antitetico», ma tale «opposizione linguistica e concettuale di partenza si trasforma», nelle opere di Manzoni, «in un rapporto dialettico nel quale le due operazioni si arricchiscono reciprocamente, collaborando […] al conseguimento di un livello più alto di unità e di verità». Ci permettiamo di ipotizzare che tale diversa disposizione dei due autori sia legata innanzitutto a una diversa concezione del vero: per Leopardi il vero non è mai qualcosa di “positivo” per l’uomo, non è bello, non è il bene per l’uomo. La “negatività” del vero è un tratto costante della sua riflessione, fino alla Ginestra, in cui il vero viene di certo capito, perseguito, accolto, pur rimanendo però qualcosa di profondamente ostile (l’assoluta marginalità dell’uomo nell’universo e l’avversione della natura nei suoi riguardi). In Manzoni invece il vero, il «santo Vero», è bello, il vero è bene. Ciò non vuol dire che non sia possibile individuare elementi contraddittori nella scrittura manzoniana, ma riconoscere che, comunque sia, essa tende ad altro, ossia alla faticosa composizione delle antitesi, scrive Frare, in un «livello più alto di unità e di verità».
L'incontro a Firenze
Manzoni e Leopardi si conobbero a Firenze lunedì 3 settembre 1827, presso il Palazzo Buondelmonti, sede allora del gabinetto di Giovanni Battista Vieusseux: fu lui a organizzare una serata di accoglienza dedicata a Manzoni, invitando alcuni tra i maggiori letterati dell’epoca, come Giovanni Battista Niccolini, lo stesso Leopardi e il suo amico-mentore Pietro Giordani. Leopardi rimase favorevolmente colpito, definendo Manzoni, in una lettera dell’8 settembre 1827, un «uomo pieno di amabilità e degno della sua fama» e, in una lettera del 25 febbraio 1828, «un uomo veramente amabile e rispettabile».
Questo celebre incontro venne in seguito mitizzato, al punto che Terenzio Mamiani lo descrive come una sorta di Teano tra classicismo e romanticismo: «Fu come il bacio di pace e di fratellanza che si diedero, in faccia all’avvenire, la scuola classica e la romantica». In realtà, nel 1827 Manzoni era già un letterato di fama europea, mentre Leopardi no, non godeva affatto di una simile estimazione. Se è vero poi che Leopardi e Manzoni presero posizione nella querelle classicisti-romantici su fronti opposti, è pur vero che non avrebbe senso oggi contrapporre un Leopardi classicista a un Manzoni romantico: la loro statura intellettuale rende qualsiasi etichetta inadeguata.
Legami intertestuali
Da questo incontro non nacque alcuna relazione amicale, eppure sappiamo che i due si lessero a vicenda. Per quanto riguarda Leopardi, abbiamo dati precisi: da un suo elenco di letture desumiamo che nel novembre 1827 lesse I promessi sposi, dei quali parla in una lettera ad Antonio Papadopoli: il romanzo gli piace assai – afferma –, nonostante «molti difetti», e lo reputa «opera di un grande ingegno». Nell’aprile del ’28, invece, Leopardi annota di aver letto il Cinque maggio e gli Inni sacri. Bisogna fare attenzione alla data, poiché nello stesso mese viene composto uno dei testi più belli della letteratura italiana, ossia A Silvia, che rappresenta il ritorno di Leopardi alla poesia, da anni impegnato nella stesura delle Operette morali, pubblicate nel ’27, proprio lo stesso anno dei Promessi sposi (due libri diversissimi, per forma e per contenuti). Nell’aprile del ’28, prima di scrivere A Silvia, Leopardi compone un testo singolare, un unicum all’interno dei Canti, ossia Il risorgimento, ricco di allusioni-citazioni manzoniane (soprattutto verso il Cinque maggio e il secondo coro dell’Adelchi).
Il Manzoni autore dei Promessi sposi è avvertibile, invece, in alcuni dei cosiddetti canti pisano-recanatesi, come A Silvia, La quiete dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio. Questo legame riguarda sia i contenuti (la vita dimessa di un borgo e le figure umili dei popolani) sia la forma (lessico impiegato, strutture sintattiche), che avvicina questi componimenti alla prosa (con le necessarie differenze, s’intende, giacché, nella concezione classicistica di Leopardi, la poesia deve essere distinta dalla prosa). Questi componimenti rappresentano un rinnovamento decisivo nella storia della poesia italiana, facilmente avvertibile allorché si confronti lo stile di Leopardi con quello di Parini o di Foscolo. Ovviamente, non si può sostenere, come faceva De Sanctis, che questo cambiamento interno all’opera di Leopardi sia stato determinato dalla lettura di Manzoni, ma non si può neppure escludere del tutto una qualche possibile influenza.
Un esempio
Tra i numerosi esempi di tale rapporto intertestuale proponiamo, in estrema sintesi, la lettura in sinossi di tre testi: il Canto notturno e La ginestra di Leopardi e l’inno sacro incompiuto Ognissanti di Manzoni, risalente al 1847 (anno significativo, poiché nel ’45 viene pubblicata per la prima volta La ginestra).
Ai vv. 25-28 del testo religioso manzoniano il poeta si rivolge a coloro che hanno raggiunto la santità dopo un lungo cammino di conversione:
E voi che un gran tempo per ciechi
sentier di lusinghe funeste
correndo all’abisso, cadeste
in grembo a un’immensa pietà.
In questo passo vi sono allusioni al Canto notturno, ma si rovescia l’esito della corsa tragica del «vecchierel bianco, infermo», destinata, in Leopardi, alla caduta nell’«abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando il tutto obblia» (35-36).
Si vedano anche i versi 17-24 dell’incompiuto inno sacro manzoniano:
A Quello [a Dio] domanda, o sdegnoso,
perché sull’inospite piagge,
al tremito d’aure selvagge,
fa sorgere il tacito fior,
che spiega davanti a Lui solo
la pompa del pinto suo velo,
che spande ai deserti del cielo
gli olezzi del calice, e muor.
Vi sono alcune spie testuali che sembrano rimandare alla Ginestra: «tuoi cespi solitari intorno spargi, / odorata ginestra, / contenta dei deserti» (vv. 5-7) e «di dolcissimo odor mandi un profumo / che il deserto consola» (vv. 36-37). Il fiore di Ognissanti appare dunque come una risposta alla Ginestra, o meglio un tentativo di risposta, senza alcuna contrapposizione polemica: l’io poetico di Ognissanti, infatti, invita il suo interlocutore, lo «sdegnoso» del verso 17, a rivolgere a Dio la sua domanda relativa al senso di un fiore, che ha l’unico merito di spandere «ai deserti del cielo» il suo dolce profumo, prima di morire.
Un dialogo a distanza
Ma i legami e i riferimenti testuali non finiscono qui: nel Canto notturno e nella Ginestra una lettura attenta può ravvisare allusioni a testi manzoniani precedenti. Per esempio, il passo del Canto notturno citato prima, quello in cui si parla dell’«abisso orrido immenso, / ov’ei precipitando il tutto obblia», riecheggia un passo dell’Adelchi di Manzoni: «All’orlo estremo della vita, al punto / in cui tutto s’obblia» (IV,1, v. 52). Mentre nel canto dedicato al fiore del Vesuvio leggiamo «E tu, lenta ginestra […], piegherai […] il tuo capo innocente» (vv. 297-306), dove sembra essere alluso un passo del Conte di Carmagnola, in cui si parla di Matilde, figlia del condottiero: «E tu, tenero fior […] tu chini il capo» (V, 5, vv. 299-301).
Prende forma, dunque, una sorta di dialogo a distanza, attraverso la poesia. L’opera letteraria abbandona la sua dimensione monologica per attivare una polifonia testuale in cui diverse voci poetiche si sommano in armonie e dissonanze. D’altronde, in un passo luminoso della lettera a Monsieur Chauvet, Manzoni aveva scritto che «nel mondo morale, come nel mondo fisico, ogni esistenza confina con altre, si complica con altre esistenze».