«Pianger ti conven per altra spada» (Purgatorio, XXX-XXXI)
Lecturae Dantis
APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI - SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO
Dio abbia pietà di chi si colloca tra i puri, per prendere le distanze dai peccatori. Dante, come condizione per poter accedere al paradiso, cioè alla verità e al bene, si mette davanti tutta la propria capacità di male. Perciò è come se rappresentasse il terribile dramma di ogni istante, in cui l’uomo è chiamato a giocare la sua libertà, e in ogni istante è come se mettesse sul piatto della bilancia tutta la sua vita, tutta la sua storia, tutto il suo destino.
Contestualizziamo i canti. Siamo nel paradiso terrestre, dove tutto è musica e luce, anticipo del paradiso; questi cinque canti finali sono tutti occupati da un unico grande avvenimento, all’interno del quale si svolge l’evento dell’incontro di Dante con Beatrice e della confessione di Dante. La cornice in cui l’incontro avviene è una processione molto complessa, che prende spunto dall’abitudine che i medioevali avevano di rappresentare la storia della salvezza in gesti liturgici, parateatrali; così, Dante immagina di assistere nel paradiso terrestre a una sorta di sacra rappresentazione, di grande drammatizzazione dell’intera storia della salvezza, dalla Genesi all’Apocalisse. In questa processione Dante vede sfilare prima tutti i libri dell’Antico Testamento, poi un carro d’oro, pieno di luce.
Dentro a questa scenografia, al cuore stesso della storia della salvezza, si colloca l’incontro tra Dante e la sua donna: quella donna nell’incontro con la quale lui aveva fatto l’esperienza di una vita nuova – Vita nova –, perché in lei in qualche modo si era fatto incontro al suo sguardo, alla sua libertà, alla sua ragione, Cristo stesso: in questi canti si capisce che Beatrice ha una funzione cristologica.
Ultima osservazione introduttiva: il XXXI del Purgatorio è pieno di riferimenti al V dell’Inferno, il canto di Paolo e Francesca. C’è un impressionante parallelo tra la confessione di Francesca davanti a Dante e la confessione di Dante davanti a Beatrice. Il tema è identico: può l’amore, che è la legge della vita, l’attrattiva che Dio ha messo nelle cose, e in modo specialissimo nel rapporto tra l’uomo e la donna, perderci? Può l’amore salvarci? Che dinamica si mette in moto? Che cosa succede al mio cuore, alla mia ragione, alla mia libertà, quando il Mistero di Dio mi chiama a sé introducendo nella vita una misteriosa attrattiva? E uno si trova davanti a due possibilità, quella di Paolo davanti a Francesca e quella di Dante davanti a Beatrice. Questo è il tema. […]
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e d’intorno,
‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’
La formula testuale del Sanctus che si canta durante la Messa è «Benedictus qui venit», la formula con cui la folla saluta Gesù all’ingresso in Gerusalemme: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21, 9 etc.). Ma qui Dante fa una cosa incredibile. Sta parlando di Beatrice, il canto degli angeli è l’annuncio che sta per apparire Beatrice; per questo Dante cambia dalla terza persona alla seconda e fa dire agli angeli «qui venis», cioè benedetto tu che vieni. Ma sta per arrivare Beatrice, una donna: la cosa più logica sarebbe che dicesse «Benedicta qui venis», benedetta tu che stai arrivando. E invece Dante lascia il maschile, così che siamo costretti a capire che sta arrivando Gesù, «benedictus», che si riveste della carne di quella ragazza, della sua donna, della donna a cui vuole bene: Gesù che veste la carne della Chiesa, della comunità cristiana, dei tuoi amici, dei tuoi maestri; veste la carne dell’uomo.
Dante per tutta la vita ha sentito questo miracolo possibile. È partito proprio da questa folgorante intuizione: forse l’amore che provo per questa ragazza, l’attrattiva che questa ragazza ha posto nella mia vita è strada al Destino, forse lei è la Sua presenza. Tutta la Divina Commedia è la fedeltà di un uomo a questa intuizione. È la risposta, cinquecento anni prima, alla grande, disperata domanda di Leopardi. «Te viatrice [e l’assonanza viatrice/Beatrice certamente è pensata, consapevolmente voluta da Leopardi] in questo arido suolo / io mi pensai. Ma non è cosa in terra / che ti somigli» [G. Leopardi, Alla sua donna]. Viatrice, compagna di strada, compagna di casa, da poterci mangiare insieme, da poterci fare l’amore.
«Benedictus qui venis»: sta per arrivare, sta per presentarsi colei che aveva suscitato in lui questo desiderio e questa intuizione.
Passiamo all’inizio del grande dialogo tra Dante e Beatrice.
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada.»
Dante sente questa voce che lo chiama, unica volta in tutta la Commedia in cui compare il suo nome: perché adesso, perché qui? Finora per dir di sé stesso ha sempre usato delle perifrasi, altri appellativi; perché proprio qui vien fuori col suo nome? Perché finalmente è capace di rispondere alla domanda «Chi sei?»; perché questo avviene solo in un incontro. Viene in mente Maria di Magdala, che vede Gesù risorto ma pensa che sia il giardiniere, e lui la chiama per nome; e quando lei si sente chiamata per nome riconosce Lui e sé stessa: è in un rapporto, sempre in un rapporto, mai nella solitudine dei propri pensieri, che si chiarisce la propria identità, la propria statura umana, il proprio volto. È sempre in un rapporto, cioè davanti a un “tu”, che uno riesce a dire “io”.
La donna, la sua donna che gli è apparsa, lo chiama per nome, gli dà un volto, gli ridà un nome e un volto. Adesso, in questo punto, necessariamente qui («di necessità qui si registra», dice subito dopo), adesso che è compiuto il cammino di purificazione, ritorna finalmente a esser sé stesso. E subito Beatrice, dopo averlo chiamato per nome, lo chiama a guardare sé stesso fino in fondo. “Dante, lascia stare. Va bene, soffri perché gli volevi tanto bene; ma adesso ti renderai conto di qual è l’unica vera ragione di dolore”: non la scomparsa di Virgilio, non la morte di una persona amata, non la morte fisica; ma la lontananza dal vero, la distrazione. Distrazione, cioè essere dis-tratti, tirati via, portati via, tra-viati, tirati via dal proprio destino: la dimenticanza di sé, della propria natura e del proprio desiderio, questo merita tutto il tuo dolore. «Pianger ti conven per altra spada», per un’altra ferita. […]
Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Non avevo animo di parlare, ero così confuso che ho provato a tirar fuori la voce ma non è uscita, non riuscivo a proferir parola, «la voce si mosse» ma si è spenta prima che «da li organi suoi», dalla gola e dalla bocca, potesse uscire.
Poco sofferse [ha avuto poca pazienza, mi ha sopportato una frazione di secondo in quello stato lì]
poi disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l’acqua offense».
A che cosa stai pensando? Cosa stai lì a pensarci su? Rispondi! Visto che, siccome non hai ancora bevuto l’acqua che permette di dimenticare tutto il male commesso, te lo ricordi benissimo, adesso lo dici. Lo dici perché, come dice l’abate nel Miguel Mañara, «è necessario che il nero della confessione coli dalla bocca come vomito nauseante. Il pentimento non è niente se dal cuore non risale fino ai denti e non allaga con la sua amarezza le labbra» [O. Milosz, Miguel Mañara, trad. it. di F. Nembrini et al., Centocanti, Bergamo 2014, pag.197]. Ma la cosa incredibile viene adesso. «Disse: “Che pense?”» è un’immagine così forte, così chiara, che a uno viene l’eco. Quel «Che pense?» lo conoscevo già, l’avevo già sentito. Dove? Nel canto V dell’Inferno. Lì, dopo che Francesca ha raccontato il suo dramma, Dante rimane impietrito, abbassa la testa; Virgilio allora prende la parola e gli chiede: «Che pense?».
Mettiamo a confronto i due episodi:
Inferno, canto V:
«Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’ io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».
Purgatorio, canto XXXI:
«Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l’acqua offense».
«Spense», «offense», «che pense»: le stesse rime (e non ci sono solo le rime, il XXXI del Purgatorio è zeppo di citazioni del V dell’Inferno)! Dante sta dicendo: “Quando avrete finito questo canto, andate a rileggere il V dell’Inferno e finalmente capirete. Allora non avete capito, adesso potrete capire: la mia confessione vi farà capire la loro. Andate a rileggerlo e saprete perché sono all’inferno, capirete che cosa veramente li ha perduti”. Tra l’altro si può giocare anche coi numeri: i versi di questa rima nel XXXI sono l’8, il 10, il 12; nel V sono al 107, al 109, al 111. Facciamo le somme: sette e uno otto; nove e uno dieci; undici e uno dodici. Otto, dieci, dodici: se non è una citazione questa! […]
Ond’ ella a me: «Per entro i mie’ disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s’aspiri,
quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?
Ma Beatrice lo incalza: attraverso di me, amando me, seguendo me tu dovevi camminare verso il bene, verso l’essere, perché la nostalgia di me era nostalgia di Dio, era desiderio di Colui oltre il quale non si può desiderar nulla, “di là dal quale non c’è cosa a cui si possa aspirare”, perché è tutto. Dunque quali fossi ti hanno attraversato la strada o quali catene ti hanno trattenuto perché dovessi perdere in questo modo la speranza di poter continuare verso il bene? Che cosa ti ha reso disperato? Ecco intanto i richiami, espliciti, al canto di Paolo e Francesca: «sospiri», «disiri»:
«al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
Al lettore il piacere di trovare gli altri riferimenti. […]
«Piangendo dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ‘l vostro viso si nascose».
«Piangendo dissi» (ricordate Francesca? «Dirò come colui che piange e dice»): quando il tuo viso nella morte si è come nascosto, le cose presenti – cioè a portata di mano, dei sensi – col loro falso piacere, con la loro falsa attrattiva, hanno spostato la direzione dei miei passi. Ricordate Paolo e Francesca, «quanto disio / menò costoro al doloroso passo!»? È un citare continuamente l’altro canto, per dire che entrambi sono stati di fronte allo stesso dramma. Però guardate che rovesciamento: Francesca e Paolo hanno la felicità alle spalle; Francesca piange sulla felicità perduta, «nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria». Si sono lasciati la felicità alle spalle e piangono disperatamente, perché il male ha vinto e sono all’inferno. Dante al contrario: davanti al bene, davanti a Beatrice pur rampognante, pur irosa, piange di dolore sul male passato. È un rovesciamento! Si può stare davanti al proprio male di oggi tutti nostalgici: com’era bello, come è stato vero; ma oggi non è vero più nulla, sono tutte frottole, tutte illusioni. E si può stare invece davanti a un bene così grande che si sente tutto il male passato con dolore acuto ma pieno di un’infinita misericordia. Perdonare il male in forza di un bene presente, o negare il bene in forza di un male presente: paradiso e inferno. Si può stare in questi due modi nella vita, nelle cose, nei rapporti.
Qual è la differenza? Che Dante è come se potesse dire: mi sono fidato di chi mi è venuto a prendere. Da solo non sarei stato meglio di loro, ma mi sono fidato di chi è venuto a prendermi, di chi è venuto a dirmi «a te convien tener altro vïaggio». Da soli, gli uomini sono tutti incapaci di uscire dalla selva oscura della propria debolezza; la differenza sta tutta tra chi riconosce che ha bisogno di affidarsi alla guida di un altro, alla compagnia di un amico che indica un’altra strada, e chi decide di restare attaccato alla propria misura. [...]
Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ‘n terra sparte;
e se ‘l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?
Mai ti era capitato nella natura o nell’arte che un piacere («mi prese del costui piacer sì forte», sempre Paolo e Francesca) ti attirasse «quanto le belle membra in ch’io / rinchiusa fui», quanto il bel corpo in cui io abitavo, e che adesso è concime; cioè, tu hai provato un’attrattiva per me come non l’avevi provata mai per niente e per nessuno. Ma se il «sommo piacer» – così chiamerà nel canto XXXIII del Paradiso Dio – ti si è sottratto quando sono venuta meno io, che di quel piacere fra tutte le cose che avevi visto ero il segno più chiaro, come hai fatto a pensare che cose meno belle, meno decisive di me, potessero darti quel sommo bene che desideravi?
Ben ti dovevi, per lo primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non hai usato la testa (ha fatto come i lussuriosi, «che la ragion sommettono al talento»); se avessi usato la testa avresti dovuto fare un ragionamento ben diverso: se neanche Beatrice, la cosa che più ho amato in tutta la mia vita, è stata capace di compiermi, vuol dire che nulla su questa terra compie il cuore dell’uomo. Per questo sono morta: perché ti fosse chiaro che ciò che corrisponde al desiderio del cuore non è nemmeno la cosa più bella che ti possa capitare di incontrare. Hai ricevuto questo colpo tremendo, a trent’anni è morta la donna di cui sei perdutamente innamorato. Ma quando uno riceve una botta così che cosa fa? Va a ripiegarsi e a dire che allora la felicità è mangiare e bere? Tu, ricevuto «lo primo strale», la prima freccia nel cuore, avresti dovuto alzare lo sguardo. «Di retro a me che non era più tale», dietro a me che non ero più io, tu dovevi tirar su la testa, venirmi dietro, capire ed evitare che «cose fallaci», cose destinate a perire, ti ferissero di nuovo. […]
«Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav’ io; ed ella disse: «Quando
per udir se’ dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando».
Dante è rimasto lì come un bambino preso con le mani nella marmellata, tutto vergognoso, con la testa bassa, pentito; ma Beatrice non ha ancora finito, affonda il colpo ancora: «Quando /per udir se’ dolente», quando ascolti qualcosa che ti ferisce, guardami, tira su la testa, «alza la barba, / e prenderai più doglia riguardando», e guardandomi in faccia proverai più dolore. Che è vero: perché sfuggiamo lo sguardo di chi ci corregge? Perché ci addolora, ci fa star male! Allora lei, implacabile: “Su la testa! Guardami negli occhi”.
Con men di resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,
ch’io non levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l’argomento.
Fa meno fatica il vento a sradicare una quercia («robusto cerro») di quanta ne feci io a sollevare la testa. Anche perché «quando per la barba il viso chiese», quando per indicare “viso” ha detto “barba”, «ben conobbi il velen de l’argomento», ho capito bene perché ha scelto questa espressione: hai la barba! Mica hai dieci anni! Mi voleva proprio accusare di immaturità, di essere stato un bambino (nel senso negativo del termine, naturalmente, non in quello evangelico), di non aver usato la testa.
E come la mia faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon l’occhio comprese;
e le mie luci, ancor poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
ch’è sola una persona in due nature.
Appena ho tirato su la testa ho visto «quelle prime creature», cioè gli angeli (le prime creature che Dio ha fatto, prima del mondo), «posarsi», smettere di buttare in giro i fiori; e i miei occhi, ancora poco sicuri, guardando Beatrice l’hanno vista girata verso la fiera «ch’è sola una persona in due nature», verso il grifone, cioè Cristo. Beatrice ha gli occhi fissi su Cristo.
Sotto ‘l suo velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l’altre qui, quand’ ella c’era.
E, anche se era ancora ricoperta dal velo e lontana, oltre il fiume, mi è sembrata così bella, ma così bella, che superava di gran lunga la bellezza di quando era sulla terra, più ancora di quanto da viva – che era già una bella distanza – superasse in bellezza tutte le altre donne.
Di penter sì mi punse ivi l’ortica
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.
E a questo punto mi è venuto un dolore così acuto – come quando uno si punge con le ortiche – per il mio male, un desiderio così acuto di pentimento, che finalmente ho sentito nemici tutti quei falsi beni, tanto più nemici quanto più mi avevano distolto da lei.
Tanta riconoscenza il cor mi morse,
ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.
Mi ha preso tanto dolore per il mio male che caddi svenuto. «E quale allora femmi, / salsi colei che la cagion mi porse»: e che cos’ero diventato lo sa lei, che mi ha causato questo. E torna subito alla mente l’altra volta che Dante è svenuto, davanti a Paolo e Francesca, «e caddi come corpo morto cade». Due volte nella Commedia Dante sviene (c’è un terzo svenimento, in realtà, al momento dell’attraversamento dell’Acheronte, ma quella è una finzione poetica, è un trucco per evitare di passare il fiume sulla barca come gli altri dannati; qui invece è esistenziale): davanti al traviamento dell’amore tra Paolo e Francesca e davanti al traviamento del proprio. In tutti e due i casi un dolore, una pietà, prima per gli altri, ora per sé stesso; quello non perdonabile, questo perdonato: due modi di vivere.
La grande confessione è finita, la grande accusa di Beatrice e il doloroso riconoscimento da parte di Dante del proprio male si sono compiuti, sono culminati con lo svenimento di Dante, che ora è «puro e disposto a salire a le stelle».