Quel certo non so che della creatività

Quel certo non so che della creatività

APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI - SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO

Il lessico di ogni lingua è abitato, fra le altre, da alcune parole speciali. Sono parole come amore, come spirito e anima, come poesia, come eleganza: parole di cui, ogni volta che esce un vocabolario nuovo, io vado subito a controllare le definizioni. Lo faccio perché immagino siano le più difficili da stilare...

Stefano Bartezzaghi

Alcune definizioni possono essere anche molto tecniche e settoriali, come per esempio nel jazz la parola swing o la parola jazz stessa. Che cos’è lo swing? È ciò che caratterizza la musica jazz. Che cos’è il jazz? È la musica con lo swing. Non sono mai, però, parole «difficili», come invece «dodecafonia», «endecasillabo», «organolettico». Al contrario, sono spesso fra le parole più diffuse e note di una lingua e quando le impieghiamo abbiamo sempre la certezza, o almeno l’impressione, di intenderci. Ma se ci si chiede di dare loro una definizione chiara e univoca ci paralizziamo. Succede perché ognuna di esse è il nome che diamo a «un certo non so che». Anche la creatività è «un certo non so che».

Trovare una definizione

Qualunque essere umano è anche un semiologo, qualunque parlante è anche un linguista. Tutti sono capaci di produrre e interpretare segni e parole e ognuno ha una propria idea di come funzionino i linguaggi che adopera e in cui è immerso. Chi studia però linguistica e semiotica impara a dare rigore a questa sua competenza istintiva, dove il rigore consiste appunto nell’uso sorvegliato e condiviso con gli altri studiosi di una terminologia tecnica.

Così quando ho ricevuto le prime proposte di occuparmi della «creatività» la prima preoccupazione è stata quella di trovare una definizione soddisfacente per un termine che a partire da metà degli anni settanta avevo sentito usare con frequenza rilevante. C’era «l’ala creativa» del Movimento studentesco del 1977 e c’erano i «creativi» in pubblicità; c’era l’avanguardia jazzistica della «Creative Music» e c’era la «creatività» di cui parlavano Bruno Munari e Gianni Rodari. Nel decennio successivo la «creatività» italiana diventò la virtù che permetteva il successo del «made in Italy» nel mondo, come un’inimitabile miscela di genio applicato e arte di arrangiarsi. Poi sarebbero venute la cucina creativa, le scuole di creative writing, sino alla «finanza creativa», in cui l’aggettivo prende una piega ironica, se non spregiativa, pur conservando un’indubbia carica di simpatia.

«Creatività» è infatti un vocabolo simpatico, dà soddisfazione quando lo si usa. Ma a cosa si riferisce? È la capacità di produrre cose nuove? Sì, certo, è qualcosa del genere. Ma noi definiamo creativo anche chi non ha fatto nulla di precisamente nuovo, ma ha saputo trarre il meglio dagli elementi che aveva a disposizione. Per esempio, ha pochi ingredienti in dispensa e in frigorifero, e riesce a cucinare qualcosa di buono. E di aporie così se ne possono trovare molte.

Se prendete uno dei numerosi manuali che parlano di creatività noterete che sin dalle prime righe sta scritto: «Pretendere di definire a parole la creatività è inutile. Quando c’è, la si vede, ma sfugge a ogni definizione». E dunque, di cosa stiamo parlando?

Le origini del termine

Sulle origini del termine «creatività» e sui suoi usi si è diffusa qualche cortina fumogena, che ne amplifica l’aura mitologica, ma è possibile accertare che il termine sia stato sostanzialmente coniato da Joy Paul Guilford, nel 1950, quando usò la parola, allora un neologismo, come titolo della prolusione al convegno dell’associazione degli psicologi americani (da lui presieduta). L’idea centrale era che le impetuose innovazioni tecnologiche della prima metà del Novecento avevano mostrato come non sia il solo «talento» a sovrintendere alla capacità di produrre idee originali. Il talento è una qualità innata e individuale. La creatività è una qualità sempre innata, ma non caratterizza l’individuo, bensì la specie. Non tutti gli individui la posseggono in egual misura, e non tutti gli individui sono disposti ad attivare le proprie possibilità creative.

Due anni dopo Guilford, nel 1952, il letterato Brewster Ghiselin ha intitolato The Creative Process un’antologia di testi da lui riuniti, tradotti dove necessario, e a volte adattati, che nel loro assieme mostravano il carattere intrinsecamente interdisciplinare del concetto di creatività. L’antologia si apre, provocatoriamente, con un capitolo di Science et Méthode di Henri Poincaré, capitolo che nell’originale si intitolava «L’Invention Mathématique», e che Ghiselin ha tradotto come «Mathematical Creation». Seguono testi di scrittori (Valéry, Eliot), musicisti (Mozart), pittori (Van Gogh), scienziati (Einstein), filosofi (Nietzsche): l’argomento è sempre quello del modo di insorgenza delle novità, nei diversi settori. Ma certamente avere incominciato proprio dalla matematica (il campo disciplinare che sembra più lontano da afflati spirituali e dimensioni immaginative e fantastiche) ha inteso testimoniare della duttilità del concetto di «processo creativo». Gli studi successivi avrebbero parlato della creatività come di una sorta di algoritmo capace di rendere conto dei processi di innovazione in ogni settore dell’attività produttiva, intellettiva, ludica, scientifica, commerciale, comunicativa umana.

Una «mitologia»

Da subito si è parlato di forme di «pensiero divergente»: la personalità creativa pensa in modo diverso dagli altri, esce dagli schemi comuni e così elabora la soluzione che li trascende, e a volte li rompe. Dalla Gestalttheorie il pensiero della creatività mutua il concetto di insight, letteralmente «visione interna» ma spesso descritto anche come «intuizione luminosa». La metafora dello sguardo nel recente affermarsi della nozione di «vision». Non troppo lontano, la creatività è messa sotto il segno di una vasta allegoria che convoca la scintilla, il fuoco, la fiamma, la lampadina, la luce in contesti in cui la novità appare come illuminare un fondo grigio, o riscaldare e propiziare l’attività febbrile del creativo, o dare inizio a una propulsione, sul modello del motore a scoppio (ne parlo nel mio Il falò delle novità. La creatività al tempo dei cellulari intelligenti, Utet, 2013).

Si è quindi subito riscontrato quanto della creatività fosse difficile parlare se non tramite astrazioni molto impalpabili o immagini metaforiche molto vivide. Ogni definizione più precisa, proprio in termini di messa a fuoco, rende il concetto meno duttile e ne mostra le intrinseche contraddizioni.

La mia impressione è che la parola «creatività», come tutte le parole «speciali» elencate all’inizio, ricorra in troppi contesti perché possa avere un significato davvero ben determinato. Più che un concetto è una «mitologia», nel senso delle mythologies di Roland Barthes ma anche nel senso dei miti antichi. Una delle maggiori testimonianze su questi ultimi è costituita dalle Metamorfosi di Ovidio. Non pare davvero casuale che proprio l’aspetto metamorfico, trasformativo e pressoché magico caratterizzi le favole antiche, installandosi su un piano intermedio (abitato se non impersonato dalla figura dell’eroe) fra dèi e uomini.

Significa che se la parola non è antica (e non può costituire un concetto filosofico, per le aporie che scatena), è pure vero che la «creatività» è il nome odierno che diamo a quella spinta a cambiare continuamente i nostri discorsi e le nostre pratiche: una spinta che possiamo rappresentarci in modo più astratto e spiritualistico (dalle dottrine dell’ispirazione all’élan vital bergsoniano); oppure provare a farne oggetto di una dottrina come la psicologia cognitiva o di un’attività divulgativa.

La cultura di massa venera la «creatività», e ne fa un mito, perché vede in questo particolare «certo non so che» la possibilità di realizzare o prolungare un sogno. Il sogno, eternamente sfuggente, di guardare in faccia l’innominabile qualità che riguarda da vicino l’individuo ma soprattutto distingue la specie umana dagli altri animali e dal computer: la forma artificiale di intelligenza che lei stessa, la specie, ha (grazie a tale qualità) elaborato.

 

Stefano Bartezzaghi: enigmista, giornalista e saggista. Insegna Semiotica e Teorie della creatività all’Università Iulm di Milano. È consulente di diverse trasmissioni televisive e di eventi culturali. Cura per «la Repubblica» le rubriche “Lessico e nuvole” e “Lapsus”.