Siamo sempre sull'onda di quell'invenzione

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APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI

Si sente spesso parlare di analfabetismo, primario o di ritorno, e il tema viene affrontato soprattutto in un'ottica politica, sociale ed etica. Sfere importanti, certo, che non devono far dimenticare la rilevanza di una buona educazione all'uso della lingua scritta anche nella vita di ciascun individuo. È la scuola che si fa carico di questa educazione, ma come svolge o come dovrebbe svolgere questo compito? Francesco Sabatini, linguista e presidente onorario dell’Accademia della Crusca, espone qui le sue riflessioni.

di Francesco Sabatini

Ortografia e punteggiatura sono i due aspetti della lingua scritta più facilmente oggetto di culto reverenziale o di scherno. Non per nulla si usa dire, con riferimento ad abitudini di altro genere, di “metter bene i puntini sulle i” o di “non badare troppo alle virgole”. Ma l’una e l’altra posizione estrema hanno una radice comune profonda: spesso non si conosce la vera natura e la portata delle operazioni di cui si tratta.

L’educazione all’uso della lingua scritta è un capitolo fondamentale nella biografia di ogni individuo inserito nell’ambito delle civiltà complesse. Quando evochiamo il tema del più o meno diffuso analfabetismo, primario o di ritorno, lo poniamo subito e facilmente sotto una luce etico-politica, com’è giusto che sia da un punto di vista generale; ma non sempre ci rendiamo conto dell’entità di questo fenomeno per quanto riguarda l’attivazione, negli individui, dei processi sensoriali connessi all’alfabetizzazione e le modalità e il tempo necessari per il loro compimento. Proprio il richiamo ai guasti sociali conclamati, prodotti dalla scolarizzazione carente, genera facilmente una spinta a far presto, che nella pratica didattica dei primi anni di scuola si traduce in una superficialità dell’azione educativa e in un affastellamento iniziale di attività improprie. Gli indici più evidenti degli errori commessi nelle fasi iniziali dell’iter scolastico si colgono, prima ancora che nella presenza di difetti nell’ortografia e nella punteggiatura degli scritti individuali, in due fenomeni macroscopici generalizzati: il diffuso abbandono della lettura dopo l’uscita dalla scuola; la grafia aberrante di un’altissima percentuale di adulti. Per quel che concerne quest’ultimo fatto, vorremmo credere che nessuno lo ritenga un dato di scarso rilievo, superato dal fatto che, per le esigenze pratiche, ora anche in privato ci serviamo del computer. Tutto ciò rivela, invece, il permanere in molti individui di una personale distanza dal mondo della lingua scritta, di un silenzioso rifiuto della proposta di acquisto di questa seconda facoltà linguistica che fu introdotta nella vita della specie umana con l’invenzione della scrittura.

La scrittura in passato è stata un fattore di profonda innovazione…

Dietro una ordinata grafia, una padronanza sufficiente delle regole ortografiche e degli usi vari e funzionali della punteggiatura c’è, infatti, ben altro che un insieme di vecchie abitudini, screditate dal vento della libertà di espressione e superate dal progressivo avvento di sofisticati apparecchi tecnologici, che non solo aggiustano molte nostre imperfezioni, ma sono ormai capaci perfino di eliminare dall’attività scrittoria le funzioni dell’occhio e della mano, riconducendo l’operazione al puro uso della voce. Bisogna, invece, ogni tanto tornare a comprendere che l’invenzione della scrittura ha introdotto nel cammino culturale della specie umana un fattore di innovazione profonda, dal ritmo progressivamente accelerato. Un’innovazione radicale e non reversibile, sulla cui onda si collocano ancora molti eventi culturali odierni, che ci sembrano nostre creazioni; perfino quelli che sembrerebbero andare in senso contrario a quello vigente finora (vedi l’ipotesi del ritorno al mondo dell’oralità pura affidata ai potenti e variegati mezzi di comunicazione di cui disponiamo).

Al suo apparire, pur pagando un prezzo alla rinuncia dell’espressione diretta di pensieri, emozioni, volontà testimoniati dalla presenza fisica del parlante e dialogante, l’uso della lingua verbale attraverso segni “tangibili” (graphèin significava primariamente “scavare, incidere”), osservabili a lungo e disposti in uno spazio di una certa ampiezza, cominciò subito a produrre (vedi la civiltà greca) una maggiore precisione nell’uso del mezzo linguistico, un accresciuto volume di pensieri (concetti, dati) via via elaborati, anche in strutture formali più complesse. Con possibilità di conservazione e trasmissione di tutto ciò a distanza nel tempo e nello spazio. Di qui sono nate tutte le “scienze”, nel senso lato del termine e nel senso specifico del sapere ordinatamente costruito e sottoposto a verifiche (sapere critico, di più lunga durata); di qui è nato il diritto scritto; di qui la storiografia; di qui, almeno in parte, anche la matematica; di qui la scienza stessa del linguaggio. Se i primi molteplici e variamente fortunati scopritori delle strutture fonologiche delle lingue hanno saputo superare la gigantesca difficoltà di oggettivare e discriminare a orecchio i fonemi delle lingue esaminate e prodotte a voce, non c’è dubbio che proprio il risultato delle loro analisi fissato “su carta” (argilla, poi papiro, pelle ecc.) ha permesso di scoprire le intrecciate intelaiature di ciascuna lingua (fonologia, morfologia, sintassi) e quindi di scoprire l’esistenza di una grammatica della lingua, già costruita nel nostro cervello; e infine ha portato a proporne lo studio formale e pianificato per diventare esperti nella produzione di testi scritti.

Ma perché si ottengano questi risultati, occorre che la registrazione grafica della lingua orale sia accurata, non approssimativa! Sappiamo bene che la tradizione grafica di ciascuna lingua si è formata con difficoltà, attraverso oscillazioni, ridondanze, imperfezioni, pure convenzioni, che variano da lingua a lingua. Tanto che si è dovuto inventare un Alfabetico Fonetico Internazionale (AFI; in sigla in inglese IPA, International Phonetic Alphabet) per lo studio scientifico dei suoni di un gran numero di lingue. Ma dovremmo essere convinti che il lavoro compiuto nell’ambito di ciascuna tradizione linguistica rappresenta un approdo, una soglia di sicurezza da non mettere in discussione ogni mattina.

Impariamo a valorizzare la forma visiva delle parole

I due articoli di Maria G. Lo Duca e Cristiana De Santis relativi ai frequenti errori grammaticali offrono materiale abbondante per riflettere su questi temi. Ne traggo spunto per soffermarmi anch’io su un caso canonico: nella prima persona plurale del presente indicativo dei verbi con tema uscente in gn (sognare, bagnare, disegnare, …) il suono della i della desinenza -iamo viene completamente assorbito dalla nasale mediopalatale precedente e per questo motivo c’è un’antica tendenza a omettere la i nella scrittura (sognamo, bagnamo, disegnamo), tendenza non di rado appoggiata da alcuni consiglieri della didattica, che adducono anche l’opportunità di segnalare così la differenza dall’omologa forma del congiuntivo, nella quale la i dovremmo cercare di farla sentire anche nella pronuncia. Si tende, perciò, a non considerare errore la grafia dell’indicativo senza la i. Evitiamo pure di considerarlo “errore”, ma c’è un altro obiettivo da perseguire conservando la i: dobbiamo rafforzare l’abitudine a memorizzare e valorizzare la forma visiva delle parole e quindi far lavorare l’occhio a riconoscere che abbiamo davanti la desinenza della prima persona plurale indicativa di tutti i nostri verbi. Si coglie così l’importanza dell’aspetto visivo della lingua, un dato che acquista grande rilievo in molti altri frangenti: la divisione in sillabe, l’uso delle maiuscole, lo stacco dai margini del primo rigo dei capoversi, l’uso di caratteri e corpi diversi (ormai a portata di mano di ogni scrivente proprio grazie agli strumenti tecnologici di cui ci serviamo) e l’impostazione grafica complessiva del testo che produciamo e componiamo.

La tecnologia: in tutti questi casi, così come nel campo delle devianze ortografiche, viene in nostro soccorso automaticamente e al tempo stesso ci arreca danno
. Perché il problema non sta solo nell’avere a tutti i costi, alla fine, un testo pulito e ordinato, ma nel diventare capaci di ottenere questo risultato con il consapevole comportamento delle nostre facoltà legate al nostro corpo, cervello compreso. E parlando di cervello, non possiamo dimenticare l’esteso e intenso rapporto che esso intrattiene con l’uso delle mani, che, insieme con gli occhi, sono fin dall’origine i nostri organi coinvolti direttamente nelle operazioni di lettura e scrittura. Varrebbe la pena di andare a rivedere quelle immagini di Homunculi che il neurologo canadese Wilder Penfield (1891-1976) disegnò per mettere in evidenza (sia pure in modo molto schematico, ritenuto oggi approssimativo) le preponderanti funzioni cognitive affidate a questi due portali del nostro corpo, insieme con il portale primario della bocca.

La scrittura ha effetti sul pensiero umano

Eccoci ricondotti alla radice del fatto. L’invenzione della scrittura ha investito frontalmente la vita degli umani (ha rinforzato la peculiarità fondamentale della capacità simbolico-linguistica dell’Homo sapiens, emerso dall’evoluzione delle forme animali) perché ha inciso e continua a incidere sulla loro vita cognitiva e operativa. L’istruzione scolastica ripropone al singolo di percorrere – a tappe più o meno forzate (ma non troppo!) – la vicenda che le società di alcune aree del pianeta assorbirono lentamente 4 o 5 millenni fa, attraverso esperienze di gruppi ristretti di ciascuna comunità. La “scuola” stessa nacque per effetto di quella invenzione. Con un dato che fa differenza rispetto a oggi: nel corso di questi millenni, l’apprendimento di questa abilità (ma è troppo poco considerarla tale) non è più strettamente riservato a una corporazione o casta (gli scribi e i sacerdoti), né circoscritto come un tempo, per un ovvio rapporto di prezzo/convenienza, a una bassa percentuale di membri delle comunità, ma tende a essere acquistato dalla (o per lo meno viene proposto alla) totalità di essi. Un dato non marginale, perché impone che si tenga conto di un’altra variabile: le diverse basi di partenza degli educandi, quanto a tipo di formazione socioculturale e quanto a rapporto con la lingua parlata in partenza da ciascuno di essi. Un dato da mettere in rapporto con un altro parametro ancora: il livello molto più elevato di competenza di lettura e scrittura che le odierne civiltà complesse richiedono a un’ampia porzione di scolarizzandi.

Il filo del ragionamento ci ha portato così a puntualizzare, anzitutto, i termini intrinseci del processo in cui consiste l’“imparare a leggere e scrivere”: una pratica che non può prescindere da un elevato livello di precisione (definita anche come “correttezza”), che, naturalmente, non riguarda solo l’ortografia, ma, insieme con questa, tutti gli altri aspetti del corpo della lingua (semantica; registro; meccanismi sintattici).

Il buon funzionamento della lingua dipende anche da ortografia e punteggiatura

Rientra in questo quadro, ma in una posizione particolare, la considerazione della punteggiatura. Qui la complessità dei problemi raggiunge forse un vertice. Basterebbe sapere (ma quanti davvero lo sanno?) che gli usi della punteggiatura, ancor più di quelli dell’ortografia, sono stati costruiti e modulati nel tempo e che solo in parte riguardano la struttura interna e la conclusione dell’unità sintattica che chiamiamo frase. Questa parte è abbastanza facilmente descrivibile (e prescrivibile), almeno in un tipo di prosa (la poesia esce subito fuori da questo discorso) che possiamo chiamare di stile “neutro” (ma questo termine è sostanzialmente inservibile): possiamo raccomandare caldamente l’uso della virgola per isolare (in linea di massima) la subordinata anticipata, o della doppia virgola per racchiudere l’inciso (apposizione; relativa attributiva; incidentale), o far finta di credere, per il punto e virgola, a parte l’uso in veri e propri elenchi, nel suo valore di “virgola rinforzata” quando vogliamo staccare un po’, ma non troppo, un segmento finale di una struttura complessiva o magari tagliare questa in due conservando una certa continuità di senso, o di “punto attenuato” tra due segmenti coordinati, con o senza la congiunzione e. Ma subito troveremo in testi di autori di ottimo stampo, o di giornalisti di tutto rispetto, altri usi ancora. Ovviamente, il discorso sulla punteggiatura non si esaurisce nell’ambito della sintassi della frase, come preciserò con un esempio in chiusura di questo scritto.

Ortografia e punteggiatura possono sembrare aree periferiche, più o meno sottili, del territorio della lingua. Ma non è affatto così. Il buon funzionamento della lingua, in questa come nell’altra veste, dipende dal funzionamento di tutte le sue parti. Ancora una volta vorrei ricordare che è il nostro occhio che gestisce i valori di questa forma della lingua attraverso la ricezione, così come la mano, negli anni di primo esercizio della scrittura, ci serve per corporeizzare al massimo questa funzione. A proposito della scrittura, varrebbe la pena di lanciare un motto: la mano che scrive ordinatamente le parole intere in corsivo, senza staccare la penna dal foglio, ha la stessa funzione della mano che guida l’archetto sulle corde di un violino. Temo però che questo motto verrebbe rifiutato da molti, perché la nostra Scuola primaria è attraversata da una sorta di ribellione a mantenere al centro dell’apprendimento scrittorio dei discenti proprio la pratica del corsivo (assente già nella pratica personale di una parte dei docenti!).

In conclusione

Se questi sono i valori, o diciamo semplicemente le funzioni affidate alla lingua scritta e se siamo, come pare, sempre più preoccupati per un calo di resa del suo insegnamento che non raggiunge efficacemente la massa degli “aventi diritto” in una società avanzata e democratica, che cosa bisogna fare per non far peggiorare la situazione? Non credo che, di fronte alle oggettive difficoltà dell’impresa, si possa optare per una sorta di depenalizzazione delle deviazioni, in nome di principi quali: le forme “scorrette” sono largamente attestate nella storia; oppure, taluni scrittori le preferivano consapevolmente (una variante del principio “anche Leopardi diceva e scriveva le parolacce”). Di fronte a tutto ciò che è o sembra aberrante e anche di fronte alle innovazioni che il corso degli eventi introduce nella prassi (di noi tutti), il docente deve avere una conoscenza approfondita dei processi che gli si parano davanti. Sapete già dove va a parare, partendo da questa richiesta, il mio discorso: per colpa della prolungata chiusura delle nostre Università nei confronti delle moderne scienze del linguaggio, fino a una ventina di anni fa o poco più la formazione dei futuri docenti di italiano nella scuola non prevedeva una preparazione nel campo della linguistica italiana, disciplina inesistente fino agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. All’Università non si studiava “grammatica italiana”, né linguistica testuale, né didattica dell’italiano. L’unica disciplina che si avvicinava a questi contenuti era la storia della lingua italiana, declinata secondo gli interessi del docente (di solito, più verso la “questione della lingua” o più verso l’uso letterario o verso il lessico o al più la sociolinguistica, talvolta verso la grammatica storica, tra evoluzione del latino e struttura del fiorentino). Ma questo non bastava e non è bastato.

Riprendo qui l’esame di un fenomeno che riguarda la punteggiatura. L’uso del punto fermo che spezza l’unità sintattica della frase è presente nei testi nei quali l’autore vuole impegnare fortemente l’attività interpretativa del lettore, proponendogli, addirittura, di partecipare alla costruzione complessiva del senso del discorso, passando attraverso esitazioni, ambivalenze e dispersioni di significato. La scrittura saggistica e giornalistica di uno studioso di tutto rispetto come Ilvo Diamanti (preceduto in ciò da molti altri) usa abbondantemente questo espediente. A scuola l’osservazione di questi fenomeni si presterebbe molto bene per trattare delle tipologie testuali in relazione al rapporto comunicativo che passa attraverso il testo. Ma non di rado mi sono sentito dire che semplicemente si tratta di cattiva prosa e che quell’uso da parte dell’alunno porterebbe direttamente alla sua bocciatura.

 

Francesco Sabatini: è presidente onorario dell'Accademia della Crusca e professore emerito di Linguistica italiana dell'Università degli Studi Roma Tre. È autore di numerose pubblicazioni tra cui il Dizionario italiano, insieme a Vittorio Coletti, e Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso, Mondadori 2016. I suoi campi di studio sono: le origini dell’italiano e delle lingue neolatine; la pluralità di lingue e culture nell’Italia medievale; la formazione della norma linguistica italiana; l’evoluzione dell’italiano contemporaneo; il linguaggio giuridico; l’educazione linguistica nella scuola; i modelli teorici della sintassi della frase e della tipologia dei testi; la posizione delle lingue nazionali nell’Europa contemporanea.