L'ora di italiano

l'ora di italiano

Tra sindrome delle regole e ossessioni letterarie

di Paolo Di Stefano

IDEE PER INSEGNARE - SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO E SECONDO GRADO

Abbiamo chiesto a Paolo Di Stefano, autorevole firma del "Corriere della Sera", una riflessione sull'insegnamento dell'italiano a scuola oggi.
In un contesto che fatica a riconoscere il valore di questa materia, Di Stefano ne riafferma la centralità per l'istruzione di un ragazzo o di una ragazza: saper parlare e scrivere correttamente significa saper ragionare e viceversa, significa avere gli strumenti di base adatti per essere cittadini del XXI secolo. E la strada passa anche per il recupero dei metodi tradizionali: imparare a memoria le poesie, scrivere i riassunti...

Ho una bambina di undici anni che ha appena cominciato a frequentare la prima media in un istituto pubblico della zona nord-est milanese. Le piace leggere e ancora di più scrivere. Alle elementari, anche grazie a una maestra molto brava, ha imparato a non fare errori di ortografia e di grammatica: Maria sa dove vanno gli accenti e gli apostrofi, sa usare i congiuntivi e sa costruire frasi non banali. In queste prime settimane di scuola (peraltro con un'insegnante assegnata dieci giorni dopo l'inizio del calendario scolastico) l'ho vista però arrancare dietro ai trittonghi, ai digrammi e ai trigrammi. L'ho sentita alquanto irritata dalla richiesta di imparare le diverse combinazioni grafico-fonetiche che definiscono il trigramma. Io stesso, nell'aiutarla, mi sono chiesto che interesse possa avere, anche in proiezione futura, l'elenco dei trigrammi per un ragazzino di prima media: del resto, sopravvivo piuttosto bene, scrivo, leggo, ragiono, pur avendo solo una vaghissima idea del trigramma e un'idea solo intuitiva persino del trittongo. Insomma, mi auguro che mia figlia, a forza di tecnicismi, non perda l'entusiasmo per la lezione di italiano.

D'altra parte in questi giorni mi sono fatto domande che chissà quanti professori si pongono quotidianamente. La più importante è questa: dove sta il giusto equilibrio tra scientificità e umanesimo letterario nell'insegnamento della lingua? Perché secondo me gli estremisti dell'una o gli estremisti dell'altra tendenza sono ugualmente nefasti. Da una parte quelli che pensano che con la grammatica, con l'analisi logica e del periodo, con i complementi di causa efficiente, con le frasi finali e le concessive (e magari con il trigramma) si risolva quasi tutto: è una sorta di nevrosi da scientificità che, con i suoi concetti inoppugnabili e misurabili, mette la coscienza a posto. Dall'altra quelli che ritengono che le conoscenze linguistiche passino quasi soltanto attraverso la letteratura, donde quella fiducia cieca nella bellezza dei classici come medicina ideale da iniettare ai ragazzi contro la barbarie corrente. Non sono sicuro, come del resto sostiene da tempo uno studioso illustre qual è Francesco Sabatini, che basti essere laureati in letteratura per essere buoni professori di italiano, ma non sono neppure certo che un linguista possa farcela al meglio se non si avvale anche di leve culturali e letterarie. Insomma, fossi un professore, terrei parimenti a bada la sindrome delle regole e la vecchia ossessione iperletteraria.

Fossi un professore… Facile a dirsi. Non lo sono, ma credo che la società non concorra a riconoscere la giusta considerazione all'insegnamento dell'italiano: ho l'impressione che le famiglie, angosciate da ciò che può essere utile per i loro figli in tempo di crisi, sarebbero molto più favorevoli ad aumentare le ore di inglese che non a puntare con maggiore decisione sulla lingua madre. Nella prima assemblea tra insegnanti e genitori, dieci giorni dopo l'apertura delle scuole, mi ero detto pubblicamente preoccupato sapendo ancora vacante la cattedra della «materia più importante», cioè l'italiano. Il superlativo relativo, che avevo utilizzato anche con una lieve intenzione provocatoria, mi ha scatenato addosso l'indignazione generale: «Non esageri, tutte le materie sono importanti», ha inveito subito una mamma.

Credo di non avere esagerato, ma credo anche che l'ora di italiano, per essere davvero efficace, debba mettere in stretta relazione l'esercizio linguistico con quello argomentativo. Terrei sempre ben presente che saper parlare e scrivere significa saper ragionare e viceversa: non c'è alcun diaframma tra i due aspetti dell'espressione e del ragionamento. Basti pensare al vocabolario: una argomentazione fine non può che avvalersi di un lessico il più ricco e variegato possibile. Altrettanto vale per la sintassi e per la punteggiatura (sempre sottovalutata nella scuola): frasi brevi da twitter o da sms veicolano pensieri, quando ci sono, necessariamente semplificati e frammentari. E non c'è solo la ricchezza del vocabolario, c'è la ricchezza dei registri cui il lessico andrebbe adeguato: il fatto che persino i politici ignorano o fingono di ignorare questa banalità (adattare il tono alla funzione e al contesto) è una ragione in più per approfondire le varietà e le potenzialità della lingua (non tutto è parlar basso di pancia, come farebbero credere certi talk o reality show…). Certo se il populismo linguistico cresce di pari passo con quello politico, non bisogna dimenticare che la retorica non va intesa solo nell'accezione negativa di vuota ampollosità, ma che nel suo significato migliore è parente dell'eloquenza: cioè l'arte di esporre i propri argomenti in maniera appropriata, elegante e persuasiva. Ne sentiamo un gran vuoto e possederne gli strumenti darà un enorme vantaggio ai futuri cittadini.

In questo, certo, può aiutare la letteratura, che offre un repertorio infinito di livelli stilistici, ma possono anche aiutare tante altre tipologie testuali, magari più vicine al mondo contemporaneo vissuto dai ragazzi, come gli articoli di giornale che già in sé propongono modelli espressivi molteplici (dall'editoriale al corsivo, dalla cronaca alla satira, dal racconto alla recensione, dalla didascalia all'intervista confidenziale). Infine, non bisognerebbe temere le pratiche apparentemente vecchie e superate, magari evitando il classico pensierino generico e ispirato. Confesso che sono un fanatico del mandare a memoria le poesie e del riassunto. Il primo è un esercizio che per sempre (difficile perdere per strada una poesia imparata da giovani, esattamente come una canzone) è destinato ad arricchire il vocabolario lasciando nell'orecchio l'eco interiore di risorse comunicative, anche giocose, decisamente diverse da quelle abituali e quotidiane. Il riassunto è un doppio, triplo, quadruplo allenamento: insegna a leggere, comprendere, selezionare le informazioni, gerarchizzarle, ri-scriverle in modo coerente e in uno spazio limitato. Mica poco. I trittonghi, i digrammi e i trigrammi possono attendere.

 

Paolo Di Stefano: giornalista e scrittore, attualmente è inviato speciale del "Corriere della Sera". Laureato in filologia romanza con Cesare Segre, è autore di romanzi, saggi, reportage, poesie.