«Più de’ carmi, il computar s’ascolta»
Lectio Magistralis - Motivare i giovani allo studio letterario oggi: problemi e prospettive
IDEE PER INSEGNARE - SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO E SECONDO GRADO
Pubblichiamo la prima parte di un saggio del professor Guido Baldi dedicato al tema sempre aperto per i docenti di come motivare gli allievi allo studio della letteratura; in uno dei prossimi numeri proporremo la seconda parte.
L’assenza di motivazione: le cause in genere individuate
Il problema più assillante che si pone all’insegnamento della letteratura oggi è come motivare gli studenti allo studio, impresa che si fa sempre più difficile. Del disinteresse degli allievi verso la materia sono state proposte varie cause, che gli insegnanti conoscono bene perché con esse si misurano quotidianamente, ma non sarà inutile, al fine di cercare qualche soluzione, ricapitolare le principali. In primo luogo si è fatto riferimento ai miti dominanti nell’opinione comune, che privilegiano la dimensione scientifico-tecnologica e produttivistica, svilendo le materie umanistiche come “inutili”, “non più adatte ai tempi”: miti che i giovani assorbono tramite i canali più diversi, le conversazioni in famiglia e con gli amici, la televisione, la rete e i social networks, le loro letture.
Poi gli studenti, come ben si sa, sono oggi molto più di un tempo distratti da altri interessi, la navigazione in rete, Facebook, Twitter, WhatsApp e simili, i messaggi tramite i telefonini (anche in classe durante le lezioni), chat-lines, videogiochi, che occupano gran parte del loro tempo, magari in forme multitasking. Usque a puero sono inoltre indotti dalle famiglie alle più svariate attività, danza, nuoto, calcio, basket, chitarra e così via, per cui si abituano a considerare lo studio scolastico non più un’attività primaria, ma qualcosa che può passare in secondo piano, una faccenda un po’ fastidiosa da sbrigare il più in fretta possibile per rivolgersi poi a cose ben più gratificanti, e magari ritenute ben più utili alla loro formazione; e che comunque sottraggono tempo ed energie anche a chi qualche interesse per le materie di studio lo conserva.
Bisogna ancora tener conto della presenza sempre più folta di studenti che provengono da altri paesi e da altre culture, ai quali è spesso arduo far comprendere e apprezzare i capolavori della nostra letteratura, che si riferiscono a realtà, esperienze, valori ad essi per gran parte estranei: tanto per intendersi, insegnare Dante o Foscolo a un ragazzo cinese o magrebino mette sicuramente a dura prova le capacità di un insegnante (visto che è già difficile farlo con studenti italiani).
A tutto ciò si aggiunge il problema della lingua: per la letteratura latina, greca e per quelle straniere, è ovvio, ma anche per la letteratura italiana, e non solo per gli immigrati. I nostri ragazzi hanno un patrimonio linguistico sempre più povero. Mi è occorso di vedere tempo fa la trasmissione Pane quotidiano, in cui Luca Serianni proponeva a una classe finale di liceo presente in studio tre parole di uso abbastanza comune, “arguto”, “desueto”, “dirimere”: ebbene, un solo ragazzo ha saputo spiegare in modo sufficientemente preciso il termine “desueto”, per tutti gli altri quelle parole erano come di una lingua straniera. Ci si può figurare allora questi studenti dinanzi alla lingua letteraria della nostra tradizione, che è davvero un’altra lingua rispetto a quella dell’uso odierno, dove ricorrono abitualmente termini come “alma”, “crini”, “speme”, “usbergo”, “guiderdone”, “opimo”, “atro”, “avello”, “brando”. La mia generazione imparava questa lingua sin dalla scuola media, attraverso la lettura dell’Iliade di Monti e dell’Odissea di Pindemonte, poi dell’Eneide del Caro al ginnasio; e sempre al ginnasio si percorreva la letteratura sin dai primi secoli, dal Cantico di san Francesco agli stilnovisti a Dante, Petrarca e Boccaccio. Ora lo studente incontra testi di quei secoli solo al terzo anno delle superiori (o al massimo, in parte, alla fine del secondo), quindi arriva all’incontro totalmente sprovveduto: non c’è da stupirsi allora se la letteratura non suscita interesse, visto che la sua lingua suona straniera e incomprensibile. Persino un poeta come il Leopardi degli idilli, che viene comunemente ritenuto limpidissimo, è divenuto in buona parte illeggibile per i nostri allievi: ne ho fatto esperienza diretta all’università (dico all’università, e in una facoltà umanistica), dove agli esami gli studenti rimanevano a bocca aperta dinanzi a «interminati spazi», «molceva il core», «german di giovinezza», «sospiro acerbo de’ provetti giorni», «sempiterni calli». Occorre fermare la riflessione su questo fenomeno: uno straordinario patrimonio culturale che diventa inaccessibile alla grande maggioranza della popolazione italiana, anche a quella fornita di titoli di studio superiori, è una catastrofe di proporzioni immani (…) Non si tratta di catastrofismo sterile: una diagnosi esatta del male è indispensabile per cercare rimedi (che però francamente non vedo facile trovare a breve termine). C’è chi propone di offrire questi testi “tradotti” in italiano moderno (persino I promessi sposi: mi chiedo, come suonerebbe in italiano moderno «Quel ramo del lago di Como»?). Ma il rimedio mi pare peggiore del male: sia chiaro che leggere Boccaccio o Ariosto “tradotti” non è leggere Boccaccio e Ariosto, in quanto il significato delle loro opere passa in prima istanza attraverso quello specifico significante che gli scrittori hanno elaborato. Può parere sin troppo ovvio, ma non lo è, visto che la pratica della “traduzione” si va diffondendo. Al massimo essa può essere utile come testo a fronte, per facilitare l’accesso al testo vero, che deve essere l’unico obiettivo dell’insegnamento (ma occorre stare attenti, perché gli allievi sarebbero facilmente tentati a leggere solo la “traduzione”). Ci sarebbe poi da affrontare il problema del facilismo, di cui quelle “traduzioni” sono un sintomo, e che è uno dei morbi che più portano oggi la scuola al degrado, ma il discorso ci trascinerebbe troppo lontano.
Infine, a spiegare lo scarso interesse degli studenti di oggi per la letteratura e la mancanza di motivazioni al suo studio, è stato addotto l’uso costante, da parte loro, degli strumenti informatici per molta parte del giorno. L’informatica, con i suoi procedimenti, per questi “nativi digitali” è una seconda natura, ha cambiato le strutture mentali, il modo di percepire i dati della realtà e di organizzare la conoscenza, determinando, a quanto pare, una vera mutazione antropologica. È scontato allora che i testi letterari, che si fondano su strutture mentali del tutto diverse, risultino estranei, al limite addirittura inavvicinabili e incomprensibili.
Ma il fattore davvero determinante che toglie interesse per la scuola, e a maggior ragione per la letteratura e le materie umanistiche in genere, quelle più sprovviste di finalità pratiche immediate, è la prospettiva della disoccupazione al termine degli studi, di cui i giovani sono ormai più che consapevoli. Tale prospettiva, dal lato dei discenti, fa apparire inutile ogni sforzo per acquisire sia una formazione culturale sia persino competenze spendibili sul mercato del lavoro, dal lato dei docenti trasforma l’insegnamento quotidiano in una fatica di Sisifo. Purtroppo, lo sappiamo bene, trovare soluzioni a questo problema esula dalle possibilità degli insegnanti (e a quanto pare anche dalle capacità dei governanti, visto che la crescita economica, che sarebbe l’unica soluzione, continua a latitare nonostante ogni provvedimento messo in cantiere). Ma anche il problema degli studenti provenienti da altre culture esige interventi di più vasto raggio, che predispongano un organico programma di inserimento linguistico e culturale, che non si basi solo, come avviene oggi, sulla buona volontà e l’improvvisazione dei singoli, e per il quale andrebbero stanziate adeguate risorse. Per le competenze linguistiche degli studenti (diciamo) italofoni il problema è egualmente complesso: deve essere ripensato in quella direzione tutto il curriculum degli studi, a partire dalla scuola dell’obbligo, con iniziative efficaci che stimolino alla lettura. Per la dispersione degli interessi extrascolastici dei giovani occorrerebbe invece una operazione di responsabilizzazione delle famiglie. Sono tutti interventi che presuppongono tempi lunghi e che superano anch’essi le effettive possibilità del singolo insegnante, che al massimo potrà prestare ad essi la sua opera di cooperazione. In questa sede allora ci si limiterà a riflettere su ciò che gli insegnanti possono fare qui e ora, nel loro lavoro quotidiano. (...)
Il coinvolgimento dell’esperienza vissuta
Se gli strumenti digitali sono indubbiamente proficui, non bastano certo da soli per coinvolgere i discenti e sollecitare il loro interesse. Innanzitutto a tal fine, proprio per la presenza di quei miti tecnologici e produttivistici a cui si accennava, non bisogna mai partire, per una sorta di automatismo ereditato dalla scuola d’élite di un tempo (ma anche allora…), come se l’interesse per la letteratura fosse un dato scontato: preliminarmente all’avvio del corso bisogna proporre alla discussione collettiva il problema del senso che possiede l’insegnamento delle discipline umanistiche, stimolare la riflessione degli studenti sulla loro eventuale mancanza di motivazioni allo studio e sulle sue cause, far affiorare i pregiudizi come “la letteratura non serve a niente”, smontare, maieuticamente e “socraticamente”, le idee ricevute e i miti acriticamente accettati. Può darsi che questa operazione preliminare di sgombero del terreno possa servire ad aprire la strada a un lavoro più partecipato e proficuo. E comunque è sempre bene avviarsi su un percorso con le idee chiare su ciò che si sta facendo, senza lasciare residui non ben consci o inespressi che possono bloccare l’attività, come un virus non identificato nel computer.
Diviene poi essenziale sollecitare i giovani a cercare nei testi letterari ciò che può parlare ancora direttamente a loro qui e ora, che può chiamare in causa il loro vissuto personale e aiutarli a individuare un senso alla loro dimensione esistenziale all’interno del mondo che li circonda. Su questo uno studioso attento ai problemi della didattica come Romano Luperini insiste meritoriamente da anni. Per fare un esempio, un poeta letteratissimo come Petrarca, interprete di una civiltà ormai lontana nel tempo e molto diversa dalla nostra, con le sue raffinatezze formali può apparire troppo estraneo agli interessi dei ragazzi del XXI secolo: ma, al di là di tutto questo, l’acutissimo indagatore della fenomenologia amorosa, il poeta nei cui versi tornano continuamente l’idealizzazione della persona amata, i sogni e le fantasticherie intorno ad essa, l’assaporamento della sua immagine nella memoria, l’urgenza del desiderio e la sofferenza per l’impossibilità di appagarlo, l’alternanza di speranze e di disillusioni, il dolore per la perdita e l’evocazione dell’immagine amata nei suoi luoghi consueti, dovrebbe toccare particolarmente la sensibilità degli adolescenti, che magari sperimentano quegli stati d’animo in prima persona nel loro vissuto quotidiano, aiutarli a capirsi, a prendere coscienza dei loro processi interiori, a maturare una visione più profonda e complessa della vita dei sentimenti. Un discorso analogo può valere per un poeta dotto, aulico e difficile come Tasso, se nella lettura si punta sul tema dell’amore infelice e non corrisposto, così centrale nel suo poema e così presente nell’esperienza adolescenziale.
Non bisogna nascondersi, però, che una simile impostazione didattica cela due pericoli: lo smarrirsi della fisionomia storica ed istituzionale della letteratura e l’esclusione della sfera pubblica, la chiusura nella dimensione del tutto soggettiva e privata, che se è importante non può tuttavia esaurire l’intera esperienza di un individuo, specie se è un giovane nel suo processo di formazione. Mi sembra che tali rischi risultino chiaramente da un film come La vie d’Adèle di Abdellatif Kechiche, vincitore a Cannes nel 2013, dove diverse scene si svolgono in un’aula scolastica durante le lezioni di letteratura, mentre professore e studenti leggono e discutono La vie de Marianne di Marivaux. Tutti i commenti si concentrano esclusivamente sul piano psicologico, che coinvolge il vissuto personale degli studenti in rapporto alle vicende del romanzo, e non risulta alcuna apertura a indagare la dimensione storica e culturale in cui quel testo settecentesco si inserisce e i mezzi espressivi attraverso cui sono trasmessi quei contenuti, così come non si riscontra nessun interesse a inserire i problemi dei ragazzi nella vita pubblica del loro tempo. Non so in che misura il film rispecchi una prassi didattica davvero diffusa nelle scuole francesi, ma certo fornisce l’esempio di un tipo di approccio ai testi letterari che soffre di gravi limiti. La dimensione istituzionale, la storia letteraria, i generi, le forme, le tecniche narrative e poetiche, i rapporti sia dei testi sia dei loro destinatari con il contesto sociale, politico, economico non possono essere ignorati, pena una visione parziale e depauperante della letteratura e della stessa vita, e devono essere in ogni modo recuperati, sia pure attraverso il vissuto personale dei giovani, se non ci si vuole condannare a una vana chiacchiera. Insomma, poesie, romanzi, novelle, drammi non possono ridursi a semplici pretesti, in sé non rilevanti, per parlare dei problemi personali degli allievi: l’appello al vissuto è un mezzo per arrivare alla comprensione a largo spettro dei testi letterari e per consentire appieno ad essi di vivere ancora nella coscienza di chi li accosta oggi. Per questo l’approccio ai testi deve comunque avvenire con metodi rigorosi, scientifici, per evitare approssimazioni troppo soggettive e arbitrarie, che risulterebbero altamente diseducative (sempre naturalmente evitando gli eccessi di specialismo tecnico, come si avvertiva più sopra). Una simile impostazione risponde anche a una tradizione della cultura e della scuola italiane, che possiede una sua fondamentale validità metodologica e didattica, e non può essere buttata a mare con superficiale irresponsabilità, solo per seguire suggestioni e mode che provengono da altre culture, e i cui risultati sono almeno dubbi.