Beri-Beri, polli e riso integrale
Andiamo con ordine. Verso la fine dell’Ottocento, il medico olandese Christiaan Eijkman viene mandato in Indonesia per scoprire le cause del beri-beri, una forma di degenerazione del sistema nervoso.
Questa malattia è molto diffusa nella popolazione locale che si nutre essenzialmente di riso brillato, cioè privato della pula. Il medico nota che anche i polli, se alimentati solo con riso brillato, manifestano i sintomi tipici del beri-beri. Se invece aggiunge alla loro dieta del riso integrale, gli animali stanno bene.
All’epoca si pensava che le malattie fossero sempre causate dalla presenza di un agente patogeno, come un parassita o un batterio. È quindi molto strano osservare che, in questo caso, sia l’assenza di qualcosa a causare la patologia.
Questo qualcosa è presente nel riso integrale e non in quello brillato. Eijkman cerca di far quadrare i conti immaginando che ci debba essere una sorta di tossina alla base del beri-beri e che il riso integrale possa contenere una sostanza in grado di opporsi a tale tossina, una sostanza “protettiva”.
Dalle diete artificiali ai catalizzatori naturali
Un passo avanti per chiarire la questione viene compiuto da Frederick Gowland Hopkins, biochimico inglese che studia le diete artificiali, cioè le diete costituite da sostanze chimicamente controllate, e lo fa utilizzando i topi. Quando gli animali vengono nutriti con proteine, carboidrati, grassi e sali preparati in laboratorio, la loro aspettativa di vita è ridotta a pochi giorni. Se, invece, a questa dieta si aggiunge del latte, i topi vivono normalmente. Anche nell’uomo sono note situazioni simili: il succo di limone viene impiegato per evitare lo scorbuto e l’olio di fegato di merluzzo per combattere il rachitismo. Hopkins mette insieme questi elementi e comprende che gli alimenti naturali, cioè quelli ottenuti da altri esseri viventi (come il latte, il succo di limone ecc.), contengono un enorme numero di sostanze sconosciute utili per la salute. Nel 1912 pubblica un articolo sulla rivista Journal of Physiology in cui scrive che tali sostanze possono essere assunte in quantità estremamente piccole per garantire la crescita regolare di un animale.
A lui basta aggiungere pochissimo latte “naturale” nella dieta “artificiale” dei topi per farli vivere in salute.
Come mai queste sostanze devono essere assunte con la dieta? Secondo Hopkins si tratta di molecole che l’organismo non è in grado di sintetizzare da solo. E come mai basta che siano assunte in piccole quantità? Il biochimico intuisce che la loro presenza consente agli animali di impiegare le molecole e l’energia contenuta nel mangime artificiale. In che modo? Attraverso una funzione catalitica. In sostanza, Hopkins comprende che queste sostanze devono comportarsi come catalizzatori, molecole che hanno la capacità di fare avvenire certe reazioni (in cinetica chimica si dice che abbassano l’energia di attivazione della reazione) rimanendo integre al termine del processo.
Un catalizzatore non si consuma facilmente ed è per questo che ne serve poco all’organismo. Poco, ma ci deve essere, altrimenti qualche via metabolica si blocca e il risultato è che compare qualche malattia.
Ammine vitali…
Cosa sono queste sostanze così preziose? Come Eijkman e Hopkins, anche il chimico polacco Casimir Funk è alle prese con l’inadeguatezza delle diete artificiali e le cause del beri-beri. Nel suo laboratorio cerca di isolare le molecole presenti nella pula del riso ma non nel riso brillato. Si focalizza sugli amminoacidi e sulle proteine, ma non trova nulla. Poi prova a fare degli estratti alcolici, immergendo i diversi campioni di riso nell’alcol in modo da “estrarre” tutte le molecole affini a questo liquido. Riesce così a separare e concentrare una sostanza molto attiva nel proteggere dal beri-beri. Dalle sue analisi risulta che appartiene alla classe delle pirimidine, un particolare tipo di ammina, una sostanza organica che contiene azoto. Per questa ragione Funk la chiama con il termine “vitamina”, cioè ammina vitale. Lo scrive per la prima volta in un articolo sulla rivista Journal of State Medicine nel 1912, lo stesso anno in cui Hopkins presenta i suoi risultati. Funk conia anche il termine “malattie da carenza”, mettendo in chiaro che alcune patologie come il beri-beri o lo scorbuto non sono causate dalla presenza di un agente patogeno ma dall’assenza di vitamine.
… e altre vitamine
L’anno successivo è l’americano Elmer Verner McCollum a fare un ulteriore passo avanti. Si accorge che nel burro è presente una sostanza senza la quale i topi manifestano problemi alla vista. È una sostanza liposolubile che chiama fat soluble A e non si tratta di una ammina. La vitamina che protegge dal beri-beri è invece solubile in acqua e McCollum la chiama water soluble B. Comprende che le vitamine possono essere suddivise in due categorie, quelle idrosolubili e quelle liposolubili. E che non tutte le vitamine in realtà sono delle ammine.
Dalla A alla K
In seguito si parlerà di vitamina A e vitamina B. Quest’ultima, in realtà, viene chiamata B1 e identificata nella molecola della tiamina. Vengono poi scoperte altre vitamine del gruppo B, tutte con la caratteristica comune di svolgere una funzione di coenzima nei processi metabolici. E la vitamina C, anch’essa idrosolubile, che serve per la sintesi del tessuto connettivo ed è un antiossidante. Sul fronte delle vitamine liposolubili, oltre alla vitamina A, che si rivela fondamentale per la sintesi dei pigmenti visivi, vengono individuate la vitamina D, coinvolta nell’assorbimento del calcio e del fosforo, la vitamina E, con un probabile ruolo da antiossidante, e la vitamina K, necessaria per la coagulazione del sangue.