In periferia, le nanotecnologie
Uscendo dalla città e cominciando a incontrare qualche albero, in un parco o in un viale, è facile imbattersi in un’edera che abbraccia solidamente un tronco. Staccarla è quasi impossibile: è così tenace da reggere una forza pari a 2 milioni di volte il proprio peso e da poco sappiamo come ci riesce, grazie a indagini condotte a braccetto da botanici, chimici e ingegneri.
Anche nella scienza infatti le performance migliori si ottengono quando tutti gli attori interagiscono. La capacità adesiva dell’edera è dovuta a nanoparticelle secrete dai peli radicali prodotti delle sue radici avventizie e si esplica in più fasi. Anzitutto c’è un primo contatto tra radice e supporto (in questo caso un albero, ma potrebbe essere anche un muro), cioè un’adesione fisica che permette l’appoggio, poi un’adesione chimica che salda il contatto, mediata appunto dalle nanoparticelle, e infine un accorciamento che trascina con sé il fusto. Tutto avviene con una precisa scala dimensionale: la radice è dell’ordine dei millimetri, il pelo radicale dei micrometri e le particelle adesive non sono altro che una versione vegetale delle nanotecnologie. Ogni rametto di edera sviluppa ciuffi di radici dotate di un fitto vello di peli radicali, protesi all’esterno come microscopici tentacoli e divisi in due tipologie: a spatola per le superfici lisce e a cavatappi per intrufolarsi meglio su quelle più irregolari.
È sufficiente il contatto con il supporto per stimolare il rilascio di un gran numero di sferette contenenti proteine legate a zuccheri chiamati arabinogalattani.
Grazie alle piccole dimensioni, le sferette attraggono fisicamente la superficie di contatto con forze deboli di tipo elettrostatico, labili singolarmente ma favorite dalla numerosità e dalla fluidità, che consente di penetrare negli interstizi senza creare sacche d’aria tra radice e sostegno, cosa impossibile per un adesivo classico. In pratica, sebbene i legami prodotti siano deboli, il loro enorme numero genera un effetto cooperativo analogo alle corde lillipuziane che intrappolano Gulliver.
Nelle ore successive i peli così adesi si disidratano, si accorciano e avvicinano per trazione meccanica radice e ramo al supporto. In questa fase le goccioline si fondono tra loro e avviano l’adesione chimica definitiva, che avviene con un meccanismo simile: dapprima una serie di legami deboli tra ioni calcio e zuccheri avvicina le molecole e poi si formano legami covalenti più forti tra radice e superficie, generando un materiale che salda indissolubilmente l’edera al suo tronco.
Ho sentito qualcosa!
Entro le 4 ore di passeggiata la città dovrebbe essere lontana e dovreste essere in campagna o in un bosco. Con case e inquinamento se ne sono andati anche i rumori – e sono comparsi più licheni – rivelando forse nuovi suoni.
Le performance con cui le piante si relazionano all’ambiente possono infatti prevedere emissioni acustiche, rigorosamente sottovoce, perché qualunque suono nel bosco diventa una possibile guida per i nemici. Gli alberi ad alto fusto, per esempio, in condizioni climatiche particolari producono suoni ritmici per effetto della cavitazione che si genera durante il trasporto dell’acqua, un fenomeno fisico legato ai fluidi in pressione e movimento, due condizioni presenti nei vasi xilematici degli alberi, quelli che trasportano acqua e nutrienti dalle radici verso le foglie.
Questi vasi sono rigidi e si comportano come cannucce, rispetto alle quali la traspirazione della chioma opera come un aspiratore. La cavitazione si presenta quando la tensione di vapore al loro interno diventa abbastanza forte da far evaporare parte dei gas disciolti nell’acqua trasportata, formando bolle e producendo una caratteristica serie di schiocchi. Questo concertino va in scena soprattutto durante i periodi di siccità, quando la perdita d’acqua della chioma non è compensata dall’assorbimento radicale. La cavitazione, però, con le sue bolle blocca il transito dell’acqua e se la pianta non riesce a rimediare va incontro a un progressivo indebolimento. Molte cavitazioni producono molti schiocchi e molti schiocchi significano guai in vista: il suono della cavitazione è quasi inudibile dall’uomo ma è captato da alcuni insetti xilofagi sensibili agli ultrasuoni, per i quali è dolce musica poiché segnala una preda in difficoltà.
Le performance acustiche non riguardano però solo il rischio di farsi aggredire, ma anche la possibilità di difendersi meglio, grazie a suoni percepiti dalle piante nel silenzio del bosco. Gli insetti che masticano una foglia emettono per esempio una vibrazione sonora caratteristica, che cavoli e senape riescono a captare usandola come segnale di allarme. Sia in piante masticate sia in piante non aggredite questo suono induce un aumento di alcune sostanze pungenti che le piante usano come deterrente (le stesse che rendono piccanti senape e wasabi).
Sulla via del ritorno
Se siete nel bosco e sono passate quattro ore dalla partenza posso svelarvi in che cosa consiste la parte finale della performance suggerita dalla Abramovic: «Riposatevi e ritornate al punto di partenza seguendo lo stesso percorso». Sta a voi scovare qualche altra manifestazione delle piante durante il tragitto inverso: se mi avete dato retta mancano almeno quattro ore di cammino per tornare davanti alla porta della scuola.