«Ma misi me per l’alto mare aperto» (Inferno, XXVI)

Lecturae Dantis

APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI - SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO

Cominciamo con questo numero una serie di tre letture, una per ogni cantica, di altrettanti canti tra i più studiati del «sacrato poema». Ci accompagnerà nella lettura Franco Nembrini docene di letteratura italiana.

Franco Nembrini

Le lecturae Dantis di Franco Nembrini hanno un’origine molto particolare. Franco “scopre” Dante a dodici anni, mentre a tarda sera sta trasportando casse su e giù per le scale della drogheria dove lavora d’estate – dieci fratelli, bisogna dare una mano – e lo folgora il ricordo di una terzina della Commedia: «Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e com’è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». È la scoperta che Dante – e poi Leopardi, Pirandello, tutta la letteratura, tutta l’arte – illumina l’esperienza umana di ciascuno. È con questo criterio che per vent’anni insegnerà italiano nelle scuole superiori: una lettura di Dante non accademica, per specialisti, ma tutta tesa a mostrare come l’avventura umana del grande fiorentino sia una guida perché ciascuno possa leggere più a fondo l’esperienza propria. Finché una sera uno dei quattro figli, in vista di un’interrogazione su Dante, lo rimprovera bonariamente: «Papà, tu parli di Dante a tutti, ma a noi non hai mai detto niente». Detto fatto, la domenica seguente si siedono intorno a un tavolo, a parlar di Dante, Franco, un paio di figli e un paio di amici dei figli; e di domenica sera in domenica sera la cerchia si allarga, fino a superare le duecento persone. Qualche mamma, incuriosita da questi figli che vanno a sentir parlare di Dante, chiede se Franco non possa raccontarlo anche a loro; nasce così – siamo nel 2003 – un primo ciclo di incontri amichevolmente indicato come “Dante per le massaie”. Da allora sono state centinaia le letture dantesche, alimentate solo dal passaparola, che Franco ha fatto in giro per l’Italia e non solo (Spagna, Ucraina, Russia…), parlando ai pubblici più disparati, sempre con l’unico obiettivo di restituire il poeta alla sua dimensione più autenticamente popolare. Un modo di affrontare Dante, dunque, piuttosto diverso da quello comunemente diffuso nelle scuole; ma ci è sembrato che anche per chi per mestiere deve proporre la Commedia fra i banchi possa essere un punto di paragone interessante.
(rid. e adatt. da Franco Nembrini, Dante poeta del desiderio, vol. I, Inferno, Itacalibri, Castel Bolognese 2011.)

Fra tutte le figure della Divina Commedia, quella di Ulisse è una delle più controverse, soprattutto dal punto di vista della grande domanda che nasce spontanea quando si arriva alla fine della lettura: perché mai Ulisse è all’inferno?

Riprendiamo brevemente il brano del Convivio dove Dante spiega che il cuore dell’uomo viene al mondo attirato dalle cose, e «perché la sua conoscenza prima imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi e però da quelli comincia prima a desiderare»: l’uomo incontra le cose e ne è subito attirato; poi, siccome è fatto a immagine e somiglianza di Dio e tende a ritornare al suo principio, si accorge che quelle cose che lo hanno attirato non colmano il suo desiderio, ma lo rilanciano continuamente: «Per la quale ragione vedemmo li parvoli [i bambini] desiderare massimamente un pomo e poi più procedente un augellino e poi più oltre desiderare bel vestimento e poi lo cavallo e poi la donna e poi ricchezza non grande e poi grande e poi più, sempre di più. E questo accade perché in nulla di queste cose trova quella che va cercando e crede la trovare più oltre». (Convivio, trattato quarto, cap. XII, 14-16). Ogni cosa rilancia il desiderio dell’uomo verso un oltre, verso un infinito.

Perché è decisivo aver presente questa dinamica? Perché una delle interpretazioni che sono state date dell’Ulisse dantesco è che sarebbe all’inferno per aver troppo desiderato. Ma se abbiamo presente questo brano del Convivio vediamo subito che è impossibile, perché contraddirebbe tutto quello che Dante ha detto di sé, della vita, del rapporto tra l’uomo e il suo destino: l’uomo è desiderio di infinito, anzi tradisce sé stesso proprio quando abbassa lo sguardo, quando si accontenta. Perciò se una cosa possiamo imparare dalla figura di Ulisse è questa: ciò che lo fa grande, ciò che ha reso questo brano così famoso, così vicino all’esperienza di ciascuno, è l’infinità del desiderio. Questa è la cifra dell’uomo, il fattore che lo rende diverso dagli animali, come Dante dice per bocca di Ulisse: «Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza». Dunque in questa vicenda esemplare, esemplificativa della nostra vita, possiamo risentire l’eco dell’infinito per cui siamo fatti.

Però l’avventura di Ulisse si conclude con un fallimento clamoroso. Come accade a Icaro, a cui proprio il sole che è la meta scioglie le ali di cera, così dalla montagna del purgatorio, che potrebbe essere tappa del viaggio verso l’infinito desiderato, nasce un turbine che fa fallire miseramente l’impresa. Come Icaro, Ulisse e i suoi amici si inabissano. E qui nascono due domande. Perché, se Ulisse rappresenta tutta l’ampiezza del desiderio, il suo tentativo fallisce? Ma soprattutto, perché Dante lo mette all’inferno?

Sulle ragioni del fallimento la risposta non è difficile, tutti i commentatori sono d’accordo: Ulisse non raggiunge la sua meta perché ha tentato il viaggio con mezzi inadeguati. Anche il viaggio di Dante era iniziato con la stessa dinamica, aveva provato anche lui a dire: “Bene, se qui c’è il sole è un attimo! Con le mie forze vado e mi guadagno la felicità!”; ci aveva provato, ma tre fiere lo avevano ricacciato giù, nel fondo della selva. Dunque è ancora la stessa questione del primo canto dell’Inferno, l’antica parabola di Icaro: l’uomo non ha da sé mezzi adeguati a raggiungere la felicità: tutta la sua volontà, tutta la sua intelligenza da sole non bastano a vincere il peso del limite, del peccato originale; per quanto grande e nobile sia il suo tentativo, senza il soccorso di Dio – della grazia, di Gesù, della Madonna, di Beatrice – le sue sole forze non bastano.

Ma se è così, se Ulisse è l’uomo che non può non obbedire alla propria natura, al proprio cuore, la domanda più drammatica è: perché Dante lo mette nell’inferno? Se il desiderio è la natura stessa che Dio ci ha dato, la promessa di bene infinito con cui siamo venuti al mondo, quel che ci fa sperare oltre la morte, si può finire all’inferno per aver troppo desiderato? Se Ulisse è l’uomo, perché è all’inferno?

Non mi convince la risposta: perché fraudolento, perché imbrogliava. Catone, il custode del purgatorio, quindi destinato a salvazione, destinato al paradiso, è morto suicida. L’aveva fatta più grossa: il suicidio è un peccato mortale, c’è il girone dei suicidi all’inferno. Mi sembra debole dire che Ulisse è all’inferno perché ha imbrogliato i troiani, era un peccato da poco se lo paragoniamo a quello di Catone, che pure Dante mette fra i salvati.

Tra le mille risposte che sono state date a questa terribile domanda, io propongo la mia; poi ciascuno giudicherà. Perché il bello della letteratura è questo, che quando uno sente l’eco di quella terzina, «considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza», come sente sue quelle parole! E così una terzina, un verso, un’immagine, Icaro, Ulisse illuminano l’esistenza, e ti capitano delle cose che senti descritte da quelle tre righe in un modo in cui tu non avresti mai saputo descriverle. E perciò reagisci a quelle righe con tutto te stesso, con quello che sei tu, con l’esperienza, la percezione che hai tu dell’esistenza; e perciò la lettura che ne dai è, può essere diversa da quella che ne dà un altro, perché c’è dentro tutto quello che sei tu.

Così io tento un’interpretazione andando a cercare la risposta che a mio parere dà Dante nei versi con cui si conclude il primo canto del Purgatorio (non si può fare diversamente, tutta la Divina Commedia è costruita così, bisognerebbe leggerla tutta, e solo quando l’hai letta tutta sei in grado di ricominciare il percorso capendo, perché il percorso illumina tutti i passi precedenti). Allora, rileggiamo gli ultimi versi dell’episodio di Ulisse, e poi gli ultimi versi del primo canto del Purgatorio.

Inferno

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché della nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

Purgatorio

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh, meraviglia! Ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là, onde l’avelse.

Sono i versi in cui Virgilio prende Dante, lo porta a un prato pieno di rugiada e con la rugiada gli lava la faccia, così che torni del colore normale, perché all’inferno si era tutta annerita. Quindi Virgilio strappa un giunco e gli cinge la testa (il giunco, con la sua cima che così facilmente si piega verso terra, è il simbolo dell’umiltà), e così Dante può accedere alla scalata del purgatorio.

E in questi sette versi la rima si ripete con gli stessi identici termini ­– «(ri)nacque», «acque», «com’altrui piacque» – che Dante aveva usato per l’avventura di Ulisse. E tornano anche altre parole di quella vicenda: «diserto», «esperto». O Dante ha fatto le cose a caso, è una combinazione; o è una scelta. Ma sappiamo bene che per il tipo che Dante era di combinazioni non si parla. Dante dunque è come se ci dicesse: “Adesso capite? Tornate indietro! Andate a rileggere la vicenda di Ulisse! La dovete guardare attraverso quel che succede nel primo canto del Purgatorio: attraverso questo gesto in cui io fisso come condizione della vita, per essere fedeli al proprio desiderio infinito, la virtù suprema dell’umiltà”.

Allora vado a rileggere l’intera vicenda di Ulisse, rivisitata alla luce di questo rimando, e che cosa mi sembra di capire? Qual è la ragione vera per cui è all’inferno? Una ragione adeguata, che si sposi tutta con la grandezza del personaggio, con la magnanimità dell’esempio? Ulisse a differenza di Dante non è umile. Non riconosce un’ultima dipendenza dal Mistero, pretende di farcela lui, da solo.

In fondo – uso questa formula per brevità e per intenderci – il peccato di Ulisse, la ragione per cui Ulisse è all’inferno, è che tradisce il suo desiderio: non va all’inferno per aver desiderato troppo, va all’inferno per aver tradito il suo desiderio.

Quando l’uomo tradisce il suo desiderio? Quando lo vive con un ultimo orgoglio, con una misura stabilita in ultima istanza da sé stesso, con un’ultima assenza di umiltà, di dipendenza dal Mistero. Perché l’umiltà è la virtù per eccellenza? Che cos’è l’umiltà? L’umiltà – la parola viene da humus, terra – è la coscienza che l’uomo ha di essere fatto da un Altro, di ricevere la vita da un Altro, di dipendere da un Altro; come insegna l’immagine biblica: è fatto di terra, di polvere, in cui un Altro soffia la vita.

E il contrario dell’umiltà quale sarà? Il vizio dei vizi, la sintesi di tutti i vizi capitali qual è? Il peccato all’origine di tutti i peccati, tanto da chiamarsi peccato originale, qual è? L’abbiamo visto commentando la lupa del primo canto: il peccato di orgoglio, la presunzione di salvarsi con le proprie mani. Forse è questo il motivo per cui Ulisse è all’inferno: non ha voluto riconoscere la dipendenza dal Mistero, e così non ha accettato che la strada al compimento del suo desiderio fosse diversa da quella che aveva immaginato lui. Quando Dante è tentato dalla stessa presunzione, dallo stesso orgoglio, il suo tentativo fallisce miseramente, e posto davanti a una presenza improvvisa e gratuita può gridare finalmente il suo miserere: «Miserere di me […]/ qual che tu sii, od ombra od omo certo!». Che cosa si sentirà dire Dante da questo amico e maestro e compagno di viaggio – che è poi a un tempo Cristo, Maria, santa Lucia, Beatrice, Virgilio? Si sente dire: “Hai ragione: il tuo desiderio è giusto, è santo, è nobile, è quel che fa grande l’uomo”. Così dobbiamo dire di Ulisse: hai ragione perché il desiderio, «l’ardore […] di divenir del mondo esperto», è quel che ci fa uomini, è quel che rende interessante la giornata e la vita!

Ma che cosa fa la differenza? Che cosa Dante accetta e Ulisse no? Dante accetta di sentirsi dire da un altro: no! Il desiderio è giusto ma la strada è sbagliata: «a te convien tenere altro vïaggio/[…] se vuo’ campar d’esto loco selvaggio». A Ulisse manca quest’ultima obbedienza, cui la ragione rettamente usata dovrebbe condurre sempre l’uomo: la ragione avverte e riconosce questa ultima dipendenza dal Mistero che fa tutte le cose. Ulisse ha voluto che la propria ragione decidesse non solo la meta ma anche la strada. È un peccato di orgoglio, nella sua natura profonda simile a quello di Adamo, l’orgogliosa negazione della propria condizione di creatura, della propria ultima dipendenza.

Da questo punto di vista, proviamo a guardare il mondo così come l’hanno percorso i due personaggi: che colossale differenza! Ulisse perennemente alla superficie, gira il mondo in lungo e in largo ma ne sta fuori, rimane sempre alla superficie; Dante invece prende un punto e scende nelle profondità dell’abisso. Perché la novità della vita non è girare il mondo e fare tante cose, non è vedere tante cose, ma è vederne una nella sua verità; perché goduta la vista della verità, tutto si illumina del vero e tutto viene guadagnato: dentro un particolare, tutto l’universo viene guadagnato. Il problema non è ammassare conoscenze; il problema è la capacità di scendere in profondità.

Ecco perché avevo questa sensazione come di qualcosa di troppo piccolo! Ulisse ha lasciato moglie, padre, figlio obbedendo a quel desiderio; ma è proprio così che funziona? C’è qualcosa che già dentro il testo stride, sembra contraddire questa magnanimità, c’è qualcosa di troppo piccolo, qualcosa per cui quel girare in lungo e in largo quasi possedendo la terra intera non mi convince; e allora lo rileggo e dico: perché tre volte questo aggettivo «picciola»? «quella compagna picciola», «questa tanto picciola vigilia», «questa orazion picciola»: tre volte «picciola». C’è qualcosa di troppo piccolo, di angusto in questo tentativo, perché il mondo girato anche in lungo e in largo è poco.

Non può non venire in mente il Leopardi del pensiero 68 dello Zibaldone: «il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena né per dir così della terra intera [anche a girarla tutta in lungo e in largo], considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, la mole e il numero meraviglioso dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino [piccino!] alla capacità dell’animo proprio. Immaginarsi il numero dei mondi infiniti e l’universo infinito e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande di siffatto universo, e sempre accusare le cose di insufficienza e nullità, e patire mancamento e voto e perciò noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di umiltà che si vegga nella natura umana». Tutto è poco e piccino: «picciolo»! Dopo lo slancio magnanimo verso l’alto, verso il cielo, verso l’infinito, l’Ulisse dantesco ha evocato in me una riflessione successiva, guidato, provocato da Dante stesso, che nel primo canto del Purgatorio dice: metto queste tre parole uguali a quelle là, metto dei segnali lungo il percorso per aiutarti a capire quel che è successo a quello là, per aiutarti a leggere quella vicenda. In che cosa è stata tradita la natura del desiderio? Nell’orgoglio che ha impedito a Ulisse di riconoscere che gli conveniva «tenere altro viaggio».

 

Franco Nembrini: docente di letteratura italiana nella scuola secondaria per oltre vent’anni, è attualmente rettore del centro scolastico La Traccia di Calcinate (BG). Dalle sue innumerevoli letture dantesche in ogni parte d’Italia e all’estero sono nati i tre volumi di Dante poeta del desiderio, Itacalibri 2011-13.