Lugi Naldini racconta “Terapia genica, storia di un successo”

Luigi Nardini Fondazione Telethon

ATTUALITÀ PER LA CLASSE | Biologia

Continua a crescere il numero di bambini che ritrovano la speranza di vita grazie alla terapia genica con lentivirus: un risultato grandioso, arrivato dopo oltre vent’anni di ricerca su un’idea ardita e coraggiosa. E ora le possibilità terapeutiche sembrano tantissime.

di Valentina Murelli

Luigi Naldini ormai è una star. Nel mondo della ricerca biomedica lo conoscono tutti, perché è il ricercatore visionario che, circa 20 anni fa, ha avuto la temeraria idea di usare uno dei virus più pericolosi allora conosciuti – HIV, il virus dell’AIDS – come vettore per la terapia genica. E nel luglio del 2014, insieme alla sua équipe, ha annunciato al mondo, con due articoli sulla rivista “Science”, i primi successi clinici dell’uso di questo vettore per la terapia di due rare malattie genetiche, la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott Aldrich.
Malattie gravi, soprattutto la prima, che è spesso incompatibile con la vita.
I risultati pubblicati nell’articolo su “Science” si riferiscono ai primi tre pazienti di ciascuno studio e sono ottime notizie. I bambini stanno tutti bene. L’annuncio ha fatto il giro del mondo e Naldini si è trovato a spiegare i risultati della sperimentazione un po’ ovunque. Anche al festival della canzone di Sanremo, dove ha avuto una piccola manciata di minuti per raccontare – con un po’ di imbarazzo, dice lui – l’importanza della ricerca scientifica.
Grazie al sostegno della Fondazione Telethon, a oggi [n.d.r. dati aggiornati a novembre 2017] i bambini trattati sono in tutto 49 (29 affetti da leucodistrofia, 13 da sindrome di Wiskott-Aldrich e 7 pazienti talassemici). Nel caso della sindrome di Wiskott-Aldrich si conferma a pieno titolo l'efficacia della terapia: i piccoli pazienti trattati stanno tutti bene e hanno sviluppato un sistema immunitario funzionante e in grado di difenderli dalle infezioni. Nel caso della leucodistrofia, la terapia si sta effettivamente dimostrando in grado di cambiare la storia naturale della malattia, in termini di sopravvivenza e di qualità della vita, se somministrata nella fase pre-sintomatica. Altrimenti, la risposta dei singoli pazienti è molto variabile.

Ora che i riflettori si sono abbassati, è un buon momento per incontrarlo e farci raccontare in che cosa consista il suo lavoro. Lo abbiamo fatto nel suo ufficio al Tiget, l’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano: un ufficio piccolo ma ordinatissimo, ricavato a un passo dai laboratori.

Professore, per cominciare ci spiega di che malattie si tratta?
La leucodistrofia metacromatica è una malattia neurodegenerativa provocata dalla carenza di un enzima coinvolto nel metabolismo di un gruppo di sostanze chiamate sulfatidi. In assenza dell’enzima, i sulfatidi si accumulano (per questo si parla di malattia da accumulo), in particolare nella mielina, la struttura “isolante” che avvolge i nervi, e la danneggiano. Nei primi mesi di vita i bambini affetti sembrano sani, ma presto iniziano a perdere le capacità cognitive e motorie acquisite e la degenerazione diventa inarrestabile. La sindrome di Wiskott Aldrich è invece un’immunodeficienza, causata da mutazioni in un gene che, nelle cellule del sangue, promuove la comunicazione tra citoscheletro e superficie cellulare. I piccoli pazienti vanno incontro a infezioni continue e a disturbi della coagulazione del sangue e hanno un rischio più elevato del normale di sviluppare leucemie e linfomi.

Erano entrambe malattie senza terapia. Oggi, però, sembra che quella genica dia ottimi risultati. Come funziona esattamente?
In entrambi i casi il bersaglio è lo stesso: le cellule staminali del sangue (o ematopoietiche). Queste vengono prelevate dal paziente (è un prelievo di midollo osseo), trattate con il vettore contenente la versione corretta del gene responsabile della malattia e infine iniettate di nuovo nel paziente. Se tutto va bene, qui si mettono a produrre la proteina che mancava o era sbagliata. Nel caso della sindrome di Wiskott-Aldrich l’effetto è diretto, perché sono proprio le cellule ematiche a non funzionare. Nella leucodistrofia, invece, le cellule del sangue funzionano come una specie di “taxi” che trasporta la terapia là dove serve, e cioè al cervello e ai nervi. Nei 2/3 giorni in cui in laboratorio si lavora sulle cellule, il paziente viene “condizionato”, cioè sottoposto a una chemioterapia che prepara il suo midollo ad accogliere le cellule modificate. In pratica “si fa spazio”, eliminando un po’ delle staminali del paziente per far sì che quelle reinfuse riescano a ricolonizzarlo senza troppa fatica.

La procedura sembra semplice, ma ha richiesto anni di lavoro solo per mettere a punto un vettore efficace e sicuro. E allora torniamo all’idea di usare il virus HIV: come le è venuta?
Partiamo da un presupposto: più cellule prelevate al paziente riusciamo a modificare, inserendovi il gene terapeutico, migliore sarà il risultato. I primi vettori a disposizione erano poco efficienti, soprattutto perché funzionavano solo con cellule che si stavano replicando attivamente. Basti pensare che con i vettori di prima generazione si poteva modificare solo l’1-2% delle cellule. Ora, se è vero che i vettori di prima generazione, non lentivirali, potevano comunque funzionare per una malattia come l’immunodeficienza ADA-SCID, è altrettanto vero che per altre malattie servivano vettori più efficienti. E proprio mentre si facevano questi ragionamenti, una ventina d’anni fa, l’attenzione dei virologi si concentrava su HIV, da poco identificato come causa dell’AIDS. Certo HIV faceva paura, allora più di adesso perché non c’erano farmaci per tenerlo sotto controllo, però sembrava perfetto per la terapia genica: è un retrovirus, dunque inserisce i suoi geni nei cromosomi dell’ospite (un requisito fondamentale se vogliamo che la modificazione genetica si mantenga stabilmente) ed è molto efficiente nell’infettare le cellule umane, comprese quelle che non si stanno replicando. Si trattava solo di “domarlo” per renderlo innocuo.

Come ci siete riusciti?
Un virus “normale” non deve solo entrare nella cellula ospite: deve anche replicarsi al suo interno e deve farlo in fretta, per eludere il controllo del sistema immunitario. A noi, invece, bastava che il virus sapesse infettare la cellula. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo cominciato a “smontarlo”, togliendone i geni uno a uno per identificare quelli necessari all’abilità di vettore. Scoperti questi geni, abbiamo eliminato tutti gli altri, rimanendo con un virus minimale, efficace ma allo stesso tempo sicuro. Alla fine, il nostro vettore contiene solo tre geni codificanti per proteine coinvolte nell’infezione delle cellule, più alcune sequenze che fanno da cornice al gene terapeutico, inserito con il suo promotore specifico: in tutto è il 15-16% del genoma originario del virus. Poiché HIV è un lentivirus, si parla di vettore lentivirale: un sistema sicuro, che permette un’efficienza di modificazione delle cellule prelevate al paziente di quasi il 100%.

Si sa dove finisce il gene terapeutico, nel genoma delle cellule trattate?

Purtroppo no e questo oggi è uno dei limiti della tecnica. L’inserzione del vettore con il gene terapeutico non è proprio del tutto casuale, ma può avvenire più o meno ovunque nel genoma. Il che è un problema, perché in alcuni casi potrebbe interrompere dei geni o perturbarne l’espressione, con conseguenze anche molto gravi, come l’innesco di un processo di trasformazione tumorale. Rispetto ai primi vettori, in realtà, questo rischio è ora meno probabile, perché progettiamo le nostre “navette” in modo che, indipendentemente dal punto di inserzione, gli effetti sui geni circostanti siano ridotti. Però non possiamo escluderlo del tutto. Ecco perché si sta lavorando su nuovi sistemi che permettono di mirare l’integrazione in modo preciso.

Oltre a questo aspetto, c’è il fatto che il vettore può finire in un posto diverso in ciascuna delle cellule modificate: è un problema?
Al contrario, è un vantaggio, perché significa che disponiamo di un marcatore unico per ogni cellula modificata, che ci permette di seguire, per ogni paziente, la dinamica esatta dell’emopoiesi. A grandi linee sappiamo come avviene il differenziamento delle cellule staminali del sangue, ma ora abbiamo uno strumento che ci permette di seguirlo da vicino, praticamente in diretta, verificando che cosa accade alla progenie di ognuna delle cellule modificate.

Aspetti un momento: significa che andate a vedere per ogni singola cellula trattata dove si è inserito il vettore? Ma è un lavoro immenso!
Be’, sì: in effetti abbiamo generato miliardi e miliardi di sequenze. Ma niente paura, è per lo più lavoro automatizzato.

Dopo i primi successi con la leucodistrofia e la sindrome di Wiskott-Aldrich è il momento di guardare avanti: di che cosa si sta occupando?
L’obiettivo è migliorare gli strumenti a disposizione, per poter applicare la terapia genica a un numero sempre maggiore di malattie. Noi, come altri gruppi di ricerca nel mondo, lavoriamo in particolare su due aspetti: uno l’ho già citato, è quello dell’inserzione mirata del gene terapeutico nel genoma. Il secondo è quello del controllo fine dell’espressione genica.

Partiamo dal primo: come si fa a centrare il bersaglio?
Con le nuove tecniche di gene editing o chirurgia del DNA, che permettono di modificare il DNA in modo puntiforme, esattamente dove desiderato. Il team di Naldini continua a lavorare su varie tecniche di gene editing. Tra le tecniche utilizzate, oltre alle nucleasi zinc-finger, c'è la tecnica CRISPR. Uno studio recentissimo suggerisce la possibilità di utilizzarla per il trattamento dell'immunodeficienza severa combinata X1-SCID. Il bello è che possiamo disegnare a tavolino proteine capaci di legare e tagliare proprio la sequenza che ci interessa, il che ci permette di fare due cose: inattivare geni o, appunto, integrare sequenze esterne in punti precisi del genoma. Nel primo caso sono già in corso alcuni tentativi di applicazione clinica.

Ci può raccontare qualcosa di più?
C’è una storia molto bella che parte da lontano, da un paziente malato di AIDS che a un certo punto aveva sviluppato un linfoma. Per curare la nuova malattia, il paziente era stato sottoposto a un trapianto con cellule staminali prelevate da un donatore il quale, per caso, aveva una delezione in un gene chiamato CCR5, che codifica proprio per un recettore per il virus HIV presente sui linfociti. Per entrare nei linfociti, il virus ha bisogno di legarsi a questo recettore, che però è assente in chi ha la delezione di CCR5. In effetti, si sapeva già che le persone con la delezione tendono a non infettarsi con HIV, ma la cosa sorprendente è stato scoprire che, dopo il trapianto di staminali, il paziente con il linfoma è guarito dall’AIDS. Da qui l’idea di provare a distruggere il gene CCR5 a scopo terapeutico. Come? Prendendo i linfociti dei malati di AIDS, inattivando il gene con una proteina zinc-finger progettata ad hoc e re-iniettando i linfociti modificati nei pazienti. Sono in corso i primi studi sull’uomo e sembrano molto promettenti.

Veniamo al secondo obiettivo del gene editing, l’integrazione mirata.

In questo caso la chiave dell’operazione è un meccanismo naturale che la cellula mette in atto quando si rompe del DNA, per ripararlo, e che noi cerchiamo di sfruttare a nostro vantaggio: la ricombinazione omologa. Si tratta di un meccanismo piuttosto complesso, ma possiamo provare a spiegarlo così: quando si verifica un taglio nel DNA, la cellula cerca appunto di ripararlo. Il modo migliore per farlo è cercare una sequenza omologa alla regione tagliata e copiarla. Noi possiamo sfruttare la ricombinazione omologa se nello stesso momento in cui tagliamo il DNA in un posto specifico con una proteina zinc-finger somministriamo alla cellula anche la sequenza che vorremmo introdurre, inserita in una regione più ampia omologa a quella tagliata. L’apparato molecolare di riparazione della cellula copierà quella regione nella zona del taglio, finendo con l’introdurre la sequenza che ci interessa (per esempio, la copia funzionante di un gene difettoso). È chiaro che stiamo parlando di una tecnologia estremamente innovativa, ma come se non bastasse ce ne sono altre analoghe all’orizzonte.

E per quanto riguarda il controllo dell’espressione genica?
Il punto è questo: le terapie geniche finora disponibili esprimono il gene terapeutico in modo poco controllato, praticamente ovunque. Per ora non è stato un problema, ma in futuro avremo bisogno di sistemi di regolazione molto selettivi, che permettano di accendere il gene solo in certe cellule o solo in certi momenti della loro vita. Ci sono due modi principali per regolare l’espressione genica: a livello di trascrizione, “giocando” sul promotore, la sequenza che dà appunto il via alla trascrizione, oppure dopo, lavorando sui cosiddetti micro-RNA. A livello trascrizionale si può fare poco, sia perché nei vettori riusciamo a mettere solo una piccola parte dei promotori originari del gene terapeutico, sia perché, una volta integrato nell’ospite, questo può essere influenzato anche da sequenze regolatorie di altri geni. Per questo si sta puntando sempre più sui microRNA, piccole sequenze di RNA (10-12 paia di basi) presenti nelle cellule, che di fatto bloccano la traduzione degli RNA messaggeri ai quali sono complementari, promuovendone la distruzione. Poiché ogni cellula ha un suo particolare corredo di microRNA, complementari solo a certi RNA messaggeri, è un meccanismo di controllo molto specifico. Dunque l’idea è aggiungere al vettore sequenze complementari a microRNA presenti nelle cellule in cui non vogliamo che si accenda il gene terapeutico. Si tratta dunque di mettersi al computer e ingegnerizzare il vettore, in modo che abbia un promotore che lo accende in certe cellule e uno o più microRNA che lo spengono in altre. Come se fosse un algoritmo: qui sì, qui no, qui no.

Ci può fare un esempio concreto?
Prendiamo il caso della leucodistrofia globoide, malattia neurodegenerativa causata dalla carenza di un enzima della stessa via biochimica alla quale appartiene l’enzima carente nella leucodistrofia metacromatica. Quando abbiamo visto che, nel topo, la terapia genica per quest’ultima malattia funzionava, abbiamo pensato subito di replicarla anche per la leucodistrofia globoide. Pensavamo che fosse un esperimento semplice, per un giovane apprendista di laboratorio, in cui bastava sostituire il gene terapeutico nel vettore. E invece non ha funzionato per nulla perché il nuovo gene terapeutico, inserito nelle cellule staminali del sangue, risultava tossico. Le uccideva. Avevamo quindi bisogno di un sistema che mantenesse il gene spento nelle staminali e lo lasciasse funzionare nelle cellule mature e abbiamo provato a inserire nel vettore una sequenza complementare a un microRNA presente nelle staminali. In effetti ora la terapia funziona, almeno nel topo, e sarà una delle prossime che proveremo nell’uomo.

Sta parlando di sperimentazione sui topi. Immaginiamo che non fosse possibile lavorare con gli animali. A che punto saremmo?
A zero, non ho dubbi. In campo biomedico, soprattutto per terapie avanzate come queste, non possiamo proprio fare a meno della sperimentazione animale. Abbiamo una comprensione ancora troppo modesta di quello che succede in un organismo e non c’è modo di ricostruire certe dinamiche in vitro o al computer. Stiamo parlando di cellule ingegnerizzate che devono diffondersi in un organismo e dare origine ad altre cellule... Davvero pensa che si potrebbero applicare senza prima averle sperimentate da qualche parte? Provarle per la prima volta in un bambino mi sembra ancora più eticamente discutibile che provarle in un topo. Insomma, c’è una logica forte dietro a questi esperimenti sugli animali, non sono condotti a vuoto. E poi bisogna rendersi conto che esistono regole molto rigide, che impongono di tenere sempre presente il benessere degli animali. Nessun ricercatore ci lavora volentieri, ma se pensiamo alle grandi sofferenze di certi pazienti, riusciamo a gestire la difficoltà di sottoporre un animale a una sperimentazione.

Torniamo infine a quella sua idea di lavorare con HIV. Non le faceva paura maneggiarlo?
Assolutamente sì. Ne abbiamo discusso a lungo con il mio capo di allora, Inder Verma, al Salk Institute. Però il lavoro con materiale biologicamente a rischio era già codificato e comunque già allora c’era chi, nei laboratori d’analisi, veniva a contatto con il virus. Si trattava di usare le precauzioni adeguate e del resto i timori aiutavano a mantenere la concentrazione.

E il rischio scientifico? In fondo era un azzardo, il progetto poteva anche fallire...
Già, per più di un anno ho pensato che sarebbe fallito! All’inizio ci sono stati un sacco di problemi, di cose che non funzionavano, di risultati mancati e di frustrazioni. Però è chiaro che i progetti innovativi sono anche rischiosi: se hai la certezza che un progetto funzioni, significa che non è innovativo. Io in realtà ero nella condizione di poter rischiare: avevo già mosso i primi passi come ricercatore indipendente ed ero andato in California proprio per fare un’esperienza nuova: allora di virologia sapevo poco e di biologia molecolare ancora meno, ma mi sono messo a studiare. Ho passato i primi due mesi al Salk Institute in biblioteca, per cercare di capire come fare. Certo era un azzardo, ma non bisogna aver paura del fallimento, lo dico sempre ai miei collaboratori. Bisogna perseguire le proprie idee, se ci si crede davvero bisogna anche essere un po’ ostinati. Allo stesso tempo, però, bisogna anche sapersi fermare: chiudere un progetto che non va e cambiare strada è una delle cose più difficili da fare nella ricerca scientifica, ma anche questo fa parte del gioco. In quei due anni al Salk ho imparato tantissimo, di tecniche e di conoscenze. Se il vettore lentivirale non avesse funzionato, avrei chiuso l’esperienza e fatto altro.

Nota: i dati di questo articolo sono stati aggiornati a novembre 2017.

PAROLE CHIAVE

  • Immunodeficienza Malattia che colpisce il sistema immunitario e si manifesta con la tendenza a contrarre infezioni frequenti e particolarmente gravi. Può essere associata a malattie autoimmuni, allergie e tumori del sistema linfatico.
  • Promotore Sequenza di DNA, posta in genere all’inizio di un gene, che rappresenta il segnale di attivazione per la trascrizione del gene stesso.
  • Recettore In generale, molecola localizzata sulla membrana cellulare o all’interno delle cellule in grado di legare in modo specifico altre molecole (per esempio componenti di virus o batteri).
  • Terapia genica Tecnologia terapeutica che consiste nell’introduzione in una cellula ospite di materiale genetico opportunamente modificato.
  • Trascrizione Sintesi di RNA messaggero a partire da uno stampo di DNA. È il primo passo per l’espressione di un gene.
  • Traduzione Sintesi di una catena proteica a partire da una molecola di RNA messaggero. Avviene nei ribosomi.
  • Vettore Per la terapia genica Sistema molecolare in grado di trasferire nella cellula ospite il materiale genetico terapeutico, come se fosse una navetta di trasporto. In genere si tratta di porzioni di materiale genetico virale.

NON SOLO MALATTIE RARE

Il primo, straordinario, successo della terapia genica, agli inizi degli anni 2000, è stato quello con ADA-SCID una rara e gravissima malattia ereditaria che compromette le difese immunitarie, al punto che i bambini colpiti sono costretti a un isolamento totale per evitare infezioni. Da allora sono sempre più numerosi gli interventi di terapie genica – con vari tipi di vettori e vari tipi di cellule bersaglio – che hanno dato buoni risultati, anche se per il momento ancora su numeri ridotti di pazienti. Sono state trattate, per esempio, malattie oculari che causano cecità, come la coroideremia o l’amaurosi congenita di Leber, ma anche emofilia di tipo B: in questo caso la terapia è stata diretta verso le cellule del fegato, messe in grado di sintetizzare un fattore di coagulazione mancante. E ancora: in Francia sono già stati fatti tentativi di terapia della beta-talassemia lo studio clinico è partito nell’autunno del 2015 e prevede in totale il trattamento di 10 pazienti, 3 adulti e 7 pediatrici. Non sono ancora stati pubblicati studi, ma in base a quanto comunicato a vari congressi si può dire che la terapia si sta dimostrando sicura e in grado di ridurre significativamente il ricorso alle trasfusioni. È però ancora presto per trarre conclusioni definitive.
All’orizzonte, però, non c’è solo il trattamento delle malattie ereditarie: ora la vera sfida è costituita dal cancro e dall’uso di cellule del sistema immunitario ingegnerizzate per combattere il tumore. Anche in questo caso l’équipe di Luigi Naldini è in prima fila. Già alcuni anni fa, i ricercatori milanesi erano riusciti a ottenere popolazioni consistenti di linfociti con un recettore specifico per le cellule tumorali, che può essere costruito “su misura” per ogni paziente. Più di recente, inoltre, hanno sviluppato macrofagi, un altro tipo di cellule immunitarie, che esprimono una potente sostanza antitumorale. «È un campo che sta esplodendo» commenta Luigi Naldini. «Per ora le prime applicazioni riguardano i tumori del sangue, ma qualcosa si muove anche nell’ambito dei tumori solidi.»

CHI È LUIGI NALDINI

Luigi Naldini è medico di formazione: si è laureato in medicina e chirurgia nel 1983 all’Università di Torino, ma più che di clinica si è da subito occupato di ricerca. Dopo un dottorato in scienze citologiche e morfogenetiche, dedicato alla biologia dei tumori, ha cominciato a interessarsi di terapia genica. Ha trascorso vari periodi di ricerca all’estero, negli Stati Uniti. Tra il 1994-1996 ha lavorato nei laboratori di Inder Verma e Didier Trono, al Salk Institute di La Jolla, ideando e sviluppando i primi vettori lentivirali derivati da HIV.
Oggi è professore ordinario di istologia presso l’Università Vita Salute del San Raffaele di Milano e dirige sia l’Istituto Telethon San Raffaele per la Terapia Genica sia la Divisione di Medicina Rigenerativa e Cellule Staminali, sempre del San Raffaele. È presidente della Società europea di terapia genica e cellulare.

 

Valentina Murelli è giornalista e science writer freelance.