Uso o abuso?
Ormai non ci facciamo quasi più caso, ma spesso utilizziamo una parola inglese quando potremmo benissimo impiegare quella italiana corrispondente: weekend al posto di fine settimana, trendy anziché alla moda, strong anziché forte.
La questione dell’uso o dell’abuso di forestierismi e di anglicismi in particolare nella lingua italiana è tornata alla ribalta grazie alla prima edizione del Nuovo Devoto-Oli, il vocabolario dell’italiano contemporaneo (2017) nella quale compare anche un «pronto soccorso linguistico» con 200 schede dedicate proprio agli anglicismi, in una rubrica chiamata Per dirlo in italiano. Ne hanno parlato Paolo Conti sul “Corriere della Sera” il 17 settembre 2017 (Provate a dire «feedback» in italiano. Sezione di «pronto soccorso linguistico» per i 50 anni del Devoto-Oli. Così si evitano gli anglicismi) e anche Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana” il 20 settembre 2017 (E il vocabolario disse: "dillo in italiano").
Presentiamo una breve galleria di termini inglesi ormai di uso frequentissimo, solo a titolo esemplificativo; per un elenco più ampio si può vedere l’articolo di Elvira Serra sul “Corriere della Sera”, Le parole straniere che usiamo (e come sostituirle con l’equivalente italiano).
- Abstract: utilizzato spesso in ambito scientifico, è entrato nell’uso corrente ormai da oltre mezzo secolo; al suo posto si potrebbe dire tranquillamente sommario, sintesi, riassunto.
- All inclusive: quante volte lo diciamo scegliendo un viaggio, per dire che nel prezzo sono inclusi pasti, bibite, alloggio e ogni altro servizio, e non diciamo tutto compreso.
- Backstage: in questo caso si può proprio dire che la parola inglese abbia completamente sostituito il corrispettivo italiano; chi mai direbbe “siamo stati nel retropalco (o dietro le quinte) per farci firmare un autografo dalla banda (ovvero dalla band)?”
- Bipartisan: è entrato in uso in Italia negli anni novanta del secolo scorso, in occasione di una modifica del sistema elettorale, per rendere meglio l’idea di qualcosa condiviso da maggioranza e opposizione, o comunque da persone di opposto orientamento politico, invece dell’italiano bipartitico o meglio di trasversale, che sembrerebbe del tutto adatto.
- Fan: l’abbreviazione dell’inglese fanatic, fanatico, entrato in italiano nel 1933 per indicare un ammiratore di un divo del cinema; ci sarebbero anche appassionato, fedelissimo e tifoso.
- Party: c’è festa! Il sostantivo inglese è a sua volta di origine francese, ed è entrato nell’uso in italiano nel primo Novecento.
La diffusione di parole inglesi a scapito delle rispettive italiane aveva destato preoccupazione e perplessità già negli anni passati e non solo nei compilatori dei vocabolari.
Annamaria Testa, pubblicitaria, consulente e docente, aveva lanciato sulla piattaforma change.org una petizione (#dilloinitaliano) “per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano”, che aveva raccolto quasi 70.000 firme. Ora sul suo sito nuovoeutile.it ha pubblicato una lista di parole che si potrebbero usare in italiano ma che spesso, ormai, si usano in inglese, invitando tutti a contribuire alla ricerca dei termini e scatenando una vera e propria caccia in rete.
Dopo le firme raccolte da #dilloinitaliano e dopo il convegno fiorentino del 23-24 febbraio 2015 su “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi” è diventato attivo presso l’Accademia della Crusca di Firenze il gruppo “Incipit”, che ha lo scopo di monitorare i neologismi e forestierismi nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede. Ne fanno parte studiosi italiani e svizzeri, tra gli altri Valeria Della Valle, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Luca Serianni e Annamaria Testa.
Il gruppo esprime un parere sui forestierismi di nuovo arrivo e, “respingendo ogni autoritarismo linguistico, per lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile”, suggerisce alternative agli operatori della comunicazione e ai politici. Per avere un’idea del lavoro svolto da Incipit si possono consultare tutti i comunicati stampa del gruppo. Tra le proposte di sostituzione di parole inglesi con termini italiani avanzate dal gruppo Incipit segnaliamo a titolo di esempio:
Hot spot → Centro di identificazione
Voluntary disclosure → Collaborazione volontaria
Stepchild adoption → Adozione del figlio del partner
Benchmark → parametro di riferimento
Tool (es.: learning tool, teaching tool) → strumento
Student (o client) satisfaction (es.: monitoraggio della student satisfaction) → soddisfazione dello studente (dell’utente)
Debriefing → resoconto
peer review → revisione tra pari
valutazione della performance → valutazione dei risultati
abstract → sommario o sintesi
feedback (es.: cultura del feedback) → riscontro
road map → piano operativo, cronoprogramma
deadline → termine ultimo, scadenza.
Un’idea dell’effetto straniante, che l’invasione delle parole inglesi può generare, ci viene data dall’inizio dell’intervento di Mario Barenghi (L’italiano non è sexy):
Un sordo fastidio per espressioni correnti e andanti come “open day” o “summer school”. Un principio di irritazione per diciture quali “job placement”, “problem solving”, “incoming student” (spesso semplificato in “incoming”). Un’irritazione più marcata per “welfare”, “mission” e “customer care”. Una desolata rassegnazione alla pronuncia anglicizzante di parole come “tutor” o “media” (tiútor, mídia) – che peraltro si tramuta immediatamente in orticaria all’emergere occasionale (ma capita, eccome se capita) di “tutoraggio” pronunciato tiutoraggio.
O ancora risulta divertente l’esordio di un monologo del comico Enrico Brignano, citato da Giuseppe Antonelli in Un italiano vero (Rizzoli, 2016, p. 69):
Sai, ho avuto all’Holiday inn una convention, ho fatto un marketing di un franchising, un business, abbiamo fatto un brunch, un sit-in, un check-up. Scusa che lavoro fai? Il cocomeraro.
Un aspetto ulteriore e interessante di questo fenomeno è costituito dalla formazione di parole derivate dai nomi di aziende o software informatici inglesi o americani, di cui un ultimo esempio, dopo termini come googolare, o photoshoppato o twittare, già da tempo attestati in italiano e accolti nelle più recenti edizioni dei dizionari, è il verbo whatsappare: come spiega Stefano Olmastroni nel sito dell’Accademia della Crusca (whatsappiamo), il verbo fa riferimento alla comunicazione attraverso WhatsApp, un’applicazione di messaggistica istantanea, e viene usato al posto di “mandare un messaggio su WhatsApp”; “contattare su WhatsApp”.
Siamo di fronte a un’emergenza di cui allarmarsi?
Come notano Luca Serianni e Giuseppe Antonelli in Manuale di linguistica italiana (Bruno Mondadori, 2011) “Parlare di italiese e di itangliano è davvero eccessivo; in tutti i recenti dizionari dell’uso la quota degli anglicismi non adattati rimane al di sotto del 2%. Sono soprattutto i media a offrire l’immagine di un italiano (artificialmente) saturo di parole ed espressioni angloamericane. Sempre alla ricerca di un registro brillante, la sovreccitata lingua della comunicazione di massa ricorre con larghezza innaturale al fascino indiscreto delle parole inglesi.” Tuttavia, se prendiamo in considerazione le parole entrate nell’uso dell’italiano più recente, dice Giuseppe Antonelli in Un italiano vero (cit.) “dal Duemila ad oggi quasi la metà delle parole nuove entrate nel vocabolario sarebbe costituita da parole inglesi. Non dobbiamo mai dimenticarci, però, che solo poche di queste parole rimarranno a lungo nell’uso.”
Come si spiega la crescente invasione degli anglicismi?
In un’intervista del 2013 Valeria Della Valle notava come “nella politica le espressioni inglesi vengono adottate per imitazione, per pigrizia o per inutile sfoggio: da question time a Jobs Act , da bipartisan a exit poll. Diverso è il caso della lingua dell’economia, nella quale i termini inglesi diventano internazionali ed è difficile proporne le traduzioni in ogni lingua (spread e default per esempio). Ancora diverso il caso della pubblicità, che deve attirare l’attenzione, e spesso lo fa preferendo parole o espressioni che sembrano dotate di maggior fascino solo perché inglesi”.
Claudio Marazzini sosteneva nel 2015 in Perché in Italia si è tanto propensi ai forestierismi? (In La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, Accademia della Crusca, Firenze, 23-24 febbraio 2014): “Le ragioni per le quali in Italia si è tanto propensi al forestierismo mi paiono le seguenti: manca troppo spesso il senso di identità collettiva che rende uno stato saldo nella coscienza dei cittadini, manca una buona conoscenza della propria storia e della propria lingua tale da restituire il senso di appartenenza alla cultura nazionale. Il cittadino italiano, fuor che per il cibo, e anche per questo oggi meno di un tempo, è non di rado una specie di apolide, anche se spesso svantaggiato e poco integrabile all’estero. Con queste basi e radici, i giovani sono facilmente pronti a staccarsi dalla realtà nazionale e a tagliare i ponti, quei pochi che restano. La classe dirigente soffre di un altro vizio, che a sua volta favorisce il forestierismo: cambiare le parole costa poco o nulla, e a volte dà l’illusione di aver cambiato le cose.”
Dello stesso avviso sono Luca Serianni e Maurizio Trifone che nell’introduzione della prima edizione del Nuovo Devoto-Oli affermano che «in tanti casi un anglicismo è frutto di una semplice inerzia e magari di una certa quota di provincialismo», in altri casi può esserci «una matrice snobistica». Tuttavia segnalano fenomeni di ritorno: allegato al posto dell’ostico attachment, o pausa caffè sempre più frequente al posto di coffee break. E del resto come ricordava nell’intervista già citata Valeria Della Valle, perché complicarsi la vita (e la pronuncia) con rumour se abbiamo a disposizione pettegolezzo, chiacchiera, voce, voce di corridoio?