Ha casa

La possibilità di imparare sempre e senza paure

RACCONTI DI CITTADINANZA

Il racconto di Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista, è un dolce viaggio attraverso la sensibilità, le fragilità e i segreti dei giovani di oggi e descrive mirabilmente l’importanza della cultura.

di Alessandro Zaccuri

Questo racconto rappresenta uno spunto per riflettere sull’importanza dell’educazione. Nella rubrica “Libri in classe” proponiamo altre letture interessanti che indagano la bellezza del sapere e l’educazione nelle sue diverse sfumature: come fonte di crescita sul piano emotivo o intellettuale, come arma vincente contro la violazione delle libertà o ancora come desiderio personale di istruzione.

 

All’improvviso Martina si ricordò di quando la nonna le diceva: «Leggi tu, ho lasciato gli occhiali di là». Da bambina non ci faceva caso, girava verso di sé il libro delle ricette e iniziava a declamare ingredienti, casseruole, tempi di cottura. Era come un gioco tra lei e la nonna, che ogni tanto si divertiva a correggerla: «Ma che scàrola e scàrola – scherzava – scaròla si dice, possibile che a scuola non vi insegnano niente?». Già qualche anno dopo, lasciato dietro di sé il tempo incantato dell’infanzia, Martina non poteva fare a meno di ammettere che lei con gli occhiali la nonna non l’aveva mai vista. Non era neppure un sospetto, solo un dettaglio fuori posto del quale aveva deciso di non curarsi, presa com’era dagli affanni dell’adolescenza. Ma quando era diventata adulta, non aveva più avuto dubbi: non era degli occhiali che la nonna aveva bisogno, ma di qualcuno che leggesse al posto suo. L’italiano stentato le permetteva giusto di firmare qualche documento e di decifrare le scritte, a loro volta incerte e non di rado sgrammaticate, che distinguevano l’uno dall’altro i tanti barattoli della sua cucina favolosa. Non ne avevano mai parlato, ma che la nonna fosse quasi del tutto analfabeta era ormai uno dei loro segreti.

Con Mirko era andata in un altro modo. Perché se ne era innamorata subito, certamente.
Le era bastato entrare nel locale e vedere quel ragazzo che da dietro il bancone si voltava verso di lei. Lui le aveva sorriso e lei aveva pensato “Speriamo che non sia fidanzato”. Non “Ma che simpatico, ma che carino”. Questo era evidente, il mondo intero si sarebbe fermato ad ammirare quegli occhi scuri, quella bocca, quelle mani che si muovevano veloci tra bottiglie e bicchieri. Ignorava tutto di lui, sapeva soltanto che lo voleva per sé.
«Anche tu mi sei piaciuta subito», le aveva detto Mirko qualche giorno più tardi.
«Più di Antonella?», aveva replicato lei. Antonella era la collega con cui era uscita quella sera, più alta, meno delicata di lineamenti, più aggressiva e vistosa.
«Io Antonella non mi ricordo nemmeno com’è fatta – aveva concluso Mirko – Sei entrata tu e basta, non ho capito più niente».
Mirko aveva trent’anni e da due aveva aperto il suo locale in una delle vecchie cantine scavate sotto le mura. Vini del territorio, aperitivo a partire dalle 18, ma già alle 20 si può ordinare dalla cucina e da lì in poi si va avanti fino a notte fonda. Per una piccola città di provincia era ancora una novità e il posto continuava ad avere successo. Martina, che a Milano aveva maturato una discreta esperienza tra cenette e happy hour, aveva cominciato presto a dargli qualche consiglio, che a quanto pare era stato apprezzato dalla clientela. Dopo tre mesi che loro due stavano insieme, in giro già si diceva “ci vediamo dalla milanese” per riferirsi a quello che, secondo l’insegna, sarebbe stato “Il Covo di Mirko”.
Di lui le piaceva tutto, compresa la storia della scuola lasciata poco prima della maturità all’alberghiero, degli anni trascorsi a fare esperienza in giro per l’Europa, dell’inglese imparato a orecchio nelle cucine di Amsterdam e di Stoccolma: una lingua fantasiosa e imperfetta che non mancava di incuriosire i turisti di passaggio. Le americane di mezza età, in particolare, facevano a gara nell’indovinare da dove venisse quell’accento tanto stravagante. «That’s our secret», interveniva allora Martina con la sua pronuncia da British Council e la discussione finiva lì, con una smorfia spazientita della californiana. Era contenta che anche con Mirko, come con la nonna, ci fosse un segreto da custodire.

Aveva provato a spiegargli qualcosa del suo lavoro, ma dopo un po’ lui l’aveva interrotta.
«Non mi interessa quello che fai, amo quello che sei», le aveva detto. Era una delle sue frasi a effetto, forse troppo facili e perfino artefatte, di quelle che nei social si trovano a manciate. Lui però sapeva ripeterle con un’innocenza che la lasciava stordita. Così Martina aveva lasciato perdere le regole della società di revisione, le clausole del primo contratto, la procedura da seguire con i clienti, e una volta di più si era abbandonata allo stupore di quell’intesa perfetta. Amavano gli stessi film, la stessa musica. Entrambi, a volte, avevano il sospetto di appartenere a un altro tempo, a epoche di cui conoscevano solo qualche frammento illuminato dall'immaginazione. Giocavano con le ipotesi, si appassionavano alle vite che non avevano vissuto. Trenta, quarant’anni prima, Mirko avrebbe gestito un pub a Berlino Est, proprio a ridosso del Muro, e Martina sarebbe arrivata lì al seguito di un circo, come nel film di Wim Wenders. «Quello degli angeli, hai presente? – aggiungeva lei – Pensa che i dialoghi li aveva scritti Peter Handke, sai il premio Nobel? Tu hai letto niente di suo?»
No, Mirko non conosceva Pomeriggio di uno scrittore e neppure Breve lettera del lungo addio. In genere, aveva letto poco, confessava, e adesso leggeva ancora meno. «Con il locale il tempo non basta mai – si lamentava – La musica non è un problema, puoi lasciarla sotto mentre lavori. Ma per leggere devi stare lì tranquillo. Sai, a me i libri piace gustarmeli. I film, invece, puoi guardarli mentre fai altro. E le serie tv lo stesso».
Entrambi conoscevano a memoria molti episodi di Game of Thrones e così, per festeggiare un mese da quando si erano incontrati, Martina aveva deciso di regalargli il primo volume del Trono di Spade.
«Eh, ma quante pagine – aveva protestato Mirko mentre la abbracciava e rideva – Mi tocca metterlo da parte per quando andiamo in vacanza, mi sa». Lei però non gli aveva dato retta e a ogni anniversario, il 7 di ogni mese, era arrivata con un libro di George Martin infiocchettato di rosso. Lui all’inizio voleva lasciarli lì, a fianco della cassa, ma lei aveva insistito perché li portasse a casa. «Una casa senza libri è come un corpo senz’anima», gli aveva sentenziato citando una frase pescata sul web.
«È Cicerone», aveva aggiunto e a sentire quel nome, “Cicerone”, Mirko aveva ceduto, come se si stesse parlando di qualcuno che è meglio non contraddire. Forse si sentiva addirittura in colpa, aveva poi pensato Martina, perché da lui in effetti i libri erano pochissimi, radunati su una mensola piccola e triste a metà del corridoio. Due o tre guide della Lonely Planet, un romanzo di Camilleri, il quarto volume di Harry Potter. “Meno male che adesso ci sono io e lo aiuto a farsi una biblioteca”, si compiaceva a volte Martina e anche quello le sembrava un segreto che gli altri non avrebbero potuto capire.
Il locale di Mirko era diventato la sua nuova casa, gli amici di Mirko erano diventati i suoi nuovi amici. Tranne Gianfranco, un commercialista sui cinquanta che arrivava ogni sera un quarto d’ora prima dell’apertura, pretendeva una bottiglia di vermentino tutta per sé e se ne andava senza mai pagare, limitandosi a fare un cenno che, a sentire Mirko, significava “metti sul conto”. Lei aveva provato a protestare, ma lui le aveva detto di non preoccuparsi, che Gianfranco era un amico dei suoi genitori, si conoscevano da una vita. Gli teneva in ordine i conti e comunque, a fine anno, saldava sempre i debiti e lasciava pure la mancia per Ada, la cameriera.
Non passava giorno che Martina e Mirko non si vedessero, non c’era sera che lei non lo raggiungesse al locale. Non si scambiavano troppi messaggi, perché lui non voleva rischiare di disturbarla mentre era al lavoro. Al massimo un vocale su WhatsApp verso una cert’ora, per farle sapere che gli mancava o per prometterle una piccola sorpresa.

Ma un lunedì, giornata di chiusura, lo smartphone di Martina aveva vibrato per una notifica e lei si era affrettata a controllare. Era un messaggio di Mirko: «Ciao amore ti aspetto ha casa».
Fu allora che le tornò in mente la nonna. Era la prima volta che vedeva qualcosa di scritto da Mirko e in quella frase c’era un errore di ortografia. Non c’era neppure la punteggiatura, a voler fare i difficili, e purtroppo sull’argomento Martina era molto esigente. Se la prendeva sempre con i colleghi che nelle relazioni componevano frasi lunghissime, senza mai lasciar cadere una virgola, due punti, figurarsi un punto e virgola. «Guarda che è tutto gratis, basta cercare sulla tastiera» diceva lei e c’era sempre qualcuno che finiva per aversene a male. Per Mirko un’eccezione l’avrebbe fatta, anzi: un po’ le piaceva che fra quel “Ciao amore” e “ti aspetto” non ci fossero pause né interruzioni, perché così è l’amore: deve andare di fretta, altrimenti non va da nessuna parte. “Ha casa”, però, non si poteva perdonare. Non poteva essere colpa del correttore automatico. L’unica spiegazione era che, come la nonna, anche Mirko avesse lasciato gli occhiali di là.
Continuò a pensarci tutto il pomeriggio e, più ci pensava, più si accorgeva che c’erano dettagli ai quali non aveva voluto dare peso. Quando firmava le bolle di consegna, per esempio, Mirko se la cavava con uno sgorbio nel quale non si riuscivano neppure a distinguere le iniziale di nome e cognome. Che non leggesse libri già lo sapeva, ma ora si accorgeva di non averlo mai visto sfogliare un giornale. A volte, quando un cliente si portava appresso il quotidiano locale, lui chiedeva quali fossero le notizie del giorno e Martina aveva sempre pensato che fosse solamente un modo per attaccare discorso, tanto le sembrava assurda quella richiesta di informazioni a sera ormai inoltrata. Le locandine erano in giro dal mattino, possibile che Mirko non le avesse viste? Viste sì, si rispondeva adesso, ma magari non riusciva a leggerle di corsa per strada. E anche gli ordini, ora che ci rifletteva, Mirko li prendeva sempre a memoria, dando l’impressione che fosse un gioco di abilità nel quale gli piaceva eccellere. In cassa, invece, preferiva che andasse Ada. «Mi fido di lei più che di me stesso», aveva detto una volta e Martina aveva creduto che stesse esagerando per farla ingelosire, perché la ragazza era proprio carina, nonostante i troppi piercing che portava all’orecchio. Ed era Ada, ancora lei, che teneva aggiornata la pagina Facebook del locale, nel quale Mirko si limitava ad apparire spavaldo in fotografia oppure a mettere un “mi piace” di tanto in tanto. Anche il vermentino di Gianfranco, a questo punto, trovava una spiegazione. Probabilmente era lui, l’amico di famiglia, a gestire i contratti, pagare l’affitto e le bollette, seguire per intero l’amministrazione del locale.

“Avrebbe dovuto dirmelo”, continuava a ripetersi Martina, ma subito rivedeva davanti a sé la nonna.
Se non c’era stato bisogno di parlarne tra loro due, si domandava, perché Mirko avrebbe dovuto comportarsi diversamente? C’erano tante risposte che sarebbe stato giusto dare. Tanto per cominciare, la nonna non era mai andata a scuola, a differenza di Mirko, che evidentemente aveva dimenticato il poco che aveva imparato. Ma non era l’intelligenza che gli mancava, altrimenti non sarebbe stato capace di cavarsela tanto bene con l’inglese. No, il suo ragazzo non era uno stupido, lei lo sapeva.
Non si sarebbe mai messa con un ignorante, si diceva. E se il problema fosse proprio questo? Se fosse a causa sua, di Martina, che Mirko teneva nascosta la pochezza del suo leggere e scrivere? Lei era la milanese, la laureata, quella con il lavoro importante che però a lui non interessava, perché non era quello che amava, non era per quello che l’aspettava ha casa.
Martina lasciò l’ufficio prima del solito, in tempo per passare dalle giostre che da un paio di settimane si erano installate in una grande piazza ai bordi del centro storico. Se non si sbagliava, lì vendevano anche palloncini colorati di tutte le forme, cuori e animali, numeri e lettere. Chiese una acca e in pochi istanti si trovò tra le mani un filo rosso, al quale era allacciato un involucro aereo di plastica argentata dalla forma goffa e buffa. Ridotta a quella maniera, la lettera muta non poteva davvero fare paura. Era il suo regalo per Mirko, la sua sorpresa per quella serata che avrebbe cancellato ogni segreto e rimediato a ogni vergogna. Gli avrebbe chiesto di scendere un attimo in strada, gli avrebbe consegnato il filo, gli avrebbe detto: “Guarda, la vedi? È una acca, è soltanto una lettera. Non c’è niente da temere, niente che tu non possa imparare”. E poi gli avrebbe ordinato di lasciarla andare, di sbarazzarsene facendola volare su nel cielo. “Amo quello che sei”, gli avrebbe ripetuto prima di baciarlo.

Elisa Baldelli ci suggerisce altri libri interessanti che indagano la bellezza del sapere e le diverse sfumature dell’educazione: come fonte di crescita sul piano emotivo o intellettuale, come arma vincente contro la violazione delle libertà o ancora come desiderio personale di istruzione.

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Alessandro Zaccuri è nato a La Spezia nel 1963. Vive e lavora a Milano. Narratore e saggista, ha pubblicato tra gli altri i romanzi Il signor figlio (Mondadori, 2007) e Lo spregio (Marsilio, 2016). Il suo ultimo libro è il racconto autobiografico Nel nome (NNE, 2019). Scrive di letteratura e cultura sul quotidiano "Avvenire".

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