Libri in classe – Sulla bellezza del sapere

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Percorso di lettura sull’importanza dell’istruzione

LIBRI IN CLASSE

Titolo: L’educazione
Autore: Tara Westover
Editore: Feltrinelli
Temi: pensiero critico, verità, crescita personale
Destinatari: Scuola secondaria di secondo grado

di Elisa Baldelli

«Non c’è niente da temere, niente che tu non possa imparare». La frase del racconto Ha casa di Alessandro Zaccuri rivela un nocciolo essenziale della cultura: credere che in questa non ci sia mai timore ma solo pura bellezza. Sulla bellezza della cultura, sull’eroticità del possedere la conoscenza hanno parlato in modo diffuso numerosi pedagogisti e psicanalisti. Massimo Recalcati, per esempio, marca il concetto di bellezza, mostrandoci come un bravo insegnante riesca a trasformare il libro in un oggetto erotico, stimolando l’allievo a evolvere da recipiente di nozioni ad amante della cultura. Trascendendo la “provocazione” di Ivan Illich della “descolarizzazione della società” e della sua forte opposizione alla scuola dell’obbligo colpevole di non riuscire più a mantenere le sue promesse sia a livello economico sia a livello di giustizia, noi crediamo invece nella scuola come istituto in grado di far innamorare del sapere gli studenti e puntiamo a stimolare nell’uomo giovane quegli ideali che gli permetteranno di essere Uomo. La scuola in questo senso svolge un ruolo educativo ampio perché è il primo luogo estraneo alla famiglia in cui il giovane sperimenta l’incontro con l’amicizia, con l’amore, con il sapere. Un incontro d’amore, per l’appunto.

Tara Westover, L’educazione, Feltrinelli, Milano 2018
Della bellezza del sapere e del tradimento dell’educazione ricevuta in famiglia parla in modo esemplare Tara Westover nel suo romanzo L’educazione. La protagonista e autrice del libro si racconta in una violenta biografia che ha il suo focus proprio sul discorso educativo. Tara è figlia di Faye e Gene Westover ed è l’ultima di sette fratelli e sorelle che crescono ai piedi di una montagna isolata in Idaho.
Il papà Gene, seguace rigido del mormonismo, attende da sempre i giorni dell’abominio, ossessionando la famiglia ad accumulare cibo, benzina e armi e fa vivere i suoi cari in uno stato primordiale, lontano da cure mediche, da cellulari, da leggi, da tutto ciò che sia in seno alle istituzioni statali, la scuola prima di tutto.
I figli, quindi, non frequentano la scuola e gli unici insegnamenti che ricevono in famiglia sono i rimedi erboristici della madre Faye e le regole pratiche su come raccogliere lamiere da rivendere, regole che il papà insegna loro quando li porta con sé nella discarica. Tara, per essere educata alla vita e scoprire la bellezza del sapere, è costretta a tradire l’educazione (o la non-educazione) che ha ricevuto, fuggendo dalla perenne paura per l’ignoto a cui è stata fin da bambina sottoposta. Nella conclusione del libro si confesserà dicendo che «Tutti i miei sforzi, tutti i miei anni di studio mi erano serviti ad avere quest’unico privilegio: poter vedere e sperimentare più verità di quelle che mi dava mio padre, e usare queste verità per imparare a pensare con la mia testa. Avevo capito che la capacità di abbracciare più idee, più storie, più punti di vista era un presupposto fondamentale per crescere come persona». Tara ha preso coscienza di ciò di cui la famiglia l’aveva privata: un’educazione.

Percorso sulla bellezza del sapere

Sulla stessa linea si inseriscono altri libri che indagano diverse sfumature dell’educazione:

• quella che porta a una crescita personale sul piano emotivo (Pinocchio di Carlo Collodi e Bambini di farina di Anne Fine);
• quella che si guadagna con il desiderio di rivalersi contro un sistema che viola le libertà personali (Lo spacciatore di fumetti di Pierdomenico Baccalario);
• quella che non si riceve da piccoli o da cui si scappa per contesti sociali disagiati (L’amica geniale di Elena Ferrante);
• quella che si guadagna con il desiderio di istruirsi (Terra matta di Vincenzo Rabito);
• quella che porta a una crescita personale sul piano intellettuale (Le parole sono importanti di Marco Balzano).

Propongo di seguito l’analisi di questi libri, dividendoli in base al grado di scuola a cui sono più adatti.

Proposte per la Scuola secondaria di primo grado

Carlo Collodi, Pinocchio, Feltrinelli, Milano 2014
«Come andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino». Inizia così uno dei più classici e popolari romanzi che parlano del compito della scuola e dell’istruzione, non necessariamente dell’apprendimento della matematica o della grammatica ma di quello che ci libera dal rischio di cadere nell’inganno, che ci spinge al ragionamento e alla critica.
La storia picaresca racconta del burattino di legno Pinocchio che alla fine diventa bambino umano come ricompensa per la sua buona condotta: da discolo dal cuore tenero, da bugiardo fantasioso diventa un ragazzino per bene.
Dice lo stesso Pinocchio in una delle sue tante autoanalisi: «Se fossi stato un ragazzino perbene, come ce n’è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un contadino».
Tra realismo, fantasia e morale Pinocchio continua a parlarci di una società ottocentesca, perlopiù analfabeta, che vede nell’istruzione l’unico mezzo per l’ascesa sociale. Pinocchio, infatti, «si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura».
Nel suo monologo conclusivo Pinocchio, pur continuando a parlare sgrammaticato, mostra un pensiero critico, una mobilità non solo del corpo ma anche dell’anima: mostra per la prima volta la sua natura umana. Il burattino dal cuore vivo è divenuto uomo pensante, e non importa se il linguaggio è ancora quello del popolo, dei termini materiali derivati dall’origine familiare da falegname e neanche se l’educazione di Pinocchio si costruisce con lentezza, esperienza dopo esperienza. Dotato di queste nuove competenze, non più prigioniero del suo corpo e della sua mente immobili, Pinocchio riesce anche a indagare più nitidamente il rapporto d’affetto con suo padre Geppetto.

Anne Fine, Bambini di farina, Salani, Milano 2014
In una classe, la 4C, dominata a fatica dal professor Cartright, ormai disilluso per i suoi alunni “tristi e molesti”, l’unico che sembra salvarsi nel gruppo di quattordicenni rumorosi e semi-analfabeti è Martin Simon: ha passato tutti gli esami, sa parlare, è educato e sa leggere persino in francese. Martin è lì per un puro errore, infatti al suo posto viene inserito Simon Martin, un adolescente “grande, grosso e completamente privo di cervello” e per questo molto più adatto al basso contesto.
Per la prossima Fiera della Scienza la classe 4C dovrà sottoporsi a un esperimento di puericultura che consiste nel curare per tre settimane un sacco di farina di circa 3 chili – il peso stimato di un neonato –, badando che il finto bambino non perda peso e non si bagni, e scrivere un diario in cui devono essere riportate le sensazioni che si provano nel dover badare a un bambino.
L’esperimento scientifico nella 4C desta reazioni contrastanti negli alunni, ma in Simon certamente ne suscita una ben precisa: organizzare una “Gloriosa Esplosione” di bambini di farina alla fine dei 21 giorni, prenderli a calci in classe e farli così esplodere.
Nel corso dell’esperimento, tuttavia, Simon inizia ad affezionarsi alla sua bambina di farina e la finta paternità lo costringe a pensare al padre che non ha mai avuto. Simon comincia a chiedersi perché lo abbia abbandonato, cosa abbia fischiettato il giorno in cui se ne è andato e se sia stato lui, Simon, il responsabile di questa fuga. Si rende conto di non essere in grado di fare del male alla sua bambina ora che ha imparato a volerle bene, si rende anche conto che, anche se è abbastanza grande per generare un bambino, non lo è ancora per essere genitore, probabilmente proprio come è successo a suo padre.
«Tu nascondi quello che vali» è la frase che il professore dice a Simon quando comprende che questo adolescente goffo e che vuole sempre mostrare il peggio di sé, è stato in realtà in grado più degli altri di amare il suo “bambino” e forse ha anche imparato ad amare di più sé stesso. La storia sembra dirci che la responsabilità verso un altro ci insegna a essere responsabili prima di tutto di noi stessi; ci parla anche di un’educazione alla vita che non passa solo attraverso i libri, ma tramite le esperienze. Quello che sembrava un semplice compito scolastico diventa per Simon un viaggio interiore e un’occasione di crescita.

Pierdomenico Baccalario, Lo spacciatore di fumetti, Einaudi, Torino 2011
Poco prima della caduta del muro di Berlino, nell’Ungheria della negazione delle libertà culturali, politiche e sociali e dell’uniformità di pensiero, un ragazzino quattordicenne, Sandor Foldesi, spaccia fumetti americani di supereroi, scritti in inglese, pubblicazioni che nella Budapest di quell’epoca erano vietate. Il difficile reperimento dei fumetti avviene tramite un personaggio di cui nella storia conosciamo solo il nome, Mikla Francia Kiss, che lavora per una rivista letteraria e che, ogni 11 del mese alle cinque del pomeriggio, incontra alla solita panchina il protagonista. Sandor comincia a vedere nelle storie di supereroi che legge quegli ideali di libertà di pensiero e di azione che nella sua realtà ungherese sono calpestati.
Anche la scuola non è più il mezzo per parlare di educazione libera e di giustizia perché segue la legge del regime, appiattendo i sogni degli adolescenti ungheresi; per questo motivo, illegalmente, egli nasconde i fumetti nel suo cappotto e li fa circolare tra gli amici stretti (Nikolai, Bibo, Zio Zabo) e poi in modo sempre più capillare tra i compagni di scuola. La saltuarietà e la varietà con cui Sandor riesce a reperire i fumetti, unite al fatto che il gruppo di ragazzi non comprende l’inglese, fa sì che essi siano costretti a inventarsi parti di trame e costruzioni di personaggi eroici per colmare le lacune derivanti dalla loro scarsa circolazione: «E se non capisci, inventi. È così che va, con i fumetti».
Questo li invoglierà a diventare scrittori di un fumetto che ha come protagonista Fog Gray, un tenente nazista senza memoria, che modifica il simbolo della svastica, per volgerne in positivo il significato.
I tanti supereroi che si incontrano durante la lettura aiutano Sandor a diventare adulto e a superare alcune vicende dolorose e accompagnano il lettore ad assistere alla caduta del regime. Dirà Sandor alla fine del libro: «Ero scappato di casa proprio la notte del 26 giugno 1989, la stessa in cui la mia città si liberava dal suo passato. Quella notte ero solo, eppure in strada ero circondato da una folla di uomini, di donne, di ragazzi, di vecchi e di fantasmi». Gli eroi hanno vinto, la cultura libera e non condizionata ha vinto, il futuro è in arrivo.

Proposte per la Scuola secondaria di secondo grado

Elena Ferrante, L’amica geniale, Edizioni e/o, Roma 2011
Nella storia di formazione delle due bambine e poi delle due donne, Lenù e Lila, si annida uno dei più bei messaggi di amore per la cultura. Le due protagoniste vivono nel rione periferico di una Napoli anni ’50, miserabile e analfabeta. Da donne sono destinate all’ignoranza e ad avere per sempre il viso segnato dalla violenza e dal dolore. Da questo mondo-ghetto sembra profilarsi una via di fuga: è la scuola, i libri che segretamente la maestra Oliviero regala a una delle due ragazze, e le parole che fanno evadere e danno alle due amiche l’assaggio della libertà. Le due amiche si trovano a seguire percorsi opposti.
Lila, “l’amica geniale” nell’apprendimento, scaltra e risoluta nel risolvere problemi con la violenza verbale e anche fisica, anarchica nello scontrarsi contro le voci del popolino bieco, di una bellezza selvaggia ed erotica, rinuncia a continuare gli studi e si autoimpone un matrimonio che si rivelerà però sterile. Lenù, invece, mite e sobria, metodica e costante nella vita come nello studio, aiutata dalla maestra Oliviero e poi dalla sua professoressa del Liceo continuerà gli studi fino a entrare all’Università Normale di Pisa. Lei che fin da piccola si nutriva delle geniali irrazionalità della compagna Lila, temendole in parte ma rimanendone anche affascinata, lei che era sempre un passo indietro all’amica, si ritrova a percorrere gli anni ’50 e ’60 da donna progressista e libera, “geniale” nell’essere riuscita davvero a evadere dal microcosmo del rione per gettarsi nel futuro della società italiana.

Vincenzo Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino 2007
Quando la bellezza della cultura viene scoperta non esiste ostacolo che possa frenarla, non ci sono punti, interlinee, lettere maiuscole che possano limitare ciò che deve necessariamente essere detto. Si presenta così Terra matta di Vincenzo Rabito: un lungo flusso continuo del racconto di vita di un bracciante siciliano che, con decisa fermezza, decide di scrivere la sua autobiografia, lottando così contro il suo semi-analfabetismo. Rabito, inalfabeto (come si definisce), scopre la necessità di definirsi con la scrittura, come se la parola scritta circoscrivesse meglio di quella pronunciata la nostra anima. Si impossessa forzosamente della scrittura con cui analizza la propria identità e la tramanda alle generazioni future.
Oltre che di sé stesso, il sottoscritto Vincenzo, ci parla della “terra matta” italiana: il lavoro contadino, la fame, il macello della trincea durante la Prima guerra mondiale, l’emigrazione in Germania, gli anni del boom economico, gli anni ’60 e ’70. Ne emerge una scrittura che lotta fra l’italiano semi-conosciuto dell’autore, a volte reinventato, e un contenuto estremamente lirico in cui si riscontra il desiderio profondo dello scrittore di riscattarsi dalla propria miseria culturale con la scrittura.

Marco Balzano, Le parole sono importanti, Dove nascono e cosa raccontano, Einaudi, Torino 2019
Il saggio di Marco Balzano ci parla dell’importanza di capire la parola, padroneggiarla a tal punto da vederla in modo tridimensionale, in tutte le sue sfumature, risalire alla sua archeologia per comprenderne il significato attuale e chiederci se esso abbia ancora qualcosa del suo senso originario. Per lo scrittore e insegnante Balzano lo scavo etimologico è il principale strumento che conduce alla bellezza del sapere, infatti l’indagine sulle dieci parole scelte è accompagnata da una riflessione sulla loro attualità, su come la politica, i media, la pubblicità l’abbiano manipolata: a causa di un profondo amore per la lingua prova a restituirne la voce vera e il significato primitivo.
Tra i dieci scavi archeologici c’è anche la parola “scuola” di cui si delinea il profilo prima greco e poi latino, per poi soffermarsi sul suo significato primo: associata in termini espliciti all’educazione, è intesa etimologicamente come l’abbandono del lavoro e della mondanità (scholè) per concentrarsi su un esercizio (studium) che porta al raggiungimento dell’humanitas ovvero all’educazione (e-ducere) che è la conduzione da uno stato fisico e culturale inferiore a uno superiore.

 

Elisa Baldelli insegna italiano e latino a Milano nella Scuola secondaria di secondo grado e balla il tango.

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