Un approccio interdisciplinare allo studio delle società industriali
L’espressione “archeologia industriale”, coniata nel Regno Unito alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, identifica un approccio interdisciplinare allo studio delle società industriali che si fonda, come l’archeologia dell’antico, sull’analisi delle tracce materiali. Sono considerate tali i macchinari, i manufatti, le infrastrutture produttive e le fabbriche, che acquistano il ruolo di fonti documentarie per gli storici dell’economia e della tecnica, del lavoro e dell’impresa, dell’architettura e dell’ingegneria. La sopravvivenza di queste tracce dipende da diversi fattori (umani e ambientali), ma il riconoscimento del loro valore storico, culturale e antropologico è fondamentale per porre all’attenzione della collettività il problema della loro conservazione.
Le difficoltà della tutela
In Italia, le prime ricerche di archeologia industriale si sviluppano alla fine degli anni Settanta e si indirizzano soprattutto al censimento edilizio delle strutture produttive dismesse a causa della recessione industriale e poi dei processi di delocalizzazione che dagli anni Ottanta comportano il trasferimento degli impianti produttivi dall’Italia verso paesi dove il costo del lavoro è minore. Abbandonate dalle aziende, le grandi “cattedrali del lavoro” della penisola si trasformano velocemente in moderne rovine. Sono in molti casi costituite da fabbricati senza particolari qualità estetiche, progettati da ingegneri e tecnici aziendali con il solo fine di rispondere efficacemente alle esigenze della produzione. Per questo motivo sono difficilmente sottoposti dalle Soprintendenze locali a vincoli di tutela storico-artistica, e la loro esistenza è messa a rischio dai meccanismi di rigenerazione urbana. I “vuoti” determinati dalle dismissioni degli stabilimenti, infatti, si trovano spesso in luoghi nevralgici delle città: sono aree allettanti per gli attori economici delle trasformazioni (amministrazioni e imprese), ma il recupero degli edifici che vi sorgono, un tempo destinati alla produzione, pone problemi di non facile soluzione, che spaziano dall’inquinamento dei terreni ai costi elevati di gestione, anche a causa delle grandi dimensioni.
Edificio, sito, paesaggio industriale
Come preservare, dunque, l’eredità industriale italiana? Per gli “archeologi industriali” il primo passo è ricostruirne la storia, riconoscerne il valore simbolico e culturale e attribuire anche alle architetture e ai luoghi del lavoro lo status di “patrimonio”. A questo fine nasce nel 1997 l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale che promuove lo studio, la catalogazione, la valorizzazione e la conservazione degli archivi d’impresa, dei macchinari e di tutte le testimonianze materiali della civiltà dell’industria. Occorre inoltre definire con precisione l’oggetto della “patrimonializzazione”, e su questo fronte si è assistito in tempi recenti a una sorta di dilatazione progressiva dei confini fisici degli spazi da preservare. L’interesse si è spostato dal singolo edificio alle sue interrelazioni con l’ambiente (tessuto urbano e risorse naturali). Dalla fabbrica si è passati al “sito industriale”, inteso sia come area su cui sorge un complesso di fabbricati per la produzione, sia come sistema formato dallo stabilimento e dalle case per gli operai, dai luoghi di intrattenimento e dai servizi sociali. È stato infine introdotto il concetto di “paesaggio industriale”, che tiene conto dei diversi modi di plasmare il territorio (urbano o naturale) di un’industria mineraria, metallurgica o tessile.
Restauro e rifunzionalizzazione
Negli ultimi decenni si contano sempre più numerosi gli esempi di intervento su edifici, ex aree industriali e porzioni di paesaggio avvenuti in dialogo con la storia dei luoghi e degli edificati preesistenti. Soprattutto nei contesti urbani, le grandi operazioni di trasformazione dei siti industriali dismessi hanno comportato estese demolizioni, ma hanno anche incluso complesse operazioni di restauro e consolidamento di singoli elementi simbolici - come le ciminiere - o di intere architetture storiche, recuperate e rifunzionalizzate (ovvero adattate a nuove destinazioni funzionali) ottenendo nuovi spazi di grande suggestione.
Esempi di intervento e recupero
Edifici
Torino. Lingotto
Lo stabilimento FIAT Lingotto, simbolo del decollo dell’industria automobilistica torinese (e italiana) tra gli anni Dieci e Venti del Novecento, viene definitivamente dismesso nel 1982. Per riprogettare l’edificio lungo mezzo chilometro è indetto un concorso, vinto da Renzo Piano. L’architetto di fama internazionale, oltre a riutilizzare gli spazi interni con destinazione fieristica, commerciale, universitaria e alberghiera, colloca sul tetto una sala riunioni vetrata (“bolla”), raggiungibile in elicottero, e una scatola metallica (“scrigno”) per la Pinacoteca Agnelli.
Parma. Ex zuccherificio Eridania
Dismessa nel 1968, l’area dello zuccherificio viene acquistata nel 1980 dal Comune di Parma. Nel 1999 Renzo Piano è incaricato di trasformare la fabbrica in un auditorium: decide di lasciare i muri longitudinali intatti, e di sostituire quelli trasversali con pareti vetrate.
Prato. Ex cimatoria Campolmi
La lavorazione dei tessuti caratterizza la storia imprenditoriale del centro storico di Prato dall’epoca medioevale. Nella grande fabbrica di impianto ottocentesco la produzione cessa nel 1994 e il complesso industriale viene riconvertito dall’amministrazione comunale per ospitare il Museo del Tessuto e la biblioteca comunale (nella tintoria novecentesca). L’intervento di rifunzionalizzazione conserva i caratteri originari della struttura, ma anche le sue stratificazioni storiche.
Siti industriali
Milano. Area ex Ansaldo
La storia di questa grande area industriale testimonia la nascita e l’evoluzione della Milano industriale e moderna. Realizzata nel 1904 per ospitare le produzioni dell’impresa meccanica Roberto Zust, è acquisita dall’Ansaldo negli anni Sessanta e poi progressivamente dismessa negli anni Ottanta. Nel 1989 il Comune di Milano ne acquisisce la proprietà e nel 1999 indice un concorso per iniziare la riconversione, vinto dall’archistar David Chipperfield. Alcuni fabbricati sono rifunzionalizzati, mentre il Museo delle Culture (MUDEC) è un nuovo edificio che si inserisce tra il costruito esistente.
Venezia. Ex Conterie di Murano
Sull’isola simbolo della storia dell’industria vetraria veneziana, viene realizzato nell’Ottocento un complesso per la produzione di perle e perline di vetro (“le conterie”, appunto). Lo stabilimento è dismesso nel 1993 e l’area, in posizione di grande pregio, viene acquisita nel 1995 dal Comune di Venezia, che avvia un attento progetto di recupero. Sono previste alcune demolizioni, il restauro conservativo delle ciminiere, la riconversione di una porzione dello stabilimento e la realizzazione di appartamenti di edilizia residenziale pubblica che sfruttano, in parte, i fabbricati già esistenti.
Roma. Ex mattatoio Testaccio
Il mattatoio ottocentesco è definitivamente dismesso nel 1975. I lavori di recupero, iniziati nel 2000, mantengono intatti i caratteri originari dei fabbricati, che sono riconvertiti per ospitare, tra l’altro, un campus del Dipartimento di Architettura e una sede distaccata del Museo di arte contemporanea MACRO.
Palermo. Ex officine Ducrot
Fino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, gli stabilimenti ospitano uno dei principali mobilifici europei, salito al successo negli anni del Liberty. Il Comune di Palermo acquisisce l’area nel 1995 e utilizza i 23 capannoni del complesso per realizzare gli spazi per esposizioni, eventi e laboratori dei Cantieri culturali della Zisa.
Catania. Ex raffineria di zolfo
La storia dell’ex raffineria catanese riflette quella dello sfruttamento degli zolfi estratti nelle miniere siciliane: sviluppato a scala industriale nella seconda metà dell’Ottocento, in grande crescita nei primi due decenni del secolo XX e poi progressivamente in crisi fino alla dismissione degli impianti negli anni Sessanta. Vent’anni dopo l’abbandono degli stabilimenti, il Comune ha deciso la riconversione dell’area nel centro fieristico Le Ciminiere (1984-2008), con interventi di demolizione, ma anche con il recupero di edifici esistenti e la conservazione delle ciminiere delle fornaci di raffinazione.
Crespi d’Adda. Villaggio operaio
Il progetto di “villaggio operaio”, ideato dall’imprenditore Crespi per ospitare i lavoratori del suo stabilimento tessile a Crespi d’Adda con le loro famiglie, comprendeva abitazioni e servizi, una scuola e una chiesa. Inaugurato nel 1878, è rimasto di proprietà della famiglia Crespi fino agli anni Settanta del Novecento: la fabbrica è stata in funzione sino al 2003 e i caratteri originari del sito e di molte architetture sono intatti. Per la sua integrità e la permanenza di una vocazione industriale, dal 1995 è Patrimonio UNESCO.
Paesaggi industriali
Ivrea città industriale
Tra il 1908 e il 1998 l’Olivetti d’Ivrea scrive un capitolo straordinario della storia industriale italiana, sia sul fronte dell’innovazione tecnologica (suo è il primo pc italiano) sia su quello della gestione aziendale. Nella cittadina piemontese la sua presenza è testimoniata da 27 interventi architettonici realizzati tra il 1930 e il 1960. Non si tratta di edifici collocati in un’area circoscritta, ma di fabbricati per la produzione, i servizi e la residenza che si inseriscono nel tessuto urbano, dando forma a un esempio eccezionale di città industriale del XX secolo, Patrimonio UNESCO dal 2018. Qui l’immagine delle Officine ICO di Figini e Pollini.
Sardegna. Parco geominerario
La storia millenaria dell’industria mineraria sarda si interrompe nella seconda metà del Novecento, con la dismissione di tutto il comparto estrattivo, ma a testimoniare il ruolo dell’ingegneria mineraria nel forgiare l’ambiente della regione rimangono numerose infrastrutture e fabbricati. La loro valorizzazione è affidata dal 2001 al Parco geominerario della Sardegna. Qui un’immagine delle miniere abbandonate del Sulcis.
Referenze iconografiche: Fabbrica della seta, San Leucio, Caserta; Ferdinando Piezzi/Alamy Stock Photo