Le memorie condivise
In ogni epoca storica e in ogni parte del mondo sono state erette opere scultoree e architettoniche con la funzione di “memoriali”, concepite cioè per rappresentare, ricordare e celebrare gli avvenimenti e i personaggi più rilevanti di una comunità.
Queste “memorie condivise” sono l’espressione di specifici assetti politici, sociali e culturali, che mutano nel tempo insieme al sistema di valori che li sorregge. Accade così, per esempio, che alcune figure di politici e militari a cui l’Ottocento e il Novecento hanno dedicato statue commemorative siano oggi considerate indegne di questo onore, perché condannate dalla storiografia come autoritarie, violente o razziste.
La consapevolezza del relativismo della memoria e la crisi postmoderna di ogni ideologia con pretesa di unicità sono oggi rese più evidenti dalla natura multietnica e multiculturale del mondo contemporaneo e dall’interconnessione globale. Le memorie sono oggi necessariamente plurali, patrimonio anche di singole comunità o piccoli gruppi di appartenenza.
La funzione dei memoriali contemporanei, d’altra parte, si estende anche molto al di là del ricordo di eventi e personaggi rilevanti in contesti particolari, per affermare, al contrario, valori universali e comprendere tutto quanto l’umanità non vuole, e non deve, dimenticare: dai totalitarismi alla
Shoah, dai genocidi etnici al razzismo, dagli eccidi delle mafie, al terrorismo.
Dal monumento all’anti-monumento
Fino al primo Novecento, i memoriali sono stati interpretati come “monumenti”, cioè come “moniti contro l’oblio”, che si traducevano in opere caratterizzate da grandi dimensioni e da un linguaggio espressivo solenne. La tendenza si è invertita a partire dagli anni cinquanta, quando i luoghi della memoria hanno iniziato ad attenuare la loro funzione commemorativa per divenire strumento di riflessione e di elaborazione di drammi e lutti collettivi, e anche di promozione di processi di riconciliazione.
La monumentalità ha così lasciato spazio a un linguaggio anti-monumentale, che si esprime attraverso forme astratte e che sempre più spesso, in tempi recenti, si concentra sull’esperienza dello spazio costruito, che può continuare a trasmettere sensazioni di inquietudine, disagio o angoscia, sia all’interno dei musei depositari di memorie (come nel caso del Museo ebraico di Berlino) sia nei luoghi all’aperto, teatro degli eventi.
Oggi la memorializzazione può inoltre essere diffusa e partecipata, come avviene per esempio per le Pietre d’inciampo dell’artista tedesco Gunter Demnig (n. 1947): si tratta di piccole targhe di ottone da incastonare sul terreno di fronte all’ultima abitazione delle vittime del nazismo, dagli ebrei perseguitati agli oppositori politici ai militanti della Resistenza (con nome e date/luoghi di nascita e morte). A richiederle sono singoli cittadini, associazioni o enti, e finora ne sono state posate più di 80.000 nelle città di 26 nazioni.
Di seguito, presentiamo tre memoriali che rispondono a questi nuovi criteri.
Il museo ebraico di Berlino: uno spazio per riflettere sulla Shoah
Nel 1989 Daniel Libeskind (n. 1943) vince il concorso internazionale per il nuovo Museo ebraico (1989-2001), da realizzare come ampliamento del preesistente Museo di Berlino e da dedicare alla storia degli ebrei in Germania e alla tragedia della Shoah. Anziché limitarsi a fornire l’idea per un “contenitore” espositivo, l’architetto concepisce il progetto in dialogo con i suoi contenuti e genera lo schema spaziale a partire dalla concettualizzazione di alcuni elementi chiave delle vicende oggetto dell’allestimento museale: il ruolo degli ebrei nello sviluppo di Berlino e, soprattutto, la cancellazione fisica delle loro vite durante le persecuzioni naziste.
Libeskind parte dalla combinazione di una stella di David deformata e di linee che descrivono le traiettorie nello spazio urbano di ebrei vissuti in città, ricavando una pianta con andamento a zigzag e da questa, a sua volta, uno spazio architettonico che riesce a esprimere la tragicità della condizione vissuta dagli ebrei.
Una veduta aerea del museo >>
L’architetto unisce il nuovo edificio al preesistente attraverso un collegamento sotterraneo, che costringe a scendere dalla luce verso la penombra. Al fondo della scala ci si trova a dover scegliere fra tre percorsi – e tre storie – diverse: il primo è breve, e conduce alla Torre dell’Olocausto, vuota e semibuia; il secondo porta fuori dall’edificio, nel Giardino dell’Esilio e dell’Emigrazione; il terzo arriva alla Scala della Continuità, per poi snodarsi tra le sale espositive. Seguendo quest’ultimo ci si trova più volte ad attraversare passerelle sospese su un grande vuoto centrale, capace di tradurre in uno spazio fisico il concetto, astratto, dell’assenza. Fatta di stretti passaggi, pareti in cemento grezzo, incombenti travi inclinate, aree non condizionate o scarsamente illuminate, l’architettura del museo, nel suo complesso, provoca disagio e inquietudine. Lo fa anche all’esterno, mostrando impenetrabili pareti di lamiera di zinco, solcate da strette feritoie.
Facciata del museo >>
Vista posteriore del museo >>
L’interno del museo, Foglie cadute >>
Il progetto di allestimento del memoriale della Shoah, è stato curato inizialmente dall’arch. Eugenio Gentili Tedeschi e poi dallo studio Morpurgo de Curti (Annalisa de Curti e Guido Morpurgo).
Il memoriale delle vittime dell’11 Settembre: il crollo e l’assenza
Due anni dopo la tragedia dell’11 settembre del 2001, viene bandito un concorso internazionale per costruire un memoriale delle vittime dell’attacco terroristico, vinto da Michael Arad (n. 1969) e Peter Walker (n. 1932).
Il progetto, intitolato Reflecting Absence (“Riflettere l’assenza”), sottolinea l’enorme vuoto lasciato nella città di New York dal crollo delle Twin Towers attraverso la realizzazione di due grandi vasche d’acqua incassate all’interno delle “impronte” dei due edifici e alimentate da getti che scorrono lungo le pareti dello scavo. In superficie, dove un tempo si trovavano i grattacieli, rimane soltanto il perimetro dei parapetti, sui quali sono incisi i nomi delle vittime.
Per stabilire la sequenza in cui disporli, l’artista Jer Thorp ha utilizzato il principio delle “adiacenze significative”, ideando un algoritmo capace di riflettere le relazioni, anche casuali, di prossimità fisica tra le vittime durante l’attacco.
Una veduta dall’alto del memoriale >>
Il memoriale delle vittime dell’odio razziale: monumento e denuncia
Nell’aprile del 2018 è stato inaugurato in Alabama, negli Stati Uniti, il primo memoriale americano dedicato alle vittime dell’odio razziale. Il progetto ha preso avvio nel 2010 con una ricerca dell’organizzazione no profit Equal Justice Initiative, che ha documentato più di 4075 linciaggi di afroamericani tra il 1877 e il 1950. Sulla base di questi dati, un’altra organizzazione no profit, la MASS, ha realizzato un memoriale costituito da due elementi.
Il primo è una sorta di tettoia cui sono appese 800 “stele” in acciaio corten con incisi i nomi delle vittime, una per ogni contea degli Stati Uniti dove sono avvenute le uccisioni; il secondo è un deposito, a cielo aperto, dei duplicati di ciascuna delle stele: ogni comunità può reclamare il suo e utilizzarlo come “monumento” di riconoscimento e riconciliazione.
Le stele della memoria >>
Il memoriale visto dall’esterno >>
Le stele di ogni singola comunità >>
Referenze iconografiche: © Tom McShane/Shutterstock