La parola ai linguisti

Progetto Italiano: ne parliamo con Luca Serianni e Fabio Caon

L’INTERVISTA

La padronanza dell’italiano è una vera e propria competenza, che la scuola ha il compito di far acquisire, garantendo un apprendimento efficace e trasversale. I due linguisti Luca Serianni e Fabio Caon analizzano lo stato dell’arte di questa disciplina e spiegano in che modo il nuovo Progetto per l’insegnamento dell’Italiano risponde a questa attualissima necessità.

a cura di Massimiliano Singuaroli

Inizia un nuovo anno scolastico e, per usare una citazione montaliana, «Il cammino è sempre da ricominciare», non solo quello della scuola italiana, anche quello di Folio.net.
In questo anno così particolare, in cui la pandemia ha travolto abitudini e pratiche quotidiane che si ripetevano sempre uguali negli anni (le lezioni, gli orari, le riunioni, gli esami…) e ha catapultato docenti e alunni letteralmente in una nuova dimensione didattica (quella digitale a distanza, ora integrata), Folio.net ricomincia in una prospettiva di più ampio respiro.
Con questo numero diamo avvio a Progetto Italiano che si prefigge di fornire momenti di riflessione, di confronto, di formazione e studio su quella che ormai da tempo è considerata una vera e propria emergenza: la crescente povertà degli studenti e delle studentesse in merito alle proprie competenze linguistiche nella lingua italiana.
Per “ricominciare” con questo nuovo progetto e con il nuovo anno di Folio.net abbiamo rivolto alcune domande a due linguisti importanti, che accompagneranno Folio.net e il progetto stesso: Luca Serianni e Fabio Caon.

1. Professor Serianni, oggi si sente parlare molto e da più parti delle difficoltà linguistiche degli studenti italiani: quali sono le difficoltà specifiche dell’insegnamento dell’italiano oggi?

Ne vedo in particolare tre: la presenza tuttora un po’ ingombrante di una grammatica a vocazione eminentemente tassonomica (che complemento è questo? Di pena o di colpa?), che oltretutto abbraccia in modo ridondante il triennio della secondaria di primo grado e il successivo biennio; in secondo luogo, la conseguente difficoltà di proporre un’adeguata riflessione linguistica − fondata sulla comprensione di testi relativamente complessi e dispiegati su un vasto arco di conoscenze − nel triennio conclusivo che, con quattro ore, è inevitabilmente assorbito dalla storia letteraria; infine, la progressiva perdita, nelle giovani generazioni, di quello che Daniela Notarbartolo ha chiamato «lessico adulto»: parole ed espressioni che non si incontrano nel parlato quotidiano corrente, ma che sono normali nello scritto (futile, esecrare, dirimente). Senza contare che, nel modo di parlare o di scrivere di una persona colta, possono figurare forme elevate, letterarie o specialistiche, con intenzione faceta (per usare un altro aggettivo “adulto”), ma soprattutto per la naturale tendenza dello scrivente esperto ad attingere da vari campi metaforici.
Dal giornale “la Repubblica”, comodamente consultabile online, trovo, per esempio: «a meno di non cloroformizzare gli elettori» (31.12.2014), «sfruttamento endemico che continua nell’indifferenza della politica» (16.7.2020), «si snoda sullo schermo con stile asettico, una fotografia chiara e nitida» (30.8.2020). Non è che i nostri sedicenni debbano esprimersi così: ma non dovrebbero restare perplessi leggendo frasi di questo genere, appartenenti a testi rientranti, come è auspicabile, nel loro orizzonte di interessi. Un articolo di giornale è destinato a una vasta platea di lettori: i bambini non sono tra questi, ma gli adolescenti sì.

2. Professor Caon, tenendo conto delle problematiche evidenziate dal Professor Serianni, quali sono le questioni nodali che lei intravede per la didattica dell’italiano?

L’economista Leonardo Becchetti utilizza la felice espressione secondo cui l’essere umano è un “cercatore di senso”. Anche a scuola, le persone cercano – consapevolmente o inconsapevolmente – il senso di quello che studiano (e che insegnano).
La prima domanda a cui dovremmo dare risposta, dunque, è il perché stare a scuola.
Da indagini che abbiamo svolto con studenti di secondaria di primo e secondo grado concernenti l’apprendimento linguistico, risulta che uno dei problemi principali legati anche alla didattica dell’italiano è dato dalla motivazione allo studio.
Sintetizzando la questione in modo se vogliamo “brutale” (ma tali sono state anche alcune risposte), per molti studenti ciò che “sa di scuola” viene associato a noia, inutilità (o utilità solo per superare l’interrogazione), pedanteria ecc.
Lungi dal voler abbassare il livello di complessità al quale lo studio chiama o, ancora, dall’appiattire la didattica alle “esigenze del pubblico” (espressione che, in ambito educativo, fa ancor più rabbrividire), dobbiamo tener conto di come la società si modifichi e, di conseguenza, di come cambino le forme di comunicazione e apprendimento, il ruolo della scuola e la figura del docente, le aspettative di famiglie e studenti.
Bene: se non vogliamo né abbassare né appiattire, dobbiamo innanzitutto entrare in una relazione significativa con gli studenti, ovvero ascoltando anche la loro voce (i loro bisogni, i loro desideri, i loro progetti) e rendendoli partecipi, nel rispetto dei ruoli e con un comune senso di responsabilità dell’essere tutti cittadini a scuola, del processo di insegnamento/apprendimento.
Come docenti, infatti, dobbiamo ricordarci sempre che siamo dentro un processo umano di cui l’insegnamento è solo una parte, non la totalità di esso. Dobbiamo quindi saper adattare la nostra didattica alle nuove situazioni (si pensi al Covid e a come, tanto repentinamente quanto profondamente, la scuola sia stata stravolta a tutti i livelli: organizzativo, didattico, relazionale), nel difficilissimo sforzo di unire le istanze dello studio di qualità (diciamolo, che è impegno e fatica – parole da cui si cerca sempre più drammaticamente di fuggire) con quelle dei mondi da cui i nostri studenti provengono.
Uso “mondi” perché sappiamo che ogni studente è diverso dall’altro e che ogni classe quindi è differente. Non possiamo quindi fare un’operazione aprioristica ma dobbiamo stare nella relazione, in quella dimensione in cui dobbiamo cercare un’armonia con quello specifico gruppo in quello specifico contesto, ovvero la classe (reale o virtuale che sia).
Del resto le neuroscienze, che hanno fornito negli ultimi anni i più rilevanti apporti alle didattiche di tutte le discipline, sottolineano quanto la qualità delle relazioni e delle emozioni (in termini per esempio di piacevolezza) siano fondamentali nella fissazione delle informazioni e nei processi attentivi e di quanto anche il corpo sia coinvolto nei processi di apprendimento (si pensi agli studi sui neuroni specchio e sull’apprendimento incarnato).

3. Perché, dunque, Professor Serianni, pensare in questo contesto a un progetto per l’insegnamento dell’italiano?

L’attenzione generale (governo, giornali, opinionisti) sulla Dad e sulla digitalizzazione della scuola – comprensibile e apprezzabile – non può mettere in ombra il fatto che in particolare all’interno delle discipline cardine dell’insegnamento scolastico, come l’italiano e la matematica, occorre pensare a modi più efficaci di trasmettere i contenuti. Le cifre preoccupanti per il nostro Paese sulla comprensione dei testi orali e scritti che emergono da indagini internazionali (OCSE PISA ecc., se ne parla nell’articolo che spiega Progetto Italiano) impongono un ripensamento dedicato in particolare alle aree più “deboli”, o come tipo di scuola o come collocazione geografica. Sarebbe ingenuo pensare che un tablet nelle mani di un ragazzo fortemente deprivato linguisticamente e socioculturalmente basti a fare il miracolo.

4. Professor Serianni, c’è spazio allora per una proposta nuova?

Mi auguro di sì. Il drammatico evento della pandemia ha portato a una riduzione dell’impegno didattico in termini di ore effettive di lezione, nonostante la didattica a distanza e la buona prova che in molti casi ha dato: oggi si è ritornati in classe, ma con la concreta possibilità di chiusure parziali. Insomma, per questo anno 2020-2021, verosimilmente il tempo-scuola sarà minore: se la proposta saprà ottimizzare il percorso, puntando su obiettivi che è veramente essenziale raggiungere, tralasciando rivoli particolari, spesso inerziali, potrebbe avere successo.

5. Professor Serianni, che cosa può voler dire in termini didattici considerare l’italiano non più come una materia ma come una competenza fondamentale da acquisire?

In quanto lingua madre l’italiano attraversa tutte le altre discipline, comprese quelle che ricorrono in parte a codici non verbali (matematica, chimica, musica ecc.). Occorre prima di tutto che gli insegnanti maturino questa consapevolezza: non si tratta di dare un primato a una disciplina sulle altre, ma di riconoscersi fonti di lingua per ciascuna delle discipline professate. Non sarebbe pensabile, poniamo, che in un testo scritto di scienze, il docente prescinda dall’organizzazione del testo («Non è affar mio: non sono mica docente d’italiano!»). E vale anche l’inverso: un tema sull’inquinamento atmosferico dovrebbe essere letto di conserva tra il docente di lettere, che l’ha assegnato, e quello di scienze, che ha specifici strumenti culturali per trattarne.

6. Professor Caon, in merito alle questioni poste finora, quali proposte metodologico-didattiche ritiene più efficaci?

Possiamo riflettere sul come stare a scuola, ovvero sulla metodologia didattica come insieme di scelte per far apprendere in modo potenzialmente più efficace le informazioni.
Nei numeri di Folio.net di quest’anno avremo modo di approfondire i temi ma, dovendo ora sintetizzare, direi che l’obiettivo sia di individuare quali metodologie e strategie didattiche riescano a realizzare coerentemente le istanze teoriche summenzionate.
Io credo che possano essere rilevanti:

  • un orientamento all’interdisciplinarità per far cogliere agli studenti come il mondo sia complesso e interconnesso (unito a una riflessione strategica sul valore dell’italiano e dell’educazione linguistica come sfondo integratore delle varie discipline);
  • un approccio inclusivo (che, per me, vuol dire non solo includere gli studenti con BES ma valorizzare tutti gli studenti all’interno di una Classe ad Abilità Differenziate) e interculturale (che orienta verso un ascolto dell’altro, una relativizzazione del proprio punto di vista e un’educazione alla cittadinanza attiva e responsabile);
  • l’utilizzo di metodi quali l’apprendimento cooperativo e il tutoraggio tra pari, che hanno nella relazione tra pari e nel ruolo del docente come facilitatore dell’apprendimento due dei loro fondamenti;
  • il ricorso (talvolta) alla classe capovolta (flipped classroom), per favorire processi attivi di riflessione autonoma o condivisa tra compagni e di confronto in classe successivo;
  • una didattica di ispirazione metacognitiva e metaemotiva che favorisca la consapevolezza e l’autonomia dello studente (il lifelong learning di cui si parla da molto in Europa e lo sviluppo della resilienza) non solo per la dimensione cognitiva, ma anche per la conoscenza e il controllo delle emozioni, che ritengo rappresenti il grande “buco nero” della scuola italiana.

In sintesi, una didattica attenta costantemente a collegare la scuola con la vita (benissimo, in questa direzione, il service learning e i compiti di realtà), a far sì che gli studenti capiscano come l’italiano, la letteratura, la matematica, la musica, l’educazione fisica ecc. diano senso alla vita di un individuo e di una società e, quindi, di come il loro studio non debba essere solo finalizzato a superare il compito, l’interrogazione o a evitare la bocciatura, ma possa contribuire a perfezionare la loro umanità.
Tutte queste azioni richiedono un costante aggiornamento professionale grazie a una formazione e a una informazione didattica di qualità (che sia cioè, a mio parere, teorico-pratica e coerente tra la teoria e la pratica).
In conclusione, mi torna in mente una battuta di Una storia semplice di Sciascia: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare». Ecco: se passassimo questa idea agli studenti e insieme a loro ragionassimo (perché il docente è sempre dentro il processo che attiva), possibilmente aiutandoli a trovare parole per il loro sentire oltre che per il loro pensare, credo potremmo dare spazio a quella “ricerca di senso” iniziale e cominciare a risolvere diversi problemi dell’italiano, e non solo.

7. È davvero possibile secondo lei, Professor Serianni, fare in modo che la competenza linguistica in italiano sia responsabilità non del solo docente di italiano?

Rispondo con un esempio. Un mio collega matematico dell’Università “La Sapienza”, ammirevole per l’impegno con cui si applica alla didattica e al recupero dei ritardi nella preparazione degli studenti, ha organizzato un sondaggio sulle competenze in matematica (e in italiano: di qui la mia partecipazione al progetto) dei ragazzi delle superiori. Il proposito era quello di individuare lacune e di intervenire prima dell’iscrizione all’Università. Uno dei test di matematica era elementare, ma è stato largamente sbagliato perché non si è saputo leggere la consegna, non tenendo conto che, parlando di rette, “distinto” non coincide né con “incidente” né con “parallelo”.
La consegna era la seguente: «Due rette distinte in un piano si intersecano (tra parentesi la percentuale più alta e più bassa tra le relative risposte) a. in esattamente un punto [51%], b. in almeno un punto, c. in nessun punto, d. in esattamente due punti, e. in al più un punto [10%]». La risposta esatta era l’ultima: còlta, come si vede, da una percentuale molto bassa. Mi è venuto di pensare che quell’al più sia stato avvertito come poco “matematico” (non si dice forse «Due più due fa quattro» per rappresentare simbolicamente le certezze della matematica?). Eppure, proprio quell’al più ci dice che due rette distinte, quindi non “coincidenti”, possono essere parallele, e quindi non hanno nessun punto in comune, o incidenti, e quindi ne hanno uno, e non più di uno.

8. Professor Serianni, qual è il nesso tra competenza linguistica e cittadinanza?

Essere cittadino maggiorenne implica, tra le altre cose, un’adeguata competenza linguistica produttiva e soprattutto ricettiva. È giusto parlarne proprio nell’anno in cui l’Educazione civica entra tra le materie insegnate a scuola ed è giusto partire dalla legge fondamentale, dalla Costituzione.
Tullio De Mauro ha più volte elogiato la lingua in cui la Carta è scritta: una lingua piana, che raggiunge un alto indice di leggibilità e che presumibilmente risultava comprensibile al 42% dei cittadini del 1948 e al 90% di quelli attuali. Verissimo. Però occorre riflettere e far riflettere su quello che implicano anche precetti molto trasparenti. Prendiamo l’art. 3, che sancisce l’uguaglianza dei cittadini, e che è, come dicono i giuristi, una «supernorma»: accomuna gli ordinamenti di tutte le democrazie europee e risale ai princìpi della Rivoluzione francese; ma il principio di uguaglianza sostanziale espresso dal secondo comma («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale ecc.») – un solenne ammonimento per chi ha responsabilità legislative − non si ritrova nei trattati comunitari, è un tratto specifico della nostra Costituzione.
Ancora: il principio di uguaglianza viene declinato in modo apparentemente ridondante: una volta detto che tutti i cittadini «sono eguali davanti alla legge» può sembrare superflua (o una “ripetizione”, per adoperare uno stereotipo in voga nelle correzioni scolastiche) la successiva precisazione «senza distinzione di sesso, di razza ecc.». Ma non è così. Non solo perché l’insistenza su questo concetto gli conferisce particolare forza illocutiva, ma anche perché alcune conquiste sono continuamente rimesse in discussione (pensiamo ai risorgenti atteggiamenti di razzismo) o rappresentano un’acquisizione recente, come nel caso della parità delle donne (l’accesso femminile alla Magistratura risale al 1963, quello alle Forze Armate al 1999).

9. Professor Serianni, quanto e in che modo la competenza linguistica è correlata con la possibilità di accesso al mondo del lavoro e alla prospettiva di una carriera lavorativa soddisfacente?

Un fortunato film di Sydney Sibilia, Smetto quando voglio (2014), racconta la storia di un gruppo di ricercatori che non trovano sbocchi universitari e che danno vita a un'improbabile banda criminale. In una scena appartenente all'antefatto un mancato antropologo, in veste tutt'altro che professorale (maglietta, marcato accento romanesco), va da un autodemolitore (presentato come un concentrato di rozzezza) per chiedere un lavoro. La conversazione procede cordialmente, ma a un certo punto l'aspirante evoca «un'aspra diatriba legale». A questo punto l'interlocutore si irrigidisce («Non assumo laureati») e, nonostante le proteste dell'altro («È stato un errore di gioventù!»), il discorso finisce lì.
La commedia è gradevole e, va detto, non rappresenta soltanto le traversie lavorative degli umanisti, visto che il protagonista e ideatore della banda è un neurobiologo e che nel gruppo c'è anche un macroeconomista. Ma in tutti i casi appaiono come un disvalore la cultura e la sua spia esterna: la precisione e la ricchezza del linguaggio (diatriba non è semplicemente una "lite" e allude a una controversia prolissa e cavillosa; e l'aggettivazione qualificante, aspra, appartiene allo stesso àmbito stilistico). Se si aspira a raggiungere i propri obiettivi nella vita, la lingua serve: per produrre testi efficaci e adeguati allo scopo comunicativo e per capire in tutte le sue implicazioni quello che altri dicono o scrivono.

Luca Serianni è professore emerito di Storia della lingua italiana presso l’Università La Sapienza di Roma.

Fabio Caon è professore associato di Didattica delle lingue all'Università Ca’ Foscari di Venezia, dove insegna Linguistica educativa, Comunicazione interculturale e Didattica della letteratura. Dirige il Laboratorio di comunicazione interculturale e didattica (LABCOM) a Ca’ Foscari.


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Massimiliano Singuaroli è professore presso il Liceo scientifico Alessandro Volta di Milano.

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