Videointervista con Giuseppe Patota

ITALY-DOCENTI-FOLIO-Gennaio-2019-JPEG-Videointervista Patota.jpg

Riflessioni sull'insegnamento della grammatica a scuola

APPROFONDIMENTI DISCIPLINARI

Ospitiamo l’intervista di Giuseppe Patota, professore di Grammatica italiana, Storia dell’italiano e Didattica dell’italiano all’Università di Siena (sede di Arezzo), oltre che autore di numerose pubblicazioni di carattere scientifico e divulgativo.
Abbiamo approfondito con lui alcuni aspetti grammaticali, spesso dibattuti anche fuori dalle aule scolastiche, come lo stato del passato remoto e del congiuntivo, ma soprattutto gli abbiamo chiesto un giudizio sull’insegnamento della grammatica nelle nostre scuole.  Guarda il video

Leggi il testo completo dell’intervista

 

In che condizioni di salute versa il passato remoto?

Quando mi capita – e mi capita spesso – di trattare della questione relativa alla dialettica fra passato prossimo e passato remoto nell’italiano contemporaneo nei corsi di formazione e aggiornamento, porto con me un insieme di materiali che aggiorno periodicamente. Attualmente ho a disposizione sette coccodrilli: sette biografie di personaggi famosi pubblicate da “la Repubblica” il giorno successivo alla loro morte in un periodo compreso fra il 2001 e il 2018. Il primo risale al gennaio del 2001, ed è una biografia commentata di Maria José di Savoia, ultima regina d’Italia; l’ultimo risale al novembre del 2018, ed è una biografia commentata di Bernardo Bertolucci, il regista. Fra l’uno e l’altro, ci sono le biografie-necrologio di Marco Pantani (febbraio 2004), Michelangelo Antonioni (luglio 2007), Suso Cecchi D’Amico (luglio 2010), Enzo Jannacci (marzo 2013), Francesco Rosi (gennaio 2015).
Di solito, durante i corsi, leggiamo insieme parti più o meno ampie di questi coccodrilli, e ci accorgiamo del fatto che, mentre negli articoli più remoti il racconto della vita del personaggio si articola su lunghe collane di passati remoti, in quelli più recenti il passato remoto – senza essere scomparso – è sostituito sempre più spesso o da un presente storico o da un passato prossimo. Troppo poco, certamente, per parlare di un passato remoto in via di estinzione; abbastanza per ipotizzare che questa forma verbale sia oggetto di un processo di rarefazione.

Ma quindi secondo Lei è ancora il caso di insegnare forme e usi del passato remoto a scuola?

La mia risposta è certamente sì: in primo luogo perché rarefazione non vuol dire scomparsa; in secondo luogo, perché il passato remoto regge, sia pure con qualche difficoltà, non solo – come si potrebbe pensare – nella lingua letteraria, ma anche in altre varietà di italiano parlato e scritto: regge, per esempio, nella letteratura fantastica; regge, inaspettatamente, nella letteratura rosa; regge nella manualistica scolastica: come si potrebbe pensare a un manuale di storia privo di passati remoti? Infine, il passato remoto regge – udite udite – nei dialoghi di molte serie televisive, anche quelle destinate al pubblico giovanile. Una ragione in più per continuare a parlare del passato remoto e magari anche per continuare a parlare al passato remoto.

A proposito di verbi, una questione ricorrente e affrontata anche da Francesco Sabatini è quella che riguarda un altro presunto “grande malato”, all’interno del sistema verbale, il congiuntivo: Sabatini lo definisce uno degli psicodrammi ricorrenti della lingua italiana e sostiene che l’uso dei parlanti sta modificando la regola: lei che ne pensa? E più in generale come ci si deve muovere nell’insegnamento tra le discrepanze tra norma e uso?

Condivido pienamente l’idea che si tratti di uno psicodramma ricorrente, e spiego subito il perché. Da sessant’anni a questa parte, commentatori più o meno autorevoli hanno tessuto e continuano a tessere, ciclicamente e contemporaneamente, l'elogio e il necrologio del congiuntivo, da una parte esaltandone le qualità, dall’altra constatandone il decesso o l'irreversibile agonia. Adduco, in proposito, tre esempi, che portano date e firme diverse ma che hanno molte cose in comune, compreso il luogo comune relativo scomparsa o rarefazione del congiuntivo. Il primo è un necrologio vero e proprio: s'intitola Morte del congiuntivo, risale al 1984 e porta la firma di Cesare Marchi, autore del fortunatissimo Impariamo l'italiano; il secondo, se non proprio un necrologio, è quanto meno un preoccupante e preoccupato bollettino medico; s'intitola Il club esclusivo di chi usa il congiuntivo, porta la data del 2008 e la firma autorevole di Piero Ottone, già direttore del “Secolo XIX” e del “Corriere della Sera”. Il terzo è comparso soltanto qualche giorno fa sulla “Stampa” di Torino e porta la firma di Mattia Feltri.

Primo esempio: c'era una volta il congiuntivo. Incubo degli scolari, idolo dei pedanti, fiore all'occhiello dell'epistolografia amorosa [...]. Nei salotti i ben pensanti e i ben parlanti tremavano nell'affrontare la desinenza d'un congiuntivo, sbagliarla era una gaffe imperdonabile, peggio che indossare scarpe marrone con lo smoking... A cent'anni di distanza è morto anche il congiuntivo, ucciso da quegli strumenti di comunicazione che in anglo-latino si chiamano mass-media e in italiano mezzi di comunicazione di massa (C. Marchi, Morte del congiuntivo, in Impariamo l'italiano, Rizzoli, Milano, 1984).

Secondo esempio: non sono un linguista, ma una recente conversazione con uno studente di Lettere mi ha indotto a riflettere sull'uso del congiuntivo. Che non ha, ai nostri tempi, grande fortuna. Ricevo lettere in cui lo si rimpiange, perché lo si usa sempre meno; e in cui si esorta a salvarlo, prima che sparisca del tutto. Ma perché è in crisi? Abbiamo riflettuto, lo studente e io, sull'evoluzione della lingua, che tende a semplificarsi [...]. L'agonia del congiuntivo è dovuta [...] alla semplificazione della lingua, e questa semplificazione, è dovuta a sua volta all'attenuazione, presto alla scomparsa, delle classi sociali (Piero Ottone, Il club esclusivo di chi usa il congiuntivo, “Venerdì di Repubblica”, 17 ottobre 2008). Senza entrare nel merito di queste considerazioni, la domanda che mi faccio e che faccio a tutte le colleghe e a tutti i colleghi che stanno seguendo quest’intervista è: se il congiuntivo era già morto nel 1984, come poteva essere in agonia nel 2008?

E vengo, per chiudere, al terzo esempio: un articolo pubblicato sulla «Stampa» di Torino il 14 gennaio 2017 in cui Mattia Feltri ironizza su una tripletta di errori relativi all’uso del congiuntivo da parte di un esponente politico, aggiungendo testualmente che per la Crusca «il congiuntivo è ormai in via di estinzione». Niente da eccepire sugli errori relativi al congiuntivo da parte del politico; tutto da eccepire sul fatto che la Crusca abbia dato il congiuntivo per moribondo.

A ogni modo, le geremiadi sulla morte del congiuntivo hanno un’origine remota. Circa sessant’anni fa Franco Fochi, in una serie di articoli pubblicati su una rivista prestigiosa come era e come tuttora è «Lingua nostra», imputava il declino rovinoso di questo modo un po' alla dittatura linguistica di Roma, che avrebbe tolto spazio a Firenze, un po' ai meridionali, un po' alla radio nazionale e un po' addirittura a Indro Montanelli, toscano sì, ma traviato dal fatto che vivesse a Roma.

In realtà oggi il congiuntivo è vivo; presenta, sì, un qualche regresso nell’uso; è stato, in parte, sostituito dall’indicativo, ma in una misura di gran lunga inferiore a quella che molti dichiarano o percepiscono. Per dimostrarlo, sarà sufficiente digitare in un motore di ricerca come google queste due serie di sequenze: da una parte «penso che sia» e «penso che siano»; dall’altra «penso che sono». Chi farà questa interrogazione in questi giorni si accorgerà che, a fronte di circa 15.000 occorrenze del tipo «penso che sono», le occorrenze del tipo «penso che sia» e «penso che siano» sono quasi 18.000.000: abbastanza per dire che quello della morte del congiuntivo è anche più che uno psicodramma: è un falso problema, o al massimo, nella più pessimistica delle ipotesi, un problema sovrastimato.

Ma se il congiuntivo non è morto, se gli errori relativi al suo uso non sono tutto sommato così frequenti e qualche volta non sono neppure errori, perché da ogni parte d'Italia si levano lamenti per la sua fine imminente?

Il motivo è semplice: perché alle decine, centinaia di congiuntivi che molti, chi più chi meno, adoperano normalmente e adeguatamente nessuno fa caso; invece, anche un solo congiuntivo sbagliato o mancato fa rumore; come si dice, “suona male”; produce, nelle orecchie delle persone attente alla lingua, lo stesso effetto sgradevole del gesso che scricchiola sulla lavagna. Ma come, per fortuna, il gesso non scricchiola spesso, così il congiuntivo, almeno per ora, non scricchiola sotto il peso dell'indicativo. Il che non toglie, naturalmente, il nostro dovere di insegnanti di illustrarne e diffonderne l’uso corretto fra i nostri studenti.

Lei è docente universitario, autore di numerosi saggi e articoli accademici, ma fa anche un’ampia opera di formazione e di divulgazione (tra gli altri ricordiamo alcuni simpatici titoli, per esempio Ciliegie o ciliege e altri 2406 dubbi della lingua italiana): è autore insieme al prof. Serianni e alla prof.ssa Della Valle di numerosi manuali per le scuole, pubblicati da Bruno Mondadori. Come giudica lo stato dell’insegnamento della grammatica italiana nelle scuole?

Purtroppo, mi sembra che l’insegnamento dell’italiano a scuola resti tuttora fondato sull’impegno e sulla buona volontà dei docenti: in altre parole, sull’italianissima arte di arrangiarsi. Darò consistenza a questa mia affermazione con due esempi.
Primo esempio: chi legga le tre pagine che, nelle Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli istituti tecnici, sono dedicate ai risultati di apprendimento attesi per la lingua e la letteratura italiana, ha poco da eccepire: sono risultati che qualunque insegnante sottoscriverebbe. Ma come è possibile far raggiungere ai propri studenti questi apprezzabili risultati di apprendimento con un monte ore annuo di letteratura e lingua italiana che resta comunque limitato? E quale dovrebbe essere (e, per chi già insegna, quale avrebbe dovuto essere) il percorso formativo di un docente capace di far raggiungere ai suoi studenti questi risultati? Non certo quello offerto dai percorsi formativi di qualunque livello e di qualunque tipologia somministrati finora dalle nostre università, percorsi nei quali l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze necessarie all’insegnamento della lingua italiana è fortemente sacrificata, schiacciata com’è fra la letteratura da una parte e la pedagogia dall’altra!
Qualche anno fa Tullio De Mauro, in un’intervista che si presenta come una risposta eloquente alla vulgata che ha fatto e continua a fare delle Dieci tesi il manifesto dell’antigrammaticalismo scolastico, disse: «Il bravo insegnante deve sapere tanta di quella grammatica, avere letto tanto Renzi e tanto Serianni e tanto Lepschy e tanto Schwarze […] da poter far vivere allo studente […] l’esperienza di manipolazione della strumentazione grammaticale che una lingua ti mette a disposizione».
Ora, io mi domando: quanti saranno stati fin qui, fra corsi di laurea triennale, corsi di laurea magistrale, TFA, PAS e compagnia bella, quelli che hanno impegnato studenti e corsisti a leggere tanto Renzi e tanto Serianni e tanto Lepschy e tanto Schwarze? Per quel che mi risulta, nessuno. E queste sono tutte responsabilità di quel sistema universitario di cui io faccio parte. Parafrasando i versi di una canzone di De Gregori, possiamo dire «la scuola siamo noi»: nessuno si senta escluso e nessuno si chiami fuori dall’assunzione di responsabilità; a partire dai professori universitari.

Secondo esempio: se confrontiamo le Indicazioni nazionali relative alla scuola dell’infanzia e del primo ciclo con quelle relative ai licei e con le Linee guida del passaggio al nuovo ordinamento dei tecnici, vediamo che gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alla lingua italiana non differiscono molto; colpisce, in particolare, la sostanziale identità fra ciò che è richiesto al termine della scuola secondaria di primo grado e ciò che è richiesto al termine dei biennio degli istituti tecnici. Dove sono le differenze? Citando Luca Serianni: «Qual è l'utilità di ripercorrere due volte a breve distanza le stesse tappe (fonologia, morfologia, sintassi; testo, comunicazione e via dicendo)?»

Vede soluzioni in questo quadro?

Con tutto ciò, io non smetto di essere ottimista. Il problema di cui sto parlando e che è dolorosamente noto a tutti noi insegnanti ha una soluzione? A mio avviso, sì. Consiste nel trasformare un altro problema urgente (quello dell’insegnamento dell’italiano agli studenti di madrelingua diversa dall’italiano che frequentano le nostre classi) in un vantaggio, in una nuova possibilità per tutti.
Io credo che l’insegnamento dell’italiano L1 e l’insegnamento dell’italiano L2 non siano mondi separati. La didattica dell’italiano L1 può essere arricchita e migliorata dall’incontro con la didattica dell’italiano L2, proprio come l’uso attuale dell’italiano può essere arricchito e migliorato dall’incontro con nuovi parlanti di madrelingua diversa dall’italiano.

Ci obbligano a non considerare separati i due insegnamenti di cui si è detto non solo i fatti, ma anche gli indirizzi assunti dalla ricerca. Luca Serianni, un grande studioso da sempre impegnato nel versante dell’italiano L1, constatata l’inutilità di alcuni esercizi tradizionalmente dispensati nell’insegnamento dell’italiano come lingua materna, invita i docenti a impegnare gli studenti (tutti gli studenti) in esercizi e attività (per esempio cloze e giochi linguistici di vario tipo) che nella didattica delle lingue straniere (e dunque anche nella didattica dell’italiano LS) sono routine; intanto Riccaldo Gualdo invoca il «potenziamento della didattica dell’italiano nella scuola attraverso strumenti grammaticali più leggeri e amichevoli, ispirati al modello delle migliori grammatiche per stranieri».

Non la pensano così solo gli storici della lingua. Nell’introduzione al suo Italiano lingua materna Paolo Balboni scrive:
«L’educazione linguistica è un processo unitario che include l’intero ventaglio di lingue che lo studente deve acquisire o perfezionare – lingua materna, seconda, straniera, classica e, per gli immigrati, anche lingua etnica. Ma sebbene nella mente dello studente questo processo sia unitario, la riflessione teorica in glottodidattica (la scienza che studia l’educazione linguistica) e la formazione metodologica degli insegnanti sono andate avanti per decenni su due binari paralleli, da un lato gli insegnanti di italiano (e di lingue classiche), dall’altro quelli di lingue straniere […]: la mente che deve trarre profitto dal lavoro dei vari docenti delle varie lingue è unica, non può essere sottoposta a percorsi di-vaganti e di-vergenti.»
Naturalmente i percorsi didattici di italiano L1 e di italiano L2 non sono sovrapponibili; ma i punti di convergenza ci sono.

Quali sono gli aspetti più problematici dell’insegnamento e apprendimento delle forme verbali e del sistema verbale in italiano?

L’assenza di una logica che non sia solo formale nella progressione della didattica del sistema verbale; il soffermarsi più su classificazioni inutili che sugli usi concreti della lingua. Proprio su questi aspetti può soccorrerci la didattica dell’italiano L2. Alcune ricerche di linguistica acquisizionale (il filone della linguistica che si occupa di studiare i modi e le tappe attraverso cui procede l’acquisizione spontanea di una lingua, in particolare di una lingua non materna) hanno appurato che l’itinerario acquisizionale delle forme che compongono il sistema verbale dell’italiano è, negli stranieri adulti, quello che sto per dirle:

Presente (e Infinito) > (Ausiliare) Participio passato > Imperfetto > Futuro > Condizionale > Congiuntivo

Personalmente non vedo controindicazioni a un percorso scolastico di riflessione sulle strutture del sistema verbale dell’italiano (leggi: grammatica dei verbi) elaborato in armonia con questa progressione.
Attualmente gli insegnanti di italiano L2 e gli insegnanti di LS dispongono di uno strumento di comprovata utilità didattica, benché non perfetto come tutte le cose di questo mondo: il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue (Consiglio d'Europa 2002; d’ora in poi QCER).

Il QCER, come è noto, indica attraverso vari descrittori che cosa sa e che cosa sa fare chi sta apprendendo una lingua straniera, secondo una scala articolata su sei livelli: di contatto (A1), di sopravvivenza (A2), soglia (B1), progresso (B2), dell'efficacia (C1) e della padronanza (C2). Il Quadro, dunque, introduce e applica con ordine e con metodo il sano principio della progressione, da cui non si può prescindere non solo nell’insegnamento/apprendimento della L2 o di una LS, ma anche nell’insegnamento/apprendimento della L1.

La mia domanda è: le indicazioni e scansioni del Quadro, rivedute, corrette, ampliate nei punti in cui sia opportuno ampliarle e ridotte nei punti in cui sia opportuno ridurle (e naturalmente sperimentate e validate), non potrebbero costituire un punto di partenza, un termine di confronto per definire una progressione nell’acquisizione delle competenze relative all’italiano dall’inizio della scuola secondaria di primo grado alla fine della scuola secondaria di secondo grado?
A questo punto, spero che non le dispiaccia, e che non dispiaccia a chi ci sta seguendo, il fatto che io chiuda con una domanda la risposta a una sua domanda. D’altra parte, se smettessimo di farci domande, avremmo smesso di fare il nostro lavoro, non trova?

 

Giuseppe Patota: è professore ordinario all’Università di Siena (sede di Arezzo), dove insegna Grammatica italiana, Storia dell’italiano e Didattica dell’italiano; ha al suo attivo oltre centoventi pubblicazioni, alcune delle quali tradotte e pubblicate in Francia e in Giappone e di numerose opere divulgative. È accademico della Crusca, socio ordinario dell'Accademia dell'Arcadia, socio dell’Ass. per la Storia della Lingua Italiana e della Soc. Internationale L. B. Alberti e giurato del "Premio Strega". È membro del comitato scientifico del «Bollettino di Italianistica» e degli «Studi Linguistici Italiani». Direttore scientifico del Dizionario Italiano Garzanti dal 2004 al 2015, attualmente condirige, con Valeria della Valle, una nuova edizione del Vocabolario Treccani. Dal 2015 dirige le collane “Grammatiche e lessici pubblicati dall’Accademia della Crusca” e “Le varietà dell’italiano. Scienze arti professioni”. Nel 2017 è stato insignito dall’Accademia dei Lincei del Premio per la Filologia e Linguistica. È consulente linguistico di RAI SCUOLA per la didattica dell’italiano. Insieme a Luca Serianni e Valeria Della Valle è autore della nuova Grammatica Edizioni scolastiche Bruno Mondadori La forza delle parole.