La concezione del denaro nel Medioevo

Francescano e domenicano rifiutano le elemosine degli usurai

CULTURA STORICA

Nella società feudale, gli “uomini del denaro” – mercanti, banchieri, professionisti – dovevano, in un certo senso, perdere lo stretto legame con la moneta e acquistare terre e titoli nobiliari per trasformare la loro ricchezza monetaria in potere effettivo. La ricchezza era fatta di prestigio e non di denaro, considerato “sterco del diavolo”.

Roberto Roveda

La marginalità del denaro nel mondo medievale

Noi uomini del XXI secolo siamo abituati a vivere in un mondo in cui sono gli economisti a dettare le regole e mercato e finanza spesso determinano le politiche degli stati, mentre il conto in banca e i guadagni definiscono le gerarchie sociali e in qualche modo l’individualità di ciascuno di noi. Il denaro ha un ruolo decisivo e viene spesso considerato un metro con cui misurare ciò che stiamo facendo. L’uomo contemporaneo è precipuamente homo oeconomicus e come tale fatica anche solo a pensare che in altre epoche gli esseri umani potessero agire in base a criteri generali diversi da quelli attuali, individuati secondo scale di valori estranee al nostro tempo.
Un esempio significativo di quanto detto è proprio la concezione del denaro – e più in generale della ricchezza – del mondo medievale. Da questo punto di vista, l’epoca medievale fu, per quasi tutta la sua millenaria durata, un’epoca di regressione. Il denaro, anche dopo la ripresa dei traffici nell’XI secolo, risultò meno importante e diffuso di quanto fosse nell’Impero romano e certamente ricoprì un ruolo all’interno della società occidentale non paragonabile a quello ottenuto a partire dal Cinquecento e, ancora di più, dal Settecento. Inoltre, esso non era presente come oggi in molte forme – metallica, cartacea, “virtuale” –, ma si identificava quasi totalmente con le monete metalliche,1 poco utilizzate anche a causa di una cronica mancanza di metalli preziosi nel continente. Non a caso, la maggior parte degli storici fissa la nascita del nostro moderno mondo economico nella ripresa monetaria del XVI secolo, quando cominciarono appunto ad affluire in Europa grandi quantità di metalli preziosi provenienti dal Nuovo Mondo.

Potenti e umili, ricchi e poveri

Nel mondo medievale, il denaro fu marginale non solo per motivi pratici, legati alla sua scarsità. Contavano ancora di più, a questo proposito, i valori e la mentalità del tempo. Se il ruolo predominante di una persona all’interno della società poteva essere determinato dalla sua ricchezza, questa dipendeva dal possesso di grandi proprietà terriere e dal numero di contadini, servi e guerrieri al proprio servizio. Dunque, dal potere esercitato su uomini e terre: i ricchi del Medioevo erano i grandi feudatari, i potentes che si contrapponevano agli humiles.
Questa concezione sostanzialmente “extra-economica” resistette a lungo anche dopo la rinascita mercantile successiva all’anno Mille e la società medievale rimase impregnata dei valori del mondo feudale. Eppure, soprattutto all’interno delle città, cominciò ad affermarsi una divisione tra dives e pauper e a segnarsi una differenza sociale dettata dal possesso di pura ricchezza monetaria. Nello stesso tempo i detentori del potere e coloro che erano al vertice della società continuavano ad appartenere all’antica nobiltà, eredi dell’aristocrazia guerriera di derivazione germanica. Accanto a loro sedevano, su un piano di parità, gli uomini di chiesa, l’alto clero. Questa gerarchia di tipo feudale resistette in quasi tutta Europa ben dentro l’età moderna e costrinse gli “uomini del denaro” – mercanti, banchieri, professionisti – ad acquistare terre e titoli nobiliari, così da trasformare la loro ricchezza monetaria in potere effettivo. Il ricco per denaro, per ascendere nell’empireo della società, doveva quindi acquisire le caratteristiche e i valori delle classi dominanti e perdere, in un certo senso, il suo legame stretto con la moneta.

Cristianesimo e concezione del denaro

Il legame con la moneta, infatti, contava molto nel giudizio degli uomini del tempo perché il denaro era qualcosa di sospetto, anzi, di intrinsecamente diabolico. La mentalità dell’Occidente medievale era dominata non dal pensiero economico, ma dal cristianesimo e dai suoi valori, di cui la chiesa si faceva garante e guida incontestabile. E la chiesa guardava con sospetto al denaro – definito non a caso lo “sterco del diavolo” – e al suo accumulo: un tipo di ricchezza considerato iniquo e quindi da rifuggire. Proprio da questi stretti vincoli di natura etica e religiosa è necessario partire per comprendere l’avversione dell’uomo medievale nei confronti della moneta e della ricchezza da essa derivata.
L’origine della condanna della ricchezza si ritrova in alcune pagine delle Sacre Scritture. Si tratta perlopiù di brani del Nuovo Testamento, con l’eccezione di un passo tratto dal Siracide o Ecclesiastico. Quest’ultimo esercitò un’enorme influenza sia presso gli ebrei sia presso i cristiani: «Chi ama l’oro non sarà esente da colpa, chi insegue il denaro ne sarà fuorviato».2 A questo passo veterotestamentario si aggiungevano alcuni brani dei Vangeli. L’evangelista Matteo scrive: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona».3 E ancora: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico, difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”».4 Un passaggio dell’evangelista Luca condanna l’accumulo di ricchezze: «Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».5 Più avanti in Luca (12, 33) Gesù dice ai ricchi: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina». Infine Luca (16, 19-31) racconta la storia, ben conosciuta per tutto il Medioevo, del ricco malvagio e del povero Lazzaro. Il primo finisce all’Inferno, mentre il secondo è accolto in Paradiso.
Questi testi ebbero una risonanza enorme all’interno della società medievale, che era essenzialmente una res publica christiana uniforme, all’interno della quale era impensabile non rispettare norme sociali unanimemente accettate. Si trattava infatti di una società intrinsecamente conformista, in cui la trasgressione portava all’esclusione, quando non all’accusa di eresia. Perciò questi testi scritturali esprimono appieno il contesto economico e religioso in cui si inquadra l’uso del denaro nel Medioevo. Un contesto caratterizzato dalla condanna dell’avarizia (peccato capitale) e dell’usura, lo strumento principale per accumulare denaro. Parallelamente e consequenzialmente il Medioevo elogiò la carità (intesa come atto del compiere il bene) ed esaltò, nella prospettiva della salvezza, la povertà come un ideale incarnato da Cristo.

L’immagine della ricchezza nell’iconografia e nella letteratura

A testimoniare con insistenza questo atteggiamento negativo nei confronti del denaro e della ricchezza sono anche la letteratura e l’iconografia medievali. Esso vi compare in forme spesso simboliche e sempre peggiorative, volte a impressionare il lettore e l’osservatore al fine di incutergli timore. Nell’immaginario medievale, la figura maggiormente legata al denaro è quella di Giuda, colui che tradì il salvatore per soldi, appunto. In una miniatura dell’Hortus Deliciarum, manoscritto del XII secolo, viene rappresentato Giuda che intasca il premio del suo tradimento con il seguente commento: «Giuda è il peggiore dei mercanti, egli incarna gli usurai che Cristo ha cacciato dal Tempio perché ripongono le loro speranze nella ricchezza e desiderano che il denaro trionfi, regni e domini, ma questo è la canzonatura delle lodi che celebrano il regno di Cristo in terra».
La principale rappresentazione simbolica nell’iconografia medievale è invece una borsa stracolma di denaro appesa al collo di un ricco, trascinato all’Inferno dal suo peso. Una raffigurazione che ritorna in molte sculture all’interno delle chiese e che viene chiaramente evocata da Dante nel canto XVII dell’Inferno, quello dove il poeta incontra gli usurai: «Poi che nel viso a certi li occhi porsi,/ne’ quali ’l doloroso foco casca,/non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi/che dal collo a ciascun pendea una tasca/ch’avea certo colore e certo segno,/e quindi par che ’l loro occhio si pasca». La rappresentazione poetica della Divina Commedia è particolarmente significativa perché Dante scrive all’inizio del XIV secolo, un’epoca in cui la società mercantile medievale era al culmine della sua espansione. Il poeta pone però gli accumulatori di denaro nel girone dei violenti contro Dio e contro natura al pari dei bestemmiatori e dei sodomiti. Per Dante e per l’uomo medievale, infatti, gli usurai sono quei violenti contro natura e arte, che, come spiegato accuratamente nel Canto XI dell’Inferno (vv. 91-115), non traggono il loro guadagno né dal sudore né dall’ingegno, ma dal denaro stesso.

I valori fondanti della società: la carità e il dono

L’avversione per l’accumulo di denaro derivava anch’essa da valori ispirati dalla religione cristiana: principalmente la caritas e la gratuità del dono. Accumulare denaro significava venire meno all’unico uso della ricchezza monetaria ritenuto accettabile da parte delle norme religiose: la carità, l’elemosina nei confronti del povero, nel quale si rispecchiava Gesù stesso. Inoltre, fare prestiti per interesse violava un altro dei precetti evangelici, l’aiutare gratuitamente il fratello in difficoltà.
Siamo qui di fronte a un punto nodale nella concezione della ricchezza, come ha mostrato il grande storico francese Jacques le Goff, affermando che l’economia del Medioevo è basata sul dono, sull’elemosina. Questi ultimi sono gli atti che sopra ogni altro giustificano l’impiego del denaro. E dal momento che è di norma la chiesa a gestire e distribuire le elemosine, emerge ancora una volta la centralità della chiesa nel funzionamento della società medievale. Il legame tra carità e ricchezza monetaria è individuabile anche nei comportamenti delle classi agiate alla fine del Medioevo: l’incremento degli scambi mercantili e dell’impiego del denaro coincide con un aumento delle donazioni volontarie, che supera di molto i prelievi fiscali imposti dai poteri laici. Quindi in ambito medievale ha senso inquadrare il commercio e la ricchezza materiale «in un sistema di valori sempre subordinato alla caritas».6
L’usura nega la carità che, come sostiene Tommaso d’Aquino, rappresenta un legame sociale fondamentale tra gli uomini, e tra loro e Dio: «La carità è la madre di tutte le virtù nella misura in cui informa tutte le virtù».7 Il prestito a interesse viene inoltre condannato dalla chiesa perché contrario al precetto evangelico del «Mutuum date, nihil inde sperantem» cioè «Prestate senza sperare nulla».8 Tale richiamo alla gratuità del prestito trova risconto nel Decreto di Graziano,9 compilato nel XII secolo e considerato il fondamento del diritto canonico. Nel Decreto, infatti, viene stabilito che «Quic-quid ultra sortem exiqitur usura est», «Tutto ciò che viene riscosso al di là del capitale è usura». Ne deriva immediatamente l’atteggiamento della Chiesa medievale di fronte all’usura, che si basa su alcuni punti fermi: è usura tutto ciò che, richiesto in restituzione di un prestito, eccede lo stesso bene prestato; praticare l’usura è un peccato; la restituzione maggiorata del valore di un bene prestato è un peccato; il frutto dell’usura deve essere restituito integralmente al possessore originale; praticare prezzi più elevati in una vendita a credito è implicitamente un atto di usura. Non si faceva quindi nessuna distinzione tra tassi di interesse alti o bassi, legali oppure illegali: tutto era usura.

La condanna di ogni forma di prestito a interesse

La dottrina intransigente della chiesa nei confronti del prestito a credito rendeva l’usura fonte di numerosi peccati. Innanzitutto essa era un aspetto del peccato mortale di cupidigia (avaritia), allineata come gravità all’altra forma grave di avaritia, il traffico di beni spirituali (simonia), una pratica in sensibile calo dopo la riforma gregoriana di fine XI secolo. Inoltre, l’usura era considerata un furto perché fa “pagare il tempo” che trascorre tra la concessione del prestito e la sua riscossione. E il tempo appartiene solo a Dio. Infine, l’usura era un peccato contro la giustizia – come sottolinea Tommaso d’Aquino nella sua Summa teologica – perché nella concezione medievale la iustitia è intrinsecamente e inscindibilmente connessa con la caritas. Proprio Tommaso d’Aquino e gli autori scolastici, riprendendo Aristotele, aggiunsero nel XIII secolo un’ulteriore componente negativa alla natura già diabolica del denaro. Tommaso scrisse che «nummus non parit nummos», «il denaro non partorisce denari», in questo modo configurando l’usura come un peccato contro la natura, che era ormai agli occhi dei teologi scolastici una creazione divina.
Di fronte a un carico così pesante di peccati, per l’usuraio non esisteva che la dannazione. Come scriveva già papa Leone I Magno nel V secolo «il profitto del denaro è la morte dell’anima». Nel 1179, il Terzo Concilio Lateranense proclamò che nelle città cristiane gli usurai erano estranei cui doveva essere negata la sepoltura religiosa. Addirittura un grande teologo e predicatore del XIII secolo come Giacomo di Vitry ai tre ordini caratteristici della società medievale creati da Dio – uomini di preghiera, guerrieri e lavoratori – ne aggiunge un quarto, gli usurai, opera del Demonio: «Il Maligno ha inserito un quarto genere di uomini, gli usurai. Essi non partecipano al lavoro degli altri uomini e perciò non subiranno il castigo degli uomini, ma quello dei diavoli. La quantità di denaro che hanno guadagnato con l’usura corrisponde alla quantità di legna inviata agli Inferi per bruciarli».
Esisteva un’unica possibilità di redenzione e di salvezza per questi uomini così fortemente legati al denaro: la restituzione di quanto accumulato, cioè il recupero del dono e della carità. E molti, spesso sul letto di morte, ricorrevano a questa forma di pentimento, a indicare una volta di più quanto forte fosse il peso della religione cristiana nel Medioevo.

Note

1. Negli ultimi secoli del Medioevo ebbero una certa diffusione le lettere di cambio, antenate dei moderni titoli di credito, ma si trattò di una diffusione limitata e dedicata principalmente alle grandi transazioni commerciali
2. Ecclesiatico 31, 5.
3. Vangelo di Matteo 6, 24. Nel giudaismo tardo Mammona designa la ricchezza iniqua, che assume soprattutto forma monetaria
4. Vangelo di Matteo 19, 23-24. Questi passi ricorrono anche nei vangeli di Marco (10, 23-25) e Luca (18, 22-23).
5. Vangelo di Luca 12, 13-22 (in particolare 12, 15).
6. Anita Guerreau Jalbert, Caritas y don en la sociedad medieval occidental, in“Hispania: Revista Española de Historia”, 2000.
7. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 1-2 q. 62, a. 4.
8. Vangelo di Luca 6, 35.
9. Il Decreto di Graziano è la prima raccolta di diritto canonico, compilata tra il 1140 e il 1142 dal monaco camaldolese Graziano, che riunisce le decisioni dei concili in materia giuridica separandole dalla teologia. Il titolo ufficiale dell’opera è Concordia discordantium canonum.

Bibliografia

C. M. Cipolla, Storia economica dell’europa pre-industriale, Il Mulino, Bologna 2009.
J. Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Bari 2003.
J. Le Goff, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, Laterza, Bari 2012.
P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Il Mulino, Bologna 2009.

 

Roberto Roveda è studioso di storia medievale. Per Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori ha scritto, con Franco Amerini ed Emilio Zanette, il secondo volume del corso di storia per il biennio delle superiori Sulle tracce di Erodoto. Per la Scuola secondaria di primo grado è autore del corso Noi dentro la storia.