Alighieri o “di Alighiero”?
Nessuno metterebbe in discussione che Dante si chiamasse Alighieri. Ma nell’epoca in cui visse i cognomi non erano ancora stabilmente parte del sistema onomastico: suo padre, infatti, come tutti sanno, si chiamava Alighiero di Bellincione e sembra difficile dire se Alighieri fosse soltanto il nome del padre, ovvero Dante (figlio) di Alighiero, oppure un vero e proprio cognome. La questione non è, come sembrerebbe, di poco conto: i cognomi infatti per tutto l’alto Medioevo non sono esistiti né per le famiglie contadine né per aristocratici e re, e tutti erano chiamati soltanto per nome. Nella Firenze del Duecento, come in tutta Europa, erano quindi una novità riservata alle famiglie più conosciute e influenti. Le altre si distinguevano con l’uso del patronimico, ovvero semplicemente del nome del padre o, al più, di un soprannome.
Gli avi e la famiglia
Da quale famiglia proveniva Dante? Com’è noto, nel Paradiso il poeta incontra il suo antenato Cacciaguida: «Quel da cui si dice / tua cognazione e che cento anni e piue / girato ha l’monte nella prima cornicie / mio figlio fu e tuo bisavol fue»1. Gli Alighieri dunque esistevano da quattro generazioni, e Dante sottolinea con orgoglio come il suo trisavolo fosse ai suoi tempi morto da oltre un secolo. Molti indizi documentari fanno intendere che almeno dal 1260 Alighieri fosse già un cognome: il clan di Dante insomma doveva essere alla metà del Duecento già abbastanza conosciuto e rispettabile, e molto attivo (con le oscillazioni che ben conosce chi maneggia denaro a proprio rischio) nella mercatura e nel prestito. La famiglia era ricca abbastanza da permettere al giovane Dante nel 1289 di partecipare alla battaglia di Campaldino tra i cavalieri, ossia i milites. Ma era anche nobile?
Dante guerriero?
Combattere a cavallo, è vero, era nell’Europa medievale affare da nobili, ma nelle città comunali italiane chiunque avesse la disponibilità finanziaria sufficiente ad acquistare un cavallo e le armi poteva ambire al ruolo di miles. A dispetto di quanto spesso viene creduto, infatti, la mobilità sociale rimase per molto tempo tendenzialmente vivace: frequenti erano le cerimonie di addobbamento di nuovi cavalieri e, se sostenuti dalla determinazione e dalla facilità di spesa, era possibile per tutti divenire domini, signori, ovvero nobili cavalieri. Soltanto nel pieno Duecento, proprio dagli anni di Dante, la nobiltà fece i primi tentativi volti a limitare l’accesso al proprio ceto alle sole consorterie di più antica tradizione.
Il sabato di San Barnaba
A Firenze, in particolare, chiunque avesse un capitale consistente veniva iscritto nelle cosiddette cavallate, registri che obbligavano a mantenere una cavalcatura a disposizione del comune e a combattere a cavallo nell’esercito cittadino. E così fu probabilmente per Dante, che non si fregiò mai del titolo di dominus, come nessuno degli Alighieri, ma è annoverato a Campaldino tra i feditori2, ovvero coloro che per primi cavalcarono contro gli aretini, peraltro con grandissimo rischio, dato che furono costretti a una precipitosa fuga e molti rimasero uccisi. Era sabato, il giorno di San Barnaba, e i fiorentini iniziarono così una risicata battaglia che assicurò alla parte guelfa il predominio in Toscana, sconfiggendo le forze ghibelline raccolte intorno ad Arezzo.
Per le strade della città
Non sappiamo esattamente in quale casa nacque Dante, né quale preciso aspetto avesse allora la città: sicuramente doveva trovarsi nei pressi dell’odierno Museo “Casa di Dante”. Tutte le città però dal Medioevo in poi hanno visto così tanti abbattimenti di case, nuove costruzioni, sistemazioni e modifiche, che i luoghi noti al poeta gli sarebbero oggi del tutto irriconoscibili: lo stesso tracciato viario odierno non è lo stesso che calpestava Dante.
Sappiamo, però, che il bisnonno di Dante possedeva un albero di fico3, addossato a un muro della chiesa di San Martino del Vescovo, e che dovette far tagliare per il disturbo che ad essa arrecava. La chiesa, tuttora esistente seppure in forme diverse, dava sulla via San Martino che corrisponde oggi a via Dante Alighieri. A pochi passi si trovavano anche la casa di Geri del Bello, cugino del poeta, e quella di Bellincione, nonno di Dante.
Il quartiere di Dante
Gli Alighieri vivevano dunque nel “popolo” di San Martino del Vescovo, una piccola contrada in cui dimoravano anche i Donati: tra quelle case tutti si conoscevano, e la famiglia di Alighiero di Bellincione era tra le più in vista. Si trattava di una zona piuttosto antica, insediata e solidamente urbanizzata già dal X secolo.
Nelle città medievali le istituzioni funzionavano per circoscrizioni urbane sovrapposte e gerarchiche: alla base vi erano i “popoli”, che corrispondevano all’incirca a una moderna parrocchia, a loro volta riuniti in “sestieri”, grandi circoscrizioni che tagliavano la città come fette di una grande torta. Il solo “sesto” d’Oltrarno, compreso tra le nuove mura urbane a partire dall’età romanica, si sviluppava al di là del fiume.
Il sestiere di appartenenza condizionava profondamente la vita dei cittadini: Dante a Campaldino combatté per esempio tra gli uomini del suo sestiere, Porta San Pietro. Ciascuno partecipava alla vita politica sulla base di questa appartenenza; ogni “sesto” nominava uno dei sei priori, cioè le cariche bimestrali che si occupavano del governo della città. I sestieri erano di conseguenza alla base anche delle alleanze familiari e delle amicizie: in quello di Dante, oltre ai Donati, vivevano anche i Cerchi, destinati di lì a poco ad alimentare le violente lotte cittadine che scossero profondamente la vita fiorentina. Dante li conosceva bene, ed era anzi strettamente legato ad entrambi i clan rivali.
Piccolo grande amore
Nel “popolo” di Santa Margherita, adiacente a quello di Dante e situato nello stesso sesto di Porta San Pietro, abitava Folco Portinari, un personaggio di spicco ai vertici della società fiorentina, dedito alla mercatura e al credito: fu più volte console di Calimala4, venne eletto tra i Quattordici5, e risultò per ben tre volte priore della città. Ma – ciò che più ci interessa – egli era il padre di una certa Beatrice, probabilmente detta Bice, di cui Dante si innamorò. Un amore platonico che, a dar retta al poeta, si impadronì di lui bambino di appena nove anni. Beatrice ne aveva otto.
Bambini e bambine, nella Firenze medievale, potevano giocare assieme, per cui, vista la vicinanza delle case dei Portinari e degli Alighieri, è possibile che i due fanciulli effettivamente si fossero incontrati. Come si usava allora, crescendo i ragazzi e le ragazze venivano separati secondo una rigida segregazione tra maschi e femmine; possiamo perciò credere che Dante e Beatrice dopo l’infanzia non si incontrarono più, se non, come racconta la Vita nova, dopo altri nove anni. È ovvio che il ricorrere del numero nove, così frequente in Dante, debba far sospettare che tali indicazioni cronologiche siano accomodate alle sue necessità espressive; pur tuttavia, è doveroso notare che a diciassette anni, quando Beatrice salutò il poeta per strada rivolgendogli la parola, era già sposata con il cavaliere nobile e potente Simone de’ Bardi, e proprio in virtù di questo suo nuovo status poteva uscire indisturbata anziché restare chiusa in casa sotto la tutela familiare: «Quando m’apparve amor subitamente»6...
Una sposa desiderata
Anche Dante si sposò, con Gemma Donati: la documentazione in merito, tuttavia, lascia molti dubbi su quando il matrimonio fu celebrato, visto che l’unica attestazione scritta lo farebbe ricorrere nel 1276, quando il poeta aveva soltanto undici anni. È possibile che il notaio abbia commesso un errore di lettura, e che il matrimonio sia da spostare al 1293, quando egli era assai più adulto, e Beatrice già morta. Ma di più non sappiamo, se non che i Donati investirono una cifra molto modesta nella dote di Gemma: possiamo da ciò dedurre come i Donati fossero assai meno interessati ad avere in famiglia un Alighieri di quanto, al contrario, il meno titolato clan di Dante non desiderasse legarsi a una Donati, di famiglia ben più nobile e importante. Comunque sia, allora i matrimoni non si celebravano in chiesa, ma semplicemente davanti a un notaio.
Una brillante carriera?
Quando Dante abitava a Firenze, la città era governata da un regime di popolo, ovvero il potere era esteso a una vasta fascia della popolazione produttiva. Il governo era nelle mani dei sei priori (uno per ogni sesto) delle Arti, che restavano in carica per soli due mesi: dunque, ogni anno i priori erano più di trenta. Sotto ai priori, esistevano cinque e più consigli, nei quali sedevano oltre 600 cittadini, rinnovati ogni sei mesi. È pertanto difficile parlare, per Dante, di brillante carriera politica in un mondo in cui, in realtà, pressoché tutti i membri delle famiglie appena un po’ attive nella vita cittadina dovevano in qualche modo rientrare in questo continuo avvicendarsi di cariche. In ogni caso, i documenti che testimoniano l’attività pubblica di Dante sono tutti compresi tra il 1295 e il 1301.
Tra famiglia, amici e politica
Dante apparteneva a una famiglia mezzana, ovvero non era tra i nobili, ma si distingueva nella cerchia dei popolani per importanza e frequentazioni: la moglie Gemma era di una famiglia magnatizia, e lo stesso si può dire dei suoi migliori amici come Guido Cavalcanti o Forese Donati. Non può dunque stupire che fosse coinvolto nella vita pubblica, né che abbia occupato in un’occasione la carica di priore: era il 1300, nel mezzo del cammin di nostra vita… Nell’anno in cui il poeta ambienta il suo viaggio ultraterreno, e nel momento in cui, secondo il suo racconto, rischiò la perdizione, egli era dunque pienamente coinvolto nella vita politica cittadina. Non senza una certa dose di sfortuna, visto che negli stessi mesi Firenze era scossa dalle violenze tra Cerchi e Donati, detti guelfi Bianchi (tra cui Dante) i primi, e Neri i secondi, pur legati al poeta per via del suocero e dell’amico Forese.
Il lungo addio
Quando Carlo di Valois, fratello del re di Francia, entrò in Firenze, la situazione precipitò, e i Neri presero il sopravvento. Le violenze urbane all’epoca erano un’esperienza frequente, ma in quei giorni Firenze fu letteralmente messa a ferro e fuoco: a Dante, racconta Leonardo Bruni, «gli fu corso a casa, e rubata ogni cosa, e dato il guasto alle sue possessioni»7. Nel 1302 fu condannato in contumacia per malversazioni, favoreggiamento e corruzione. La contumacia, come si sa, non ebbe mai termine: anche se la moglie Gemma rimase in Firenze con i figli ancora bambini, Dante non rivide mai più la sua città, la cui viva memoria pure permea e ispira tutta, o quasi, la Commedia.
NOTE
1 Paradiso, XV, 91-94.
2 La notizia si deve all’umanista Leonardo Bruni che scrive nel 1436, a suo dire basandosi su una lettera autografa di Dante, oggi perduta. Il termine feditori, di sapore evidentemente toscano, è dal Bruni impiegato per indicare semplicemente i cavalieri incaricati di urtare per primi le schiere aretine. Significa, di fatto, nient’altro che feritori: i dantisti, poco pratici di come si combattesse una battaglia nel Medioevo, hanno mal interpretato il termine, pensando erroneamente che indicasse un reparto speciale dell’esercito fiorentino, che però non risulta attestato in nessun’altra fonte coeva. Per una prima informazione, cfr. A. Barbero, Dante, Bari-Roma, Laterza, 2020.
3 E. Faini, Ruolo sociale e memoria degli Alighieri prima di Dante, in Dante attraverso i documenti, I, Famiglia e patrimonio (secolo XII-1300 circa), a cura di G. Milani, A. Montefusco, in “Reti medievali rivista”, 15/2 (2014), p. 206 ss.
4 Si chiamava Calimala l’Arte preposta ai mercanti internazionali di lana.
5 Il Consiglio dei Quattordici era una delle istituzioni che provvedevano al governo della città, insieme con il podestà e i priori delle Arti.
6 Vita nova, III, A ciascun alma presa e gentil core, v. 7, in Nuova edizione commentata delle opere di Dante, a cura di T. De Robertis, G. Milani, L. Regnicoli, S. Zamponi, I, Roma, Salerno editrice, 2015.
7 L. Bruni, Della vita, studi e costumi di Dante, in Le vite di Dante, a cura di G.L. Passerini, Firenze, Sansoni, 1917, par. 7.
Referenze iconografiche: La statua di Dante davanti alla chiesa di Santa Croce, Firenze; Michael Brooks/Alamy Stock Photo