Professore, nel suo ultimo libro Documanità. Filosofia del mondo nuovo, lei propone una visione del presente e del futuro in radicale discontinuità rispetto al passato. Quali sono i cambiamenti principali e da quali fattori sono provocati?
La più grande trasformazione del presente rispetto al passato deriva da una circostanza in apparenza minuscola: registrare non è mai costato così poco e non è mai stato così ubiquo. Questo deriva da una caratteristica del digitale rispetto all’analogico su cui spesso non si riflette a sufficienza. Mentre nell’analogico ha luogo prima la comunicazione, e dopo – se mai, e il più delle volte in effetti mai –, la registrazione, nel digitale la registrazione precede e rende possibile la comunicazione. Come risultato, non abbiamo avuto mai così tanti documenti, relativi non solo alle nostre azioni deliberate e linguistiche, ma a ogni nostra forma di interazione con il web, ossia i famosi metadati, e questo ha cambiato tutto.
Ci si può chiedere come mai, ma la risposta viene da un aspetto della realtà sociale che avevo preso in esame in Documentalità (2009): gli oggetti sociali – cose come le promesse, il denaro, i ranghi sociali, il prestigio, la proprietà, i confini, le dichiarazioni di guerra, le dichiarazioni d’amore – si basano su documenti che registrano e trasmettono gli atti che li hanno registrati. Per sposarmi, non è sufficiente che io pensi di sposarmi e non è semplicemente dicendo “vorrei sposarmi” che mi sono sposato. È necessario seguire un certo rito ed è necessario che questo rito sia registrato. Un matrimonio fra amnesici, senza testimoni e senza documenti, non è un matrimonio. Inversamente, tutto ciò che è registrato acquisisce una rilevanza sociale ed è esattamente ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi negli ultimi dieci anni.
Se ne avevano già avuti degli accenni nel momento in cui la macchina per parlare per eccellenza, ossia il telefono, si è trasformata in una macchina per scrivere, ossia il telefonino, una macchina per registrare, per archiviare, per trasformare in documento ogni istante della nostra vita; ed è anche per questo che il mio primo interesse nei confronti della rivoluzione in corso, in Dove sei? Ontologia del telefonino (2005), è dipeso da questa trasformazione capitale: il passaggio dalla prevalenza del parlato alla enorme prevalenza dello scritto, che oggi possiamo osservare ovunque, tranne nei vagoni silenzio di Trenitalia.
Il web quindi non soltanto è entrato organicamente nelle nostre vite, condizionandole e modificandole irreversibilmente, ma sta generando una vera e propria nuova umanità, che lei definisce “documanità”: dopo Homo sapiens, che cosa stiamo diventando?
Diventiamo quello che siamo sempre stati cioè degli uomini documentali. Questo era all’orizzonte da sempre, dal primo nostro antenato che, abbandonando la condizione puramente animale, si dedicò a una attività tecnica, quella dello scheggiare una selce per trarne un raschietto. Questo gesto antichissimo ha segnato il passaggio dall’animale non umano all’animale umano, e al tempo stesso ha segnato il passaggio dalla assenza di documenti al primo documento della storia. Perché l’ attrezzo costruito attraverso l’attività umana era, al di là della sua funzione, la registrazione di un atto, degli atti che erano stati necessari per fabbricarlo, ossia del lavoro vivo che si conservava all’interno del lavoro morto.
E che si tratti di un documento è provato dal fatto che tuttora quello che noi sappiamo di società precedenti la scrittura consiste nei loro apparati tecnici sopravvissuti, vasi, fibbie, punte di freccia; per non parlare poi del fatto che ci sono intere civiltà che sono designate attraverso delle attività tecnologiche: l’età del bronzo, e dopo l’età del ferro, ma all’inizio di tutto il processo l’età della pietra, ossia di quel primo gesto che il nostro progenitore compì generando un attrezzo.
Quel gesto diede avvio all’epopea, prima che dell’Homo sapiens – mi auguro che quell’epopea, per altro punteggiata di enormi momenti di imbecillità, non sia ancora finita –dell’Homo faber, ossia dell’uomo che produce. È stato così per millenni, prima nel caso in cui l’uomo produceva degli attrezzi, e principalmente delle armi per cacciare; poi quando questi attrezzi si sono trasformati in strumenti per la coltivazione, dando avvio a un processo che sarebbe culminato nell’età industriale. Ma in tutti questi momenti, l’umano era semplicemente la protesi dell’automa, giacché un uomo che usa un giavellotto, un uomo che usa un aratro o un uomo che lavora in una catena di montaggio è sostanzialmente l’appendice della macchina a cui è collegato.
Ora è successo qualcosa di cui non abbiamo ancora preso le misure, ma che ha cambiato tutto. L’automazione ha fatto sì che noi umani non siamo più l’appendice della produzione delle macchine, ma siamo semplicemente il loro destinatario. L’uomo produttore si è trasformato nell’uomo consumatore. Una concezione sbagliata e moralistica vede in tutto questo una situazione catastrofica. Io credo invece che l’umano non sia mai stato così umano come adesso, giacché quando non è più costretto a presentarsi come l’appendice delle macchine, può agire in maniera propriamente umana, manifestando i propri desideri, le proprie forme di vita giuste o sbagliate che siano, le proprie inevitabili follie e i propri meriti.
L’intelligenza artificiale non è che questo: il fatto che noi come umani siamo portati a elaborare delle forme di vita che appartengono soltanto a noi e che vengono registrate e archiviate da parte del web in modo da poter essere riutilizzate come automazione finalizzata alla produzione. Il meccanismo di dettatura che sto adoperando in questo momento sta registrando le parole che dico semplicemente per rendere più efficace il sistema di trasformazione del parlato nello scritto; e questo vale anche per i traduttori automatici, per l’infinita quantità di attrezzi e di strumenti di cui ormai l’uomo è semplicemente l’istruttore, il più delle volte inconsapevole, e la macchina l’esecutrice sempre più autonoma.
Dobbiamo dunque imparare a considerare la tecnica, il capitale, il lavoro e la stessa umanità con categorie concettuali e linguistiche impensabili fino a poco tempo fa. Che ruolo giocano istruzione, educazione, formazione, prima di tutto dei giovani?
Nel momento in cui non abbiamo più bisogno di essere le protesi delle macchine, si creano due condizioni: da una parte, ci si domanda che cosa si può fare di noi, di noi che ora abbiamo perso quel senso della vita che derivava dal fatto di eseguire un lavoro. Bene, occorre comprendere che noi, tutta l’umanità – bambini, anziani, disoccupati, altrimenti occupati – produciamo valore sopra il web perché per la prima volta nella storia del mondo il consumo viene sistematicamente registrato e quindi trasformato in valore attraverso un processo di capitalizzazione.
Per la prima volta nella storia del mondo il semplice vivere è produzione di valore. Si tratta di riconoscere questa circostanza e di tassare le piattaforme che accumulano un plusvalore enorme di cui noi non siamo consapevoli, così come non siamo consapevoli del fatto di lavorare in ogni momento della nostra vita. Preoccupiamoci di questo, prima di tutto, prima della privacy, prima delle fake news: le piattaforme non esercitano uno scambio equo con l’utente. L’utente riceve gratis delle informazioni, la piattaforma riceve gratis molte più informazioni; diversamente dall’utente, ne diventa proprietaria, cioè crea una forma di accumulo primario; queste informazioni potranno essere successivamente capitalizzate adibendole a scopi di automazione; e, soprattutto, queste registrazioni, i big data, diventano dei beni come qualunque altro bene, e possono essere comprate e vendute.
Questo genera l’enorme capitale documentale della nostra epoca, che trae la propria origine dalla attività che gli umani svolgono sul web, e che va ridistribuito in forma di welfare o meglio di webfare. È insomma necessario che le piattaforme vengano tassate e che a questo punto i proventi della tassazione vengano restituiti a tutti coloro che stanno perdendo lavoro o che devono essere riqualificati nel quadro della trasformazione industriale in corso.
Molti vedono in questa trasformazione una catastrofe, evidentemente perché non pensano che la natura umana abbia un senso al di là dell’essere una protesi delle macchine; trascurano la circostanza per cui, in ultima analisi, ciò che può essere fatto da una macchina è indegno di un umano, essendo noioso, faticoso, ripetitivo – che si tratti di spaccare pietre, di lavorare in una catena di montaggio, o di lavorare come dattilografo.
Bisogna cambiare sguardo. I senatori romani sapevano benissimo come occupare il loro tempo. Erano stati educati in modo eccellente, e disponevano di schiavi che lavoravano per loro. Oggi l’intera umanità dispone di schiavi, l’automazione è proprio questo. Invece che dichiararci, per puro vittimismo e per scarico di coscienza, schiavi della tecnica, dobbiamo riconoscerci come padroni della tecnica, che non avrebbe alcun senso in assenza di umani.
Le grandi domande dell’uomo - chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? – sembrano oggi più che mai necessarie per non perderci. Come la filosofia può aiutarci a comprendere e ad affrontare la svolta epocale che stiamo vivendo?
Attraverso la riflessione. Può darsi che tutto quello che ho detto sia sbagliato, può darsi che tutto quello che ho detto sia circonfuso da un ottimismo fuori luogo. Spero proprio che non sia così, e anzi nutro la ragionevole speranza che non lo sia. Ma poiché ogni prospezione verso il futuro comporta un rischio, sono dispostissimo, seppure a malincuore, a correrlo. Però di una cosa non dovrò mai pentirmi, perché me ne sono astenuto con cura: e cioè di avere assunto l’atteggiamento superstizioso e farisaico che consiste nell’addossare tutte le nostre infelicità a un fantomatico neoliberismo e a una dispotica tecnica, assolvendomi così non solo dai miei peccati, ma anche da qualunque attività di pensiero.
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