Odradek. Riflessioni al tempo del Coronavirus

SARS-CoV-2

FILOSOFIA PER IL NOSTRO TEMPO. MATERIALI E RIFLESSIONI

Immagino di non essere il solo ad aver pensato in questi giorni di quarantena a Odradek, lo strano essere protagonista del racconto di Kafka. Il Coronavirus ne è un parente prossimo, e ragionando su Odradek possiamo capire qualcosa di lui, noi che non siamo scienziati, ma solo potenziali ospiti di questo inquilino sgradevolissimo.

Maurizio Ferraris

«Alcuni dicono che la parola Odradek derivi dallo slavo e cercano di chiarire su questa base la formazione della parola. Altri invece ritengono che derivi dal tedesco, e che dallo slavo sia solo influenzata. L’incertezza di entrambe le interpretazioni però fa a buon diritto concludere che nessuna delle due sia corretta, anche perché nessuna permette di trovare un senso.

Naturalmente nessuno si occuperebbe di tali questioni se non esistesse davvero un essere che si chiama Odradek. A prima vista sembra un rocchetto piatto di filo, a forma di stella, e in effetti sembra anche avere del filo arrotolato; si tratta però solo di pezzetti di filo strappati, vecchi, annodati e anche ingarbugliati fra loro, di tipi e colori dei più disparati. Non è però solo un rocchetto, ma dal centro della stella spunta un piccolo bastoncino obliquo, e a questo bastoncino un altro se ne aggiunge ad angolo retto. Aiutandosi da un lato con quest’ultimo bastoncino e dall’altro con un raggio della stella, il tutto può stare in piedi come su due gambe.

Si sarebbe tentati di credere che una tale creatura abbia avuto in passato una qualche forma adeguata a uno scopo, e che ora sia semplicemente rotta. Ma sembra che non sia così; per lo meno non se ne trova alcun segno; non si vedono aggiunte o fratture che potrebbero far pensare qualcosa del genere; il tutto sembra certo insensato, ma nel suo genere concluso. D’altronde, non se ne può dire niente di più preciso, perché Odradek è straordinariamente mobile e non si lascia prendere.

Si intrattiene ora sul tetto, ora nelle scale, ora nei corridoi, ora nell’atrio. A volte non lo si vede per mesi; evidentemente si è trasferito in altre case; torna poi però invariabilmente in casa nostra. A volte, quando si esce dalla porta, sta proprio lì sotto appoggiato alla ringhiera delle scale, e viene voglia di parlargli. Naturalmente non gli si fanno domande difficili, ma lo si tratta – già la sua piccolezza induce a questo – come un bambino. «Come ti chiami?» gli si chiede. «Odradek», dice. «E dove abiti?» «Senza fissa dimora» dice, e ride; ma è solo una risata come la può emettere chi è senza polmoni. Suona all’incirca come il fruscio delle foglie cadute. Per lo più, con questo il colloquio finisce. D’altronde anche queste risposte non sempre si possono ottenere; spesso resta muto a lungo, come il legno di cui sembra esser fatto.

Mi chiedo inutilmente cosa avverrà di lui. Forse che può morire? Tutto ciò che muore ha avuto prima una specie di scopo, una specie di attività sulla quale si è logorato; questo non è il caso di Odradek. Forse dovrà allora un giorno rotolare ancora per le scale trascinando i suoi fili arrotolati fra i piedi dei miei figli, e dei figli dei miei figli? Certo, non fa danno a nessuno; ma questa idea, che possa anche sopravvivermi, mi dà quasi un dolore.»1

Immagino di non essere il solo ad aver pensato a Odradek in questi giorni di quarantena. Il Coronavirus ne è un parente prossimo, e ragionando su Odradek possiamo capire qualcosa di lui, noi che non siamo virologi, epidemiologi, scienziati, ma solo potenziali ospiti di questo inquilino sgradevolissimo. È vero, diversamente dal virus, Odradek riesce a muoversi da solo e non abbisogna delle nostre gambe; si aggira per le case rendendo inutile il richiamo “statevene a casa”; soprattutto, non uccide nessuno, eppure il padre di famiglia del racconto di Franz Kafka è preoccupato, e si pone due domande solo apparentemente contraddittorie. La prima, è se possa morire (dunque, se sia vivo). La seconda, è se gli sopravvivrà, e se sopravvivrà ai figli dei suoi figli.

Non so Odradek, ma sicuramente Coronavirus non può morire, semplicemente perché non vive. Non sappiamo se i virus siano delle forme precedenti la vita, o delle vite degradate per qualche motivo; quello che è certo è che per vivere abbisognano della ospitalità di un vivente. Quello che è certo è che «tutto ciò che muore ha avuto prima una specie di scopo, una specie di attività sulla quale si è logorato», mentre il Coronavirus non ha scopi di sorta, né attività, e quando lo chiamiamo “nemico invisibile” cadiamo vittime di un antropomorfismo, comprensibile, certo, ma pur sempre un antropomorfismo. Solo gli organismi hanno scopi, tempi, fini, e il virus non ha nulla di tutto ciò, non più di quanto un orologio abbia di mira il dirci che ora è.

Quella che combattiamo in queste settimane - e parla uno che sta tranquillamente nelle retrovie, il che non gli impedisce di riconoscere l’eroismo di chi muore per salvare altre vite - ha tutti gli aspetti di una guerra, ma è dunque priva di un elemento fondamentale, il Nemico. Per essere dei nemici bisogna avere delle intenzioni, e questo non è sicuramente il caso del virus. Il che, sia detto di passaggio, è un concreto motivo di conforto, perché quando la guerra sarà vinta - ci vorrà tempo ma la vinceremo - ci saranno solo vincitori e nessuno sconfitto in senso proprio (sebbene istituzioni come l’Unione Europea, se continuano di questo passo e con questa inerzia, ne usciranno ridotte peggio che nel maggio 1945).

Se dovessimo trovare un terzo, insieme a Odradek e a Coronavirus, sarebbe il Web. Anche lui non si sa bene che cosa sia, che forma abbia, se viva di qualche vita propria. Quel che è certo è che ha bisogno delle vite degli altri. E più precisamente ha bisogno delle nostre mani e dei nostri piedi, proprio come il Coronavirus, che sarebbe inerte senza tutta la mobilitazione e la vita che lo nutre. Sbagliano dunque coloro che vedono nel Web un’intelligenza collettiva e temono che un giorno prenderà il potere. Non farà nulla di simile, perché per tendere verso qualcosa bisogna essere vivi, e né il virus né il Web lo sono.

Sbagliano però anche quelli che, magari dopo aver pensato al Web come alla prateria delle nuove possibilità e delle nuove libertà, ne fanno lo strumento di un dominio spietato del “Capitale”. Animismo anche qui. Né il Capitale, né il Web, né il Coronavirus hanno intenzioni, buone o cattive di sorta. Sono i singoli umani che hanno intenzioni, quelle sì buone o cattive, ma questa è un’altra storia. E sono sicuro che se dovessi scegliere tra il virus e il Web, sceglierei il Web, che prende la mia vita come il virus, ma si limita a registrarla, e almeno in parte a restituirmela, dunque esercita un prestito più o meno forzoso ma non un furto o un omicidio.

La parte più profonda e profetica dell’apologo di Kafka sta però nella preoccupazione, apparentemente incongrua, che assilla il padre di famiglia, quella che Odradek, immortale, continui a vivere dopo che lui e i suoi figli se ne saranno andati. Perché questa è la natura: ciò che c’era prima di noi e che ci sarà dopo di noi, né benigna né maligna, ma semplicemente indifferente e infinitamente più grande e potente degli umani. Coloro che, in un empito di megalomania che non deve mancare di farci riflettere sull’immodestia dei buoni sentimenti, hanno parlato di antropocene, sono invitati alla riflessione e al silenzio. Corriamo (e da quando eravamo quattro fessi in Africa, esposti a una vita solitaria, povera, pericolosa, brutale, e breve) il concreto rischio di estinguerci come specie, ma questo sicuramente non significa la distruzione della natura, anzi.

In poche occasioni a mia memoria la natura si è rivelata così potente, libera, indipendente e forte. Ma non eccedo con gli aggettivi perché significherebbe, una volta di più, peccare di animismo e superstizione, proprio come coloro che vedevano nei fulmini il segno della collera di Zeus e che oggi vedono nel Coronavirus la vendetta della natura violentata dall’antropocene. La natura è indifferente a quella popolazione debole e indifesa che sono gli umani e, come diceva qualcuno, se uccide più formiche che umani è solo perché di formiche ce ne sono di più.

Note

1. Kafka, F. (1992), Il cruccio del padre di famiglia [Die Sorge des Hausvaters, in Ein Landarzt, 1917]. Idem, Racconti, a cura di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 252-253.

 

Maurizio Ferraris, nato a Torino, allievo di Gianni Vattimo, collega in Francia di Jacques Derrida, è professore ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di Ontologia). Editorialista di “La Repubblica” e del supplemento culturale de “Il Sole24ore”, è direttore della “Rivista di Estetica”.
Ha scritto più di cinquanta libri che sono stati tradotti in diverse lingue; tra i più recenti Manifesto del nuovo realismo (2012); Spettri di Nietzsche (2014); Emergenza (2016); Postverità e altri enigmi (2017).
Ha lavorato nel campo dell’estetica, dell’ermeneutica e dell’ontologia sociale, legando il suo nome alla teoria della documentalità e al nuovo realismo contemporaneo; ha collaborato come autore e conduttore a numerose trasmissioni televisive di Rai Cultura, come “Zettel”, “Zettel Debate”, “Lo stato dell’arte”.
Per Pearson è autore dei corsi di filosofia Pensiero in movimento e Il gusto del pensare (Paravia, 2019).

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