Studiare e insegnare filosofia: un percorso a ostacoli per le donne

FILOSOFIA PER IL NOSTRO TEMPO. MATERIALI E RIFLESSIONI

La filosofia ha rappresentato a lungo un tipo di sapere sostanzialmente precluso alle donne, e non soltanto in Italia. E ancora oggi la percentuale di donne nei ruoli apicali della ricerca in campo filosofico è bassa e si avvicina a quella delle scienze STEM.

Liviana Gazzetta

Un sapere maschile per eccellenza

Gli studi di genere riflettono da decenni sulle ragioni dell’esclusione, prima, e del ritardo, poi, nell’accesso femminile all’istruzione superiore e ad alcuni ambiti disciplinari particolari più che in altri: tra questi, è noto che la filosofia ha rappresentato a lungo un tipo di sapere sostanzialmente precluso, e non solo in Italia. La filosofa Adriana Cavarero1 ha coniato il termine di “fallologocrazia” per segnalare il legame intrinseco tra la gerarchia sessuale delle società patriarcali e il ruolo che la filosofia vi ha esercito come sapere per eccellenza maschile.
In età contemporanea, mentre si afferma il sistema pubblico d’istruzione, agli ostacoli via via decrescenti nel campo dello studio e della formazione disciplinare si è collegata tutta una serie di barriere nelle professioni connesse a questo ambito, emblematicamente rappresentate dall’esclusione delle donne dall’insegnamento della filosofia durante il Ventennio. E ancora oggi la percentuale di donne nei ruoli apicali della ricerca in campo filosofico si avvicina a quella delle scienze STEM, delle scienze cosiddette “dure”. Certo la coscienza di questo gap specifico attraversa la storia dei movimenti femministi in età contemporanea. Basti pensare all’importanza che già nel 1870 il periodico femminista “La Donna” diede alla chiamata di Anna Maria Mozzoni (1837-1920)2 a insegnare filosofia morale nel liceo femminile privato “M. Gaetana Agnesi” di Milano.

Donne e istruzione superiore nell’Italia liberale

Nel nostro paese le donne ottennero formalmente l’accesso all’università nel 1875 (Regolamento Bonghi), senza sostanziali ritardi rispetto a paesi come Francia, Inghilterra o anche Svizzera. Date le forti remore sociali esistenti nei confronti della coeducazione, molte ragazze poterono frequentare i licei solo da privatiste, finché la frequenza femminile non fu riconosciuta dalle disposizioni del Regno, circa dieci anni dopo quella universitaria. Tra il 1877 e il 1900 furono 224 le donne che conseguirono la laurea con ben 257 titoli universitari acquisiti, a conferma della forte motivazione agli studi di quante accedevano alla formazione superiore. 140 presero la laurea in lettere, 37 in filosofia, 30 in scienze naturali, 24 in medicina, 20 in matematica, 6 in legge. Come si può comprendere, tra queste pioniere, che erano per lo più di estrazione borghese, la preferenza andava alla classe di lettere e filosofia - anche fra le 31 che conseguirono la doppia laurea -, ma con una larga prevalenza per le lettere.
D’altra parte, per le donne gli studi superiori non potevano avere facilmente negli ultimi decenni del secolo un valore professionalizzante. Nell’Italia liberale ciò che era oggetto d’interdizione giuridica (ed etica) per le cittadine non era tanto lo studio di alcune discipline, quanto piuttosto l’esercizio della professione pubblica corrispondente. In seguito all’introduzione dell’istituto dell’autorizzazione maritale3 col codice civile Pisanelli, le cittadine italiane si trovavano in una condizione giuridica complessiva di minorità che poteva “giustificare” tali esclusioni agli occhi di una società formalmente liberale ma ancora molto chiusa. Basti pensare alla vicenda di Lidia Poet, seconda donna laureata nel nostro paese4, cui fu consentito di acquisire il titolo universitario in legge, a Torino, ma cui fu poi impedito di iscriversi all’albo degli avvocati e di esercitare la professione.
In questa situazione un numero non trascurabile di donne tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX arrivarono alla laurea in filosofia (o all’iscrizione a corsi universitari di filosofia) dopo aver conseguito altri titoli universitari, collegati ad uno sbocco professionale che appariva socialmente più accettabile. È il caso di Giulia Cavallari Cantalamessa (1856-1935), che si laureò in filosofia nell’83, dopo aver conseguito il titolo e l’insegnamento in lettere a Bologna; possiamo poi ricordare Maria Romano (1869-1948) che dieci anni più tardi fece esattamente lo stesso percorso, diventando docente di lingua e letteratura italiana e poi direttrice della scuola normale “Margherita di Savoia” di Roma. Ancora si può citare il caso di Maria Montessori, che a sei anni di distanza dalla laurea in medicina decideva di iscriversi al corso di laurea in filosofia.
Dal punto di vista normativo fu in età giolittiana che si avviò un processo di regolarizzazione nelle modalità di accesso alla professione d’insegnante negli istituti secondari. Tra il 1906 e il 1908 i ministri Boselli e Rava (R.D. n. 141/1906; Regolamento n. 623/1908) disposero l’obbligo del concorso per l’accesso ai ruoli dell’insegnamento secondario, ma le donne venivano ammesse ai concorsi a cattedra con la clausola per cui potevano essere assunte effettivamente solo negli istituti dove esistessero delle “classi speciali per giovinette”. La prima donna vincitrice di concorso nei licei fu, come peraltro la prima laureata, un’ebrea: Sara Treves, laureatasi a Torino con Arturo Graf (1848-1913)5 nel 1892, che dal 1910 sarà docente di lingua e letteratura italiana e latina al liceo di Asti.

Emilia Santamaria, la prima docente di filosofia in un liceo

La prima donna docente di filosofia in un liceo, allo stato degli studi, risulta essere Emilia Santamaria Formiggini (1877-1971), che a partire dal 1919 ottenne per due anni scolastici consecutivi un incarico di questo tipo presso il liceo ‘Umberto I’ di Roma. Era una fase in cui sembravano crollare molte barriere anche in ambito scolastico per effetto della legge che aboliva l’autorizzazione maritale e per l’assenza forzata che la guerra aveva prodotto per molti docenti. Emilia Santamaria era stata inizialmente indirizzata verso lo sbocco femminile “tradizionale” della scuola normale, la scuola superiore che formava all’insegnamento nelle scuole elementari, e quindi dell’Istituto superiore di Magistero: una sorta di percorso universitario “minore”, frequentato di fatto dalle maestre che aspiravano a diventare insegnanti nelle stesse scuole normali. Non soddisfatta, Emilia si iscrisse come uditrice alla facoltà di filosofia nell’anno accademico 1899-1900, e dopo aver ottenuto da privatista la licenza liceale nell’ottobre 1899, potè frequentare il corso di laurea alla Sapienza. Seguì molti corsi di Antonio Labriola, che scelse anche per la ricerca di tesi, pubblicata nel 1904 con il titolo Le idee pedagogiche di Leone Tolstoj presso l’editore Laterza. Sulla base del titolo acquisito all’Istituto di magistero, Emilia divenne insegnante di pedagogia nella scuola normale, prima a Bologna, poi a Modena e Genova: questa scelta, scontata nel contesto storico, diventerà determinante nell’orientare complessivamente la sua vita professionale. Collaborando alla casa editrice Formiggini del marito Angelo, pubblicò una serie di saggi nell’ambizioso progetto di ricostruire il tessuto scolastico preunitario del paese e nel 1916 diede alle stampe Ciò che è vivo e ciò che è morto della pedagogia di Federico Froebel, con cui decise di concorrere per la libera docenza in pedagogia presso l’Università di Roma. Ottenuta dall’anno 1918-19 tale docenza, a Roma ebbe anche un incarico di filosofia presso il liceo classico “Umberto I”; dopo la riforma Gentile del 1923, tuttavia, divenne ordinaria di pedagogia e filosofia negli istituti magistrali (che sostituirono le scuole normali nella formazione degli insegnanti elementari).

L’esclusione dall’insegnamento liceale durante il fascismo

Con la riforma Gentile fu abolita la clausola che precludeva alle donne l’insegnamento nelle classi miste o maschili. Ma ben presto furono introdotte altre discriminazioni per l’insegnamento delle discipline più “nobili” dei licei: col R. D. 9 dicembre 1926 il ministro Fedele proibì alle insegnanti la docenza delle materie umanistiche, così come Gentile aveva fatto qualche tempo prima per la funzione di preside. Il culto della classicità intesa come suprema formazione dell’intelletto e del carattere, che caratterizza la scuola superiore gentiliana, non poteva prevedere un ruolo attivo delle donne. Con questa logica furono istituiti i licei femminili, allo scopo di assorbire l’eccedenza degli istituti magistrali e “sfollare” il più possibile la scuola classica dalla presenza delle alunne.
Per l’insegnamento che qui ci interessa, la riforma Gentile aprì due percorsi, che possiamo definire maior e minor. Da una parte, la cattedra di filosofia e storia con elementi di economia politica nei licei classico e nel nuovo scientifico: in virtù del decreto Fedele questo insegnamento sarà interdetto alle donne, creando una situazione che proietterà le sue conseguenze ben oltre la fine del fascismo. Dall’altra, venne introdotta - insieme al latino - la cattedra di pedagogia e filosofia negli istituti magistrali, eredi delle scuole normali. Pur nell’asimmetria della situazione, questo insegnamento offrì un nuovo, ampio sbocco a un numero crescente di laureate in filosofia, che infatti in questi istituti rappresentarono una presenza culturale qualificata se si considera il numero delle loro pubblicazioni scientifiche.

Il percorso di Maria Sara Goretti

Tra tutte chi raggiunse la visibilità maggiore, destinata a durare fino agli anni Settanta, fu Maria Sara Goretti (1907-2001). Dopo gli studi liceali, nel 1929 Maria si era laureata in filosofia a Firenze con Ludovico Limentani(1884-1940)6, conseguendo poi anche la laurea in giurisprudenza (con Piero Calamandrei). Certo vicina alla cultura del regime, dal ’34 si distinse anche per la partecipazione all’attività di gruppi futuristi quali il “Gruppo Bolognese Guglielmo Marconi” e il gruppo monselicense “Savarè”. Tra il 1932 e il 1934 insegnò filosofia e pedagogia presso un istituto magistrale privato a Pistoia; entrò poi nei ruoli pubblici prima all’istituto magistrale di Forlimpopoli, quindi a S. Miniato (Pisa), infine presso il ‘Laura Bassi’ di Bologna; solo nel secondo dopoguerra ebbe il passaggio di cattedra nella classe di concorso di filosofia e storia. Accanto alla sua carriera d’insegnante, raggiunse la notorietà come studiosa e divulgatrice: spicca il lungo rapporto intrattenuto con l’editrice Le Monnier, dapprima in collaborazione col professor E. P. Lamanna, docente di filosofia all’Università di Firenze, poi in modo autonomo: una collaborazione che diede vita a una nutrita serie di manuali, antologie, traduzioni, in uso nelle scuole superiori italiane ben oltre il Ventennio.

NOTE
1 Docente di filosofia all’Università di Verona, è stata tra le fondatrici della comunità filosofica ‘Diotima’, da cui successivamente si è dissociata. Tra le sue opere di filosofia femminista si leggano Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Roma 1990 e (con F. Restaino) Le filosofie femministe, Torino 1999.
2 Autrice di numerosi saggi e fondatrice della Lega promotrice degli interessi femminili a Milano nel 1881, è stata la maggiore esponente del primo femminismo in Italia.
3 Introdotto in Francia dal Codice napoleonico del 1804 ed esteso al Regno d’Italia nel 1806, l’istituto dell’autorizzazione maritale si diffuse su tutto il territorio nazionale col Codice Pisanelli, entrato in vigore nel 1866: concepito come riequilibrio all’accesso delle donne all’asse ereditario familiare, esso prevedeva che la donna sposata dovesse ottenere esplicita autorizzazione notarile dal marito per gestire economicamente tutti i propri beni, anche quelli ereditati a titolo personale. L’istituto fu abolito nel 1919 nella stessa legge Sacchi che prevedeva anche l’accesso delle donne a (quasi) tutte le professioni.
4 La prima fu l’ebrea Ernestina Puritz Paper, proveniente da Odessa, che si laureò in medicina a Firenze.
5 Poeta e letterato, autore di numerosi studi storico-critici, fu docente di letteratura italiana all’Università di Torino.
6 Di formazione positivista, fu docente di Filosofia morale a Firenze e maestro di Eugenio Garin; autore di numerosi saggi, nel ’24 diede alle stampe, in particolare, uno studio sull’etica di Giordano Bruno con cui si distinse nettamente dall’interpretazione neoidealistica.

Bibliografia

C. Ghizzoni- S. Polenghi, L’altra metà della scuola. Educazione e lavoro delle donne tra Otto e Novecento, Educatt 2016
C. Lacaita, M.C. Fugazza, L’istruzione secondaria nell’Italia unita (1861-1901), FrancoAngeli 2013
A. Lirosi, Libere di sapere. Il diritto delle donne all’istruzione dal Cinquecento al mondo contemporaneo, Edizioni di Storia e Letteratura 2015
M. RAICHICH, Liceo, università, professioni: un percorso difficile, in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di S. SOLDANI, FrancoAngeli 1989, pp. 147-181
A. Santoni Rugiu, La lunga storia della scuola secondaria, Carocci 2007
S. SOLDANI, S’emparer de l’avenir : les jeunes filles dans les écoles et les établissements secondaires de l’Italie unifiée (1861-1911), in “Paedagogica Historica. International Journal of the History of Education”, 40 (2004), I-II, pp. 123-142

 

Liviana Gazzetta Dottore di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università degli Studi di Venezia, è docente di Storia e Filosofia presso il liceo scientifico statale ‘Enrico Fermi’ di Padova e docente a contratto presso l’Università di Padova.
I suoi interessi di studio e la sua attività di ricerca si sono sviluppati nell’ambito della Storia delle donne e della Storia di genere in età contemporanea. Tra i suoi principali saggi le monografie Cattoliche durante il fascismo. Ordine sociale e organizzazioni femminili nelle Venezie, Roma 2011 e Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma 2018. Per la Società Italiana delle Storiche ha curato, insieme con Franca Bellucci e Alessandra Celi, il volume I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia, Roma 2019.